Con il Motu Proprio «Authenticum charismatis» il Santo Padre Francesco ha stabilito: «Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto valide erigere possunt, praevia licentia Sedis Apostolicae scripto data». In realtà, già nell'anno 2016 un primo passo fu fatto quando, il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di vita apostolica, aveva ottenuto dal Pontefice un rescritto con il quale veniva stabilito che la "consultazione" della Santa Sede diveniva "necessaria ad validitatem per l’erezione di un Istituto diocesano di vita consacrata, pena la nullità del decreto di erezione dell’Istituto stesso".
Questi interventi del Supremo Legislatore si sono resi necessari a seguito di numerose approvazioni, permissioni, benedizioni di nuove realtà che si sono rivelate seriamente problematiche. In merito Silere non possum ha spesso parlato di "abusi spirituali", "abusi di coscienza" e "abusi di autorità". Il Libro "Schiacciare l'Anima" del Reverendo P. Dysmas De Lassus rende bene l'idea su queste comunità che spesso sono il luogo di rifugio di personalità fragili.
Vigilare è necessario
Mentre le vocazioni negli Istituti e negli Ordini già costituiti sono sempre più in calo, troviamo sull'altro piatto della bilancia una pletora di persone (uomini, ma soprattutto donne) che hanno la "sindrome del fondatore". I social network, a volte, ci offrono uno spaccato di una realtà che è oggettivamente problematica. Pensiamo a quei giovani sacerdoti che sono inviati dal proprio Arcivescovo nella Parrocchia X e nell'Oratorio X. Quando vedono che quella realtà "sta stretta" fondano gruppi, realtà, associazioni. Sono modi per fuggire da quel "qui ed ora" che l'obbedienza chiama a vivere. Nella confusione odierna, poi, fanno leva su un comportamento che anche il Pontefice utilizza ed è quello di scavalcare i legittimi superiori.
Sempre per rimanere nel medesimo contesto, nei giorni scorsi qualche prelato del sud Italia ha pensato bene di lanciare una frecciatina contro l'Arcivescovo di Milano: «Dopo ciò che ha detto a Como per Cantoni ora fa le battute sulla nomina del vescovo di Crotone». Spiace dover spiegare a queste eminenti e "studiate" eccellenze che è, perlomeno, "inusuale" prendere un uomo di Milano e spedirlo in Calabria. Per questo l'Arcivescovo si è detto "sorpreso" e non lo ha fatto solo lui ma anche lo stesso arcivescovo eletto. Oggi, però, l'andazzo di Santa Marta è questo. Non si tiene conto del presbiterio, della realtà che il vescovo lascia, della realtà che lo accoglie. Nulla. Se in passato si favoriva la nomina di presuli della Regione Ecclesiastica un motivo c'era. È molto più probabile che il sacerdote calabro conosca meglio la realtà di Crotone piuttosto che un prete meneghino. All' ex Arcivescovo di Buenos Aires, però, sembra non importare nulla dell'aspetto umano ma è più impegnato a fare i dispetti da bambino incattivito.
Senza dimenticare che i legittimi superiori, appunto, non vengono mai consultati. Si ritrovano sulla scrivania la nomina che, solitamente, arriva dopo che il Nunzio ha già parlato con l'eletto e questo ha già accettato. Questo sistema favorisce le "cantonate" (per rimanere in tema Como) e "gli innamoramenti" dell'inquilino di Santa Marta. La Chiesa ha sempre avuto delle procedure e sono queste da millenni per un motivo ben preciso. La consultazione del clero della diocesi, il parere dei formatori, del vescovo in cui è incardinato il sacerdote e poi il giudizio del Dicastero competente. Tutti passaggi che diventano necessari, con le dovute indagini, in modo particolare in un tempo come quello attuale che "non perdona niente e tutto resta in rete. Non si cancella nulla!"
Per questo sono aumentati i pellegrinaggi, non certo giubilari, a Santa Marta da parte di sacerdoti alla don Marco Pozza Style. In diocesi c'è chi fa il diavolo che gli pare e poi a Santa Marta si presenta con la coda fra le gambe: i confratelli sono cattivi, il vescovo non mi capisce, ecc...Tutte queste pratiche sono pericolose ed hanno portato a problemi seri. Per tornare a coloro che hanno la "sindrome del fondatore", quindi, accade che se "l'Arcivescovo non approva la mia iniziativa" allora "io vado in un'altra diocesi e la faccio approvare dal mio amico cardinale". Questo accade anche perché questi porporati, di nomina post 2013 in particolare, non hanno alcun rispetto dei confratelli e non si chiedono se per caso il loro confratello, più anziano e più maturo di loro, magari aveva un motivo per non approvare.
Comunità religiose, gruppi giovanili e ordini nascenti. Un grande caos. Con questo Motu Proprio del 1 novembre 2020 si è cercato di accentrare il tutto in un Dicastero che già sta implodendo per i numerosi casi di abusi di autorità. Recentemente abbiamo parlato del caso che riguarda la comunità di Piana degli Albanesi. Questo accentramento, però, è necessario perché molti vescovi agiscono con superficialità e si affidano al "prete amico della comunità", "il rettore amico del santuario dove le nuove suorine sono", ecc..., la valutazione della realtà nascente.
