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Città del Vaticano - Il 9 giugno 2025 si è celebrato in Vaticano il Giubileo della Santa Sede. Un appuntamento dal forte valore simbolico, che coinvolge non solo il Romano Pontefice, ma l’intera struttura che lo assiste nel governo della Chiesa universale. Il Codice di diritto canonico precisa infatti che, con il nome di Sede Apostolica o Santa Sede, si intendono — a meno che il contesto non suggerisca altrimenti — non solo il Papa, ma anche la Segreteria di Stato, il Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa e gli altri Organismi della Curia romana.

Sperare è vivere per l’eternità
Alle ore 10 Suor Maria Gloria Riva, Adoratrice Perpetua del Santissimo Sacramento, ha offerto al Pontefice e alla Santa Sede una intensa e interessante meditazione. Riva ha saputo intrecciare sapienza biblica, profondità spirituale e raffinata cultura, offrendo ai presenti un’autentica catechesi sulla speranza, tema centrale del Giubileo 2025. Una virtù spesso dimenticata ma oggi più che mai necessaria. Muovendo dal significato ebraico del termine tikva, che richiama l’immagine di una corda tesa tra passato e futuro, ha proposto una visione della speranza come tensione vitale, capace di evitare sia il ripiegamento nostalgico sia l’illusione futurista. Con un riferimento al “Figlio prodigo” di de Chirico, ha mostrato come l’arte possa diventare parabola dell’uomo moderno smarrito, ma anche occasione di ritorno al Padre. La sua riflessione si è poi soffermata sui pericoli del nostro tempo: la perdita delle radici, il predominio dei mezzi di comunicazione, il rischio di vivere senza direzione.
«Rischiamo oggi di vivere nella nostalgia di un passato che non è più, e che sfocia in un tradizionalismo spesso scollegato dal presente, oppure di correre verso un futuro che ancora non c’è, cadendo in un futurismo illusorio, incapace di offrire reali soluzioni alle sfide del presente. Il passato, in verità, con i suoi dolori e le sue glorie, può rappresentare un grande trampolino di lancio per vivere nella giusta tensione il presente», ha detto.
Riecheggiando Sant’Agostino, ha ribadito che non si corre bene se non si sa verso dove si corre, indicando nella vita eterna e nella risurrezione di Cristo l’unico orizzonte che non delude. La speranza, ha detto con accenti agostiniani e peguyani, è quella “piccola bambina” che accompagna la fede e la carità e ci aiuta a leggere la storia con occhi di stupore e con cuore umile, gli unici capaci di riconoscere il bene anche nel dolore. Fondamentale in questo cammino è l’Eucaristia, sacramento che annoda passato, presente e futuro, luogo in cui la fede, la carità e la speranza si fanno carne. Ha ricordato come la fondatrice del suo Ordine, la beata Maria Maddalena dell’Incarnazione, ricevette da Gesù stesso l’invito a fondare a Roma, accanto al Papa, un monastero che fosse faro di adorazione e intercessione per la Chiesa intera, specialmente nei tempi di crisi.
Infine, suor Riva, ha evocato la “Madonna di Port Lligat” di Salvador Dalí come immagine potente della Vergine Maria che custodisce, anche tra le rovine, le possibilità di rinascita e salvezza. Al centro del grembo di Maria, come al centro della storia, vi è il Bambino Gesù; e al centro del Bambino, vi è il Pane Eucaristico, segno sublime della sapienza divina che sostiene l’universo. In questo mistero, suor Maria Gloria ha indicato la via sicura della speranza cristiana: radicarsi nell’Eucaristia, lasciarsi guidare da Maria, e confidare che la bellezza della Croce, accolta e offerta, può ancora salvare il mondo.

