Milano - «Trovo allucinante che il sindaco apprenda da un giornale di essere indagato e non dalla Procura. Si tratta di un metodo inaccettabile». Con queste parole, oggi in Consiglio Comunale, il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha commentato con amarezza quanto accaduto nelle ultime ore: la sua iscrizione nel registro degli indagati per una doppia ipotesi di reato — appresa, non per via istituzionale, ma dai giornali.

Secondo quanto riferito da Sala, il Pubblico Ministero avrebbe giustificato il silenzio affermando che non era necessario notificare nulla all’indagato, dal momento che non erano stati compiuti atti per i quali la legge prevede una formale comunicazione. E tuttavia — ed è qui che si apre la questione — il sindaco ha posto una domanda tanto semplice quanto bruciante: se davvero non era necessario informare l’indagato, com’è possibile che l’informazione sia arrivata a un giornalista? Chi ha fatto da tramite? E soprattutto: con quale finalità?

I nomi dietro l’inchiesta

L’indagine porta la firma di tre pubblici ministeri: Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Tiziana Siciliano. Non si tratta di nomi sconosciuti. Anzi, la loro storia giudiziaria è costellata di procedimenti che hanno attirato l’attenzione della stampa, generando aspettative mediatiche tanto roboanti quanto, spesso, disattese nelle aule di giustizia. Un tratto comune che andrebbe indagato non solo sul piano dell’efficacia investigativa, ma anche — e forse soprattutto — sul piano etico e sistemico.

Le ipotesi di reato mosse contro Sala sono due:

1. False dichiarazioni sulle qualità personali proprie o altrui, con riferimento alla nomina dell’ex presidente della Commissione per il Paesaggio del Comune di Milano, Giuseppe Marinoni;

2. Concorso in induzione indebita a dare o promettere utilità, legato al progetto del cosiddetto “Pirellino”, firmato dall’architetto Stefano Boeri e promosso dall’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima.

Ma non è questo il nodo centrale. L’obiettivo di questa riflessione non è accertare la colpevolezza o l’innocenza di Sala. È invece gettare luce su una questione ben più vasta e strutturale: il rapporto — sempre più torbido — fra magistratura e informazione. Un’analisi che intende andare ben oltre il caso milanese, per allargare lo sguardo a ciò che accade in molti — troppi — uffici di Procura lungo tutta la penisola, in quello che, non senza ironia, continuiamo a chiamare il Bel Paese.

Un sistema opaco e irresponsabile

Chiamiamoli con il loro nome: non giornalisti, ma spesso giornalai. Il termine non è una provocazione gratuita, ma la constatazione di una deriva del giornalismo giudiziario italiano, che si è piegato da anni alla logica del “velinismo”, ossia della riproduzione acritica delle versioni fornite da fonti interne alla magistratura, a volte persino confidenziali o coperte da segreto istruttorio.

In un qualsiasi ufficio pubblico o privato, quando si verifica un illecito, a risponderne è il dirigente responsabile. Nelle Procure della Repubblica, invece, questo principio sembra capovolgersi: la responsabilità si dissolve, si frantuma, si dissolve nella nebbia del “non si sa chi ha parlato”. Non vengono avviate indagini interne, non si muove alcunché.  

Ma è davvero accettabile che, quando un atto coperto da segreto finisce sui giornali, non si identifichi mai un responsabile? È credibile che sia stata la donna delle pulizie a fotocopiare l’atto? O forse è tempo di affermare con chiarezza un principio: il titolare dell’inchiesta è responsabile della riservatezza dell’inchiesta stessa. Punto. Non servono analisi sociologiche, solo buon senso e cultura della responsabilità.

Non “fughe di notizie”, ma strategia

Il vero scandalo è che in Italia da tempo non si assiste a “fughe di notizie” ma a trasmissioni mirate e intenzionali di atti o contenuti da parte di persone che intendono orientare il dibattito pubblico o, più semplicemente, spostare gli equilibri politici. È una strategia di comunicazione, non un incidente di percorso.

E mentre questo sistema opaco prolifera, assistiamo al paradosso di giornalisti che fanno davvero inchieste — pensiamo ai casi di Report o Fanpage fra i tanti — sottoposti a perquisizioni, decreti di sequestro, e addirittura procedimenti penali. Tutto ciò mentre coloro che pubblicano fedelmente la versione dei fatti della pubblica accusa, spesso ottenuta in violazione di legge, non vengono mai sfiorati da provvedimenti.

È una giustizia a due velocità, una stampa a una sola voce. Perché da via al do ut des, io ti consegno l’atto e tu lo pubblichi, poi quando avrai bisogno di aiuto io te lo darò disponendo la perquisizione ai danni di qualcuno che tu mi chiedi di colpire oppure facendo andare veloce il procedimento che mi hai chiesto di fare. Sono numerosi i procedimenti penali che riguardano alcuni giornalisti, che non riguardano neppure la loro attività professionale, che sono fermi sulle scrivanie delle procure perché l’indagato è amico del pubblico ministero. Inutile negarlo.

Tra media, Procure e politica: una triangolazione inquietante

L’intervento di Giuseppe Sala si colloca all’interno di un quadro che non è nuovo. Non serve risalire ai tempi di “Mani Pulite” per comprendere la potenza distruttiva — e talora ricattatoria — di un’alleanza tacita fra certa magistratura e certa stampa. Silvio Berlusconi ne fu, per anni, bersaglio privilegiato: un processo di delegittimazione progressiva, attuato anche con la complicità di una narrazione mediatica che non faceva sconti.

Negli ultimi tempi, questa dinamica ha colpito anche esponenti della sinistra, forse fino ad allora meno sensibili al problema. Si pensi al caso di Matteo Renzi, oggetto di una campagna giudiziaria e mediatica che ha coinvolto tutta la sua famiglia, con tempistiche e modalità che fanno pensare a un disegno piuttosto che a una coincidenza. Il tutto è finito in un flop. È dunque necessario porre alcune domande, che non sono solo giuridiche, ma politiche, istituzionali e morali: è normale che un’indagine coperta da segreto finisca su un quotidiano prima ancora di essere notificata all’interessato? È accettabile che a rispondere del danno non sia mai il magistrato titolare, ma un generico “nessuno”? Non è forse il caso di introdurre una fattispecie di reato per la violazione del segreto istruttorio, con pene effettive per chi trasmette tali contenuti alla stampa? Non è forse il momento di prevedere norme deontologiche e disciplinari chiare per i magistrati che presenziano nei talk show televisivi o rilasciano dichiarazioni ai giornali, invece di parlare solo attraverso gli atti?

Una questione di equità e civiltà giuridica

Il magistrato, in quanto funzionario pubblico, non è al di sopra della legge. Non può esserlo. E se percepisce uno stipendio di ottomila euro al mese, è lecito aspettarsi che possa rinunciare alle luci dei riflettori, alle ospitate in televisione, alle interviste ad effetto. Il suo mestiere non è fare comunicazione, ma applicare la legge con rigore, discrezione e imparzialità. Non si tratta di demonizzare la magistratura, ma di chiederle di essere all’altezza del suo ruolo costituzionale. Non si tratta di imbavagliare la stampa, ma di pretendere che essa sia libera, plurale e responsabile. Il giornalista deve essere libero di indagare a 360° gradi, non può essere il portavoce o l’ufficio stampa del Procuratore della Repubblica.

Oggi è toccato a Giuseppe Sala, domani potrebbe toccare a chiunque. Come ha detto lo stesso sindaco: «Oggi tocca a me, domani a qualcun altro». Ed è proprio questa alternanza arbitraria a rendere evidente che nessuno è davvero al sicuro in un sistema in cui la verità processuale viene surclassata dalla versione giornalistica della Procura.

Chi ha a cuore la democrazia, non può accettare questo stato di cose. La vera riforma della giustizia — quella che manca da trent’anni — non può più attendere.


L.S.
Silere non possum