Poi, quando scoppia lo scandalo, corrono ai ripari dicendo: "Chi io? Ah non sapevo nulla!". Eppure, è così semplice da capire. Nelle nostre diocesi non sempre abbiamo le competenze per valutare realtà così complesse e non possiamo affidarci a "pseudo canonisti" che vedono la Madonna dappertutto e amano strusciarsi a giornalisti che criticano la Chiesa notte e giorno.
Bisogna essere prudenti soprattutto verso quelle realtà che presentano una apparente "misticità". Sono diverse, infatti, quelle comunità che sono guidate da giovani donne e vengono seguite da altre ragazze molto giovani che non hanno la capacità e l'elasticità mentale di attuare una regola. È stato questo un grande problema della comunità delle Suore Francescane dell'Immacolata fondate da Padre Stefano Manelli. Quella intuizione santa che portava con sé ottime intenzioni è divenuta, con il tempo, una rigidità che ha portato a lacerazioni. Oggi di queste realtà, a livello diocesano, ce ne sono diverse e alcune prendono addirittura nomi simili.
Padre Dysmas De Lassus scrive: «Le regole debbono dunque discendere dalla forma di vita religiosa propria dell'istituto. Perciò esse debbono essere, in un modo o in un altro, legate a Cristo, all'unicità della vita di Cristo, che il carisma proprio dell'istituto cerca di seguire. Per i contemplativi, esse saranno legate ai quaranta giorni di Cristo nel deserto o alla sua vita nascosta a Nazaret. Per una vocazione apostolica, lo saranno al suo ministero di predicatore. Si può immaginare Gesù che passa il tempo, la sera, sui videogiochi, mentre le folle sono «come pecore senza pastore»? Un secondo criterio, legato al precedente, considererà l'oggetto dell'interdizione».
E qui si affronta un tema molto serio che riguarda anche la vita dei chierici: la comunicazione, la maturità nel comunicare. Solitamente, spiega De Lassus, quando ci sono delle limitazioni ingiustificate sulla comunicazione significa che c'è qualcosa che non funziona. A volte si visitano queste realtà, anche quando è chiamato a farlo il visitatore apostolico in nome della Santa Sede, e si vedono queste suorine che tacciono, in atteggiamento sottomesso, verso la "superiora" che è l'unica ad intervenire. «Se la limitazione delle comunicazioni con l'esterno è normale nel quadro di una vita monastica e deriva dalla scelta di una vita contemplativa, quando invece verte su una restrizione della parola che non scaturisce più dalla vocazione e risponde a tutt'altra motivazione, la situazione cambia totalmente - spiega De Lassus. La restrizione che ha come scopo di proteggere la vocazione, e che è una conseguenza della forma di vita scelta, è normale. La restrizione che ha come scopo il tentativo che non si sappia all'esterno ciò che avviene all'interno, non lo è più. In un contesto in cui è permesso parlare o scrivere, la parola dovrebbe restare libera. Durante una visita della famiglia o quando scrive, il religioso deve poter parlare liberamente di ciò che vuole, compresi i propri dubbi se lo desidera, con le sole limitazioni delle buone maniere. Allorché una disciplina di segretezza si inserisce nelle relazioni che la vocazione permette, è consentito esprimere un interrogativo: perché dunque il segreto?». E si domanda il Priore Generale dell'Ordine Certosino: «A questa domanda se ne aggiunge un'altra: qual è l'estensione del segreto? Se si estende ad ogni persona che viene dall'esterno - famiglia, amici, confessore ecc. -, non si sta forse mettendo in piedi una pratica di isolamento che non ha più niente a che vedere col preservare la vita interiore? Se la disciplina del segreto si inserisce in una struttura piramidale e in un pensiero unico, una buona parte degli elementi di una deriva settaria sono messi in atto. Infatti, in un quadro di questo genere i membri della comunità che potrebbero avere dei dubbi non hanno più la possibilità di confrontarli con qualcun altro, né all'interno, per effetto della struttura piramidale, né all'esterno, a causa del segreto. Non si sta forse cercando di allontanare ogni rischio di dissenso, cosa che rende ogni potere totalitario? Nella pratica, questo tipo di deriva si traduce con l'interdizione ad avere scambi all'esterno con le persone, in particolare con la famiglia o i confessori, su tutto ciò che concerne la vita della comunità e la vita personale del religioso. Nell'impossibilità di spiegare le vere ragioni di questo divieto sono presentati altri motivi più accettabili: la necessità di lavare i panni sporchi in famiglia o quella di conservare i segreti di famiglia, perché «non ci capirebbero» o, anche, la parola un po' enigmatica di Gesù: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci» (Mt 7,6). Queste precauzioni possono avere qualche buona motivazione, cosa che rende più difficile il discernimento della soglia oltre la quale una raccomandazione di buon senso diventa un bavaglio. Un po' di discrezione sui piccoli difetti dei fratelli o delle sorelle e sui piccoli pettegolezzi della comunità non fa male. Ma quando si tratta di un disagio profondo vissuto dal religioso o dalla religiosa, impedirgli di parlare con persone esterne vuol dire obbligarlo a chiudersi nel suo malessere e rifiutargli ogni possibilità di trovare la luce».
È necessario, quindi, porre molta attenzione su queste realtà e, piuttosto che permettere un servizio in determinati santuari con tanto di abito religioso e professioni, sarebbe doveroso sottoporre la vita di queste giovani donne e questi giovani uomini al vaglio di presbiteri preparati e che possano seriamente valutare, senza partigianerie, la genuinità di un carisma piuttosto che patologie psicologiche.