Servire la Santa Sede? Cercare di essere santi
Terminata la meditazione, il Santo Padre Leone XIV ha preso in mano la croce giubilare e, in silenzio orante, ha dato inizio alla processione verso la Porta Santa. Dietro di lui, cardinali, vescovi, sacerdoti e laici. Ma questi ultimi sembravano vivere quel momento più come una passeggiata a Villa Borghese che come un gesto di raccoglimento e penitenza.
Quello a cui abbiamo assistito oggi rappresenta la più chiara e desolante conseguenza di anni di familismo amorale dilagante tra le mura leonine: un’immagine imbarazzante, a tratti grottesca, dello stato attuale della Curia romana. Nell’Aula Paolo VI sfilavano volti che con la Santa Sede non c'entrano nulla, se non per l’appartenenza a reti di favori e complicità. “Amici degli amici”, arruolati non per merito ma per convenienza, figure inutili che non solo non offrono alcun contributo, ma spesso sono proprio gli artefici del chiacchiericcio velenoso e della zizzania. Eppure, si infiltrano nei momenti riservati, solo per poter vantare la loro presenza in occasioni esclusive.
Durante la processione c’erano laici come Paolo Ruffini, completamente distratti, che si guardavano spaesati attorno, ridevano e chiacchieravano, occhiali da sole calati e sguardi vacui: un’atmosfera da gita fuori porta, non certo da Giubileo. Che esempio offrono questi primi collaboratori del Papa al mondo che li osserva? La preghiera sembra essere un concetto sconosciuto per queste persone, e il raccoglimento appare solo tempo perso. Sul palco dell’Aula Paolo VI, al termine della meditazione della religiosa, ha preso la parola un personaggio incapace di articolare frasi compiute, inciampando più volte nelle parole.
A queste persone sono fischiate le orecchie quando il Papa, nell'omelia, ha detto: «Così la Sede Apostolica custodisce la santità delle sue radici mentre ne è custodita. Ma non è meno vero che essa vive anche nella santità di ciascuno dei suoi membri. Perciò il modo migliore di servire la Santa Sede è cercare di essere santi, ciascuno di noi secondo il suo stato di vita e il compito che gli è stato affidato»
In Basilica, mentre la processione proseguiva con il canto delle litanie, c’è chi stonava senza alcun pudore, con il microfono davanti alla bocca. Si parla spesso delle fatiche delle Chiese locali, ma qui la situazione è ben più grave. La Santa Sede oggi è lo specchio deformato di dodici anni di paralisi, promozione di amichetti e decadenza strutturale. Altro che Giubileo: forse è arrivato il momento di iniziare a firmare qualche lettera di licenziamento.

La fecondità della Chiesa dipende dalla Croce di Cristo
Alle ore 11.30 nella Basilica di San Pietro si è svolta la celebrazione eucaristica presieduta da Papa Leone XIV. La liturgia fa memoria oggi, in modo profondamente significativo, di Maria Madre della Chiesa. Questo titolo mariano, di straordinaria rilevanza teologica ed ecclesiologica, affonda le sue radici nel Concilio Vaticano II e trova piena espressione nel magistero di San Paolo VI. Fu proprio Papa Montini, infatti, ad annunciare pubblicamente il riconoscimento di tale titolo durante l’udienza generale del 18 novembre 1964, per poi proclamarlo solennemente il 21 novembre dello stesso anno, al termine della terza sessione conciliare. In quell’occasione, definì Maria «Madre della Chiesa, cioè di tutto il popolo di Dio, tanto dei fedeli come dei Pastori», invitando a invocarla e onorarla con questo dolcissimo nome.
Già nell’allocuzione conclusiva del Concilio, il 7 dicembre 1965, Paolo VI ne aveva richiamato la figura con parole accorate: «Imploramus auxilium Beatae Mariae Virginis, Matris Christi, quae a Nobis etiam Mater Ecclesiae est appellata». Sempre Montini volle che il titolo trovasse espressione liturgica: nel 1973 fu approvata la Messa votiva "De Sancta Maria Ecclesiae Mater", inserita due anni dopo nella nuova edizione del Messale Romano, mentre nell’enciclica Christi Matri (15 settembre 1966) egli invitava i fedeli ad affidarsi alla sua intercessione per ottenere il dono della pace.
In questo solco ecclesiale e spirituale si è inserita l’intensa omelia tenuta da Papa Leone XIV, il quale ha aperto la sua riflessione evidenziando la grazia di celebrare il Giubileo della Santa Sede proprio nel giorno dedicato alla Madre della Chiesa. Ha parlato di una “felice coincidenza”, letta alla luce dello Spirito Santo, che nella solennità della Pentecoste – appena celebrata ieri – si è effuso sulla Chