Sabato 28 settembre 2024 Papa Francesco si è recato presso la Basilica del Sacro Cuore di Koekelberg per incontrare i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali. Diverse persone hanno offerto la loro testimonianza: un sacerdote, due laici (un uomo ed una donna) ed una religiosa. Il Papa, rispondendo alle loro considerazioni ha detto: «Misericordia è una parola-chiave per i carcerati. Quando io entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre. È giusto, allora, seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali; ma la pena dev’essere una medicina, deve portare alla guarigione. Bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia, sempre, sempre misericordia». Al termine ha concluso ricordando: «Sorelle e fratelli, vi ringrazio. E nel salutarvi vorrei ricordare un’opera di Magritte, vostro illustre pittore, che si intitola “L’atto di fede”. Rappresenta una porta chiusa dall’interno, che però è sfondata al centro, è aperta sul cielo. È uno squarcio, che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi, mai in noi stessi. Questa è un’immagine che vi lascio, come simbolo di una Chiesa che non chiude mai le porte – per favore, non chiude mai le porte! –, che a tutti offre un’apertura sull’infinito, che sa guardare oltre. Questa è la Chiesa che evangelizza, vive la gioia del Vangelo, pratica la misericordia».




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono felice di essere qui in mezzo a voi. Ringrazio Mons. Terlinden per le sue parole e per averci ricordato la priorità di annunciare il Vangelo. Grazie a tutti voi.

In questo crocevia che è il Belgio, voi siete una Chiesa “in movimento”. Infatti, da tempo state cercando di trasformare la presenza delle parrocchie sul territorio, di dare un forte impulso alla formazione dei laici; soprattutto vi adoperate per essere Comunità vicina alla gente, che accompagna le persone e testimonia con gesti di misericordia.

Prendendo spunto dalle vostre domande, vorrei proporvi alcune tracce di riflessione attorno a tre parole: evangelizzazione, gioia, misericordia.

La prima strada da percorrere è l’evangelizzazione. I cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo, perché a tutti venga nuovamente annunciata la buona notizia che Gesù ha portato nel mondo, facendone risplendere tutta la bellezza. La crisi – ogni crisi – è un tempo che ci è offerto per scuoterci, per interrogarci e per cambiare. È un’occasione preziosa – nel linguaggio biblico si dice kairòs, occasione speciale – come è successo ad Abramo, a Mosè e ai profeti. Quando sperimentiamo la desolazione, infatti, sempre dobbiamo chiederci quale messaggio il Signore ci vuole comunicare. E cosa ci fa vedere la crisi? Siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo “di minoranza”, o meglio, di testimonianza. E questo richiede il coraggio di una conversione ecclesiale, per avviare quelle trasformazioni pastorali che riguardano anche le consuetudini, i modelli, i linguaggi della fede, perché siano realmente a servizio dell’evangelizzazione (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 27).

E vorrei dire a Helmut: anche ai preti è richiesto questo coraggio. Essere preti che non si limitano a conservare o gestire un patrimonio del passato, ma pastori, pastori innamorati di Cristo e attenti a cogliere le domande di Vangelo – spesso implicite – mentre camminano con il Popolo santo di Dio; e noi camminiamo un po’ davanti, un po’ in mezzo e un po’ in fondo. E quando portiamo il Vangelo – penso a quello che ci ha detto Yaninka – il Signore apre i nostri cuori all’incontro con chi è diverso da noi. È bello, anzi è necessario che tra i giovani ci siano sogni e spiritualità diverse. Dev’essere proprio così, perché tanti possono essere i percorsi personali o comunitari, che ci conducono però alla stessa meta, all’incontro con il Signore: nella Chiesa c’è spazio per tutti – tutti, tutti! – e nessuno dev’essere la fotocopia dell’altro. L’unità nella Chiesa non è uniformità, ma è trovare l’armonia delle diversità! E anche ad Arnaud direi: il processo sinodale dev’essere un ritorno al Vangelo; non deve avere tra le priorità qualche riforma “alla moda”, ma chiedersi: come possiamo far arrivare il Vangelo in una società che non lo ascolta più o si è allontanata dalla fede? Chiediamocelo tutti.

