Ci sono gesti che non si improvvisano. In questi primi mesi di pontificato, Papa Leone XIV ne ha compiuti diversi, piccoli e solenni insieme, che stanno restituendo al papato un linguaggio antico e, allo stesso tempo, sorprendentemente nuovo. Il ritorno della mozzetta con il cucullo, della stola, dei paramenti solenni: elementi che non appartengono al guardaroba personale di un pontefice, ma alla grammatica visiva della Chiesa.
Molti hanno notato, con un certo stupore, la differenza rispetto al pontificato precedente. Dopo anni in cui si era scelto di ridurre quasi a zero il linguaggio simbolico del papato, proponendo una povertà spesso ridotta a gesto esteriore e dunque fraintesa nella sua essenza, Leone XIV sembra muoversi in direzione opposta. Il suo non è un ritorno al passato per nostalgia, ma un atto di fedeltà alla forma: quella forma che, nella liturgia, non è mai semplice ornamento, bensì parte viva della sostanza stessa del mistero che la Chiesa celebra.
Non sono mancati, prevedibilmente, i commenti sterili – come quello del solito Alberto Melloni, sempre pronto a criticare gli altri, perfino il Papa, ma assai meno sollecito a spiegare il proprio operato. È curioso, infatti, che non abbia ancora chiarito il conflitto d’interessi che lo vedeva, da un lato, coordinatore di un dottorato finanziato con fondi del PNRR, e dall’altro segretario della scuola di Bologna presso la quale si svolgevano gli stage obbligatori di quel medesimo dottorato. Né ha fornito spiegazioni sull’uso – e potremmo dire la strumentalizzazione – del nome del Papa da parte della casa editrice di cui è proprietario, per promuovere libri di Antonio Spadaro attraverso diciture ingannevoli.
Melloni ha commentato le immagini del Papa mentre firmava l’Esortazione Apostolica Dilexi te con il tono sprezzante di chi confonde l’ironia con l’arroganza: «Apple Watch e mozzetta e stola», ha scritto. Come se in quell’accostamento vi fosse qualcosa di stonato. In realtà, chi osserva con occhi liberi comprende che proprio ciò che Melloni deride rivela la forza di Leone XIV: la capacità di tenere insieme tradizione e modernità, simboli antichi e strumenti contemporanei, senza sentirne la contraddizione. I veri anacronistici sono, semmai, quelli che pretendono di giudicare la libertà altrui da un recinto ideologico. Non si accorgono che il Papa, indossando la mozzetta e portando un orologio digitale, mostra una libertà intellettuale e spirituale che loro non possiedono: la libertà di chi non ha bisogno di spogliarsi dei segni per sembrare umile.
Ben più incoerente, semmai, era l’immagine di chi predicava semplicità vestendo paramenti sciatti ma costosi, circondandosi al tempo stesso di telefoni e computer di ultima generazione. E sia chiaro: sciatti, non poveri. Perché quei paramenti, che venivano acquistati appositamente, venivano fatti pagare profumatamente alla Sagrestia Pontificia. La sciatteria, però, non è mai segno di povertà evangelica, ma di disinteresse e mediocrità spirituale. La vera povertà, quella che parla di Vangelo, è sempre curata, dignitosa e trasparente. Leone XIV questo lo ha capito bene: il segno liturgico non deve dividere, ma educare. Ed è lì che la Chiesa ritrova la propria verità.
Romano Guardini – che nel suo celebre Lo spirito della liturgia definiva il culto come “dogma pregato” – spiegava che la verità cristiana, per essere viva, deve assumere corpo, spazio, gesto, colore. «Tutta la realtà divina deve tradursi in apparenza espressiva», scriveva, perché il cristianesimo non è un’idea, ma un evento incarnato. Ogni paramento, ogni linea architettonica, ogni movimento del rito - continua Guardini - deve obbedire a un’esigenza interiore, diventando “parlante”.
È qui che si capisce quanto il linguaggio dei segni non sia marginale. Quando il Papa indossa la mozzetta rossa, non compie un’operazione estetica: rende visibile una teologia. Quel piccolo mantello che abbraccia le spalle è il segno della presidenza nella comunione e, insieme, dell’appartenenza al Corpo della Chiesa. È un simbolo di unità, non di potere. Rende chiaro che chi parla non è un individuo con le proprie idee, ma il vescovo di Roma che presiede nella carità.
Allo stesso modo, la stola che ricade sulle spalle non è un accessorio ornamentale. È, fin dai primi secoli, il segno del giogo di Cristo: un simbolo di obbedienza e di servizio. L’autorità cristiana si porta sulle spalle, non si esibisce. È una linea che scende verticalmente, quasi a ricordare al ministro che la sua parola non gli appartiene. In tempi in cui ogni figura pubblica è tentata di costruire un proprio “marchio”, la stola dice esattamente il contrario: non io, ma la Chiesa.
E i paramenti solenni – già custoditi nelle sagrestie, testimonianza viva di una storia millenaria e non certo acquistati ex novo, come pure avvenne durante il pontificato di Francesco – non sono un ritorno al lusso, ma espressione di una pedagogia della fede che parla anche attraverso la bellezza: una bellezza che educa, eleva e rende visibile la dignità del Mistero che la Chiesa celebra. La liturgia, scrive ancora Guardini, è “la suprema forma dell’arte cristiana”, perché unisce la misura e la gloria, il visibile e l’invisibile. La solennità, dunque, non è teatro: è educazione dello sguardo. Insegna che il mistero di Dio merita la parte migliore della creazione.