Seconda strada: la gioia. Non parliamo qui delle gioie legate a qualcosa di momentaneo, né possiamo assecondare i modelli dell’evasione e del divertimento consumistico. Si tratta di una gioia più grande, che accompagna e sostiene la vita anche nei momenti oscuri o dolorosi, e questo è un dono che viene dall’alto, da Dio. È la gioia del cuore suscitata dal Vangelo: è sapere che lungo il cammino non siamo soli e che anche nelle situazioni di povertà, di peccato, di afflizione, Dio è vicino, si prende cura di noi e non permetterà alla morte di avere l’ultima parola. Dio è vicino, vicinanza. Molto prima di diventare Papa, Joseph Ratzinger scrisse che una regola del discernimento è questa: «Dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo […] e viceversa: la gioia è un segno della grazia» (Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1978, 129). È bello! E allora vorrei dirvi: che il vostro predicare, il vostro celebrare, il vostro servire e fare apostolato lasci trasparire la gioia del cuore, perché questo suscita domande e attira anche coloro che sono lontani. La gioia del cuore: non quel sorriso finto, del momento, la gioia del cuore. Ringrazio Suor Agnese e le dico: la gioia è la strada. Quando la fedeltà appare difficile, dobbiamo mostrare – come tu hai detto, Agnese – che essa è un “cammino verso la felicità”. E, allora, intravedendo dove conduce la strada, si è più pronti a iniziare il cammino.

E terza via: la misericordia. Il Vangelo, accolto e condiviso, ricevuto e donato, ci conduce alla gioia perché ci fa scoprire che Dio è il Padre della misericordia, che si commuove per noi, che ci rialza dalle nostre cadute, che non ritira mai il suo amore per noi. Fissiamo questo nel cuore: mai Dio ritira il suo amore per noi. “Ma Padre, anche quando ho commesso qualcosa di grave?”. Mai Dio ritira il suo amore per te. Questo, davanti all’esperienza del male, a volte può sembrarci “ingiusto”, perché noi applichiamo semplicemente la giustizia terrena che dice: “Chi sbaglia deve pagare”. Tuttavia la giustizia di Dio è superiore: chi ha sbagliato è chiamato a riparare i suoi errori, ma per guarire nel cuore ha bisogno dell’amore misericordioso di Dio. Non dimenticatevi: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre; è con la sua misericordia che Dio ci giustifica, cioè ci rende giusti, perché ci dona un cuore nuovo, una vita nuova.

Perciò a Mia direi: grazie per il grande lavoro che fate per trasformare la rabbia e il dolore in aiuto, vicinanza e compassione. Gli abusi generano atroci sofferenze e ferite, minando anche il cammino della fede. E c’è bisogno di tanta misericordia, per non rimanere col cuore di pietra dinanzi alla sofferenza delle vittime, per far sentire loro la nostra vicinanza e offrire tutto l’aiuto possibile, per imparare da loro – come hai detto tu – a essere una Chiesa che si fa serva di tutti senza soggiogare nessuno. Sì, perché una radice della violenza consiste nell’abuso di potere, quando usiamo i ruoli che abbiamo per schiacciare gli altri o per manipolarli.

E misericordia – penso al servizio di Pieter – è una parola-chiave per i carcerati. Quando io entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre. È giusto, allora, seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali; ma la pena dev’essere una medicina, deve portare alla guarigione. Bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia, sempre, sempre misericordia.

Sorelle e fratelli, vi ringrazio. E nel salutarvi vorrei ricordare un’opera di Magritte, vostro illustre pittore, che si intitola “L’atto di fede”. Rappresenta una porta chiusa dall’interno, che però è sfondata al centro, è aperta sul cielo. È uno squarcio, che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi, mai in noi stessi. Questa è un’immagine che vi lascio, come simbolo di una Chiesa che non chiude mai le porte – per favore, non chiude mai le porte! –, che a tutti offre un’apertura sull’infinito, che sa guardare oltre. Questa è la Chiesa che evangelizza, vive la gioia del Vangelo, pratica la misericordia.

Sorelle e fratelli, camminate insieme, voi e lo Spirito Santo, insieme, e praticate la misericordia, per essere Chiesa così. Senza lo Spirito, non succede nulla di cristiano. Ce lo insegna la Vergine Maria, nostra Madre. Lei vi guidi e vi custodisca. Benedico tutti di cuore. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!