In questo senso, Leone XIV non sta “reintroducendo” simboli desueti. Sta ricordando che nella liturgia la forma è parte del contenuto. Quando un Papa accetta di indossare la mozzetta o la stola con umile semplicità, non sta tornando indietro, ma sta riconoscendo che la verità ha bisogno di un corpo. Il segno non sostituisce la sostanza: la serve. Ed è proprio la sua sobria obbedienza alle forme della Tradizione a dare a Leone XIV quella libertà che lo distingue.
Il Pontefice, infatti, non sembra agire per reazione, come se volesse correggere o contraddire il suo predecessore. Piuttosto, appare animato da una serenità che nasce dal non dover scegliere “da che parte stare”. Non si fa dettare le scelte né dai fautori della restaurazione né dagli ideologi della discontinuità. Indossa ciò che gli viene offerto, con naturalezza, quasi a dire che la forma appartiene alla Chiesa, non all’individuo che la riveste. È un modo di vivere il ministero petrino in chiave sacramentale, non personalistica.
Guardini insiste su questo punto: nella liturgia “non dice ‘io’ ma ‘noi’”. Il soggetto che celebra è la Chiesa intera, non il singolo. L’abito, in questa prospettiva, non è maschera ma antidoto alla vanità, perché sottrae la persona al protagonismo e la inserisce in un linguaggio condiviso, ricevuto, obbedito.
C’è, in questa scelta, anche un messaggio culturale più ampio. Dopo un lungo periodo in cui ogni segno di formalità ecclesiastica è stato letto come distanza o potere, Leone XIV sta mostrando che la forma non esclude la prossimità, ma può renderla più vera. È il paradosso cristiano: più ci si lascia plasmare da ciò che non è nostro, più si diventa autentici. La semplicità, senza forma, diventa trascuratezza; la forma, senza semplicità, diventa ostentazione. Leone XIV, invece, sta cercando un equilibrio più profondo: la misura, quella “sobria ebrietà dello Spirito” di cui parlava Guardini.
Non è un dettaglio estetico, ma un criterio di governo. Un Papa che si mostra libero di accogliere ciò che la Tradizione gli consegna dimostra di non essere schiavo né del consenso né dell’ideologia. È un modo silenzioso ma eloquente per dire che il ministero petrino non è un profilo mediatico, ma una realtà teologica che vive di simboli concreti.
Chi osserva con attenzione questi primi mesi di pontificato percepisce questa libertà come un respiro. Dopo anni di comunicazione esasperata, di gesti studiati per “parlare” al mondo, vedere un Papa che lascia parlare i segni stessi appare come una forma di disarmo evangelico. Non c’è la volontà di impressionare, ma la scelta di lasciarsi interpretare da ciò che la Chiesa è da sempre.
Molti fedeli, anche tra i più giovani, colgono questo messaggio senza bisogno di spiegazioni teologiche. Perché i segni parlano da soli: restituiscono alla Chiesa il suo linguaggio nativo, quello che unisce la verità e la bellezza, la povertà e la solennità, la libertà e l’obbedienza. In un’epoca che ha sostituito il ragionamento con l’immagine, la liturgia resta forse l’ultimo luogo dove l’immagine educa invece di sedurre.
Quando Leone XIV si presenta al Quirinale con la mozzetta e il cucullo, il gesto ha un peso che va oltre il tessuto. Ricorda al mondo che il Papa non entra come un privato cittadino, ma come il successore di Pietro, rappresentante visibile di una comunione universale. È un segno che restituisce dignità al ruolo e verità alla missione. E che mostra come la Chiesa possa dialogare con le istituzioni civili senza rinunciare alla propria forma, anzi proprio grazie ad essa.
Ciò che colpisce, in definitiva, non è la ricchezza dei paramenti ma la povertà dell’intenzione con cui vengono portati. Nessun compiacimento, nessuna teatralità. Solo la consapevolezza che ogni gesto, quando è vero, diventa preghiera. È questo che fa dei segni non un oggetto di discussione, ma una lingua viva della fede. La liturgia, dice ancora Guardini, non è una somma di atti, ma “una vita che scorre da Dio verso l’uomo e ritorna a Dio”. In questo flusso, la veste, il gesto, la musica, la parola si uniscono come membra di un unico corpo. Recuperare i segni del papato significa, allora, rientrare nel respiro della Chiesa. Non è un ritorno al passato, ma un atto di fedeltà all’essenziale: il Mistero che prende forma, visibile e quotidiana, per continuare a parlare al mondo.
In un tempo in cui tutto tende a semplificare e a sfigurare, Leone XIV sta compiendo un gesto profondamente controcorrente: sta restituendo spessore simbolico al servizio di Pietro. E, senza proclami, sta ricordando a tutti che la vera riforma non consiste nel cancellare ciò che siamo stati, ma nell’abitare con libertà ciò che la Chiesa ci consegna. Perché la Tradizione, quando è viva, non imprigiona: libera e unisce.
d.R.T. e F.P.
Silere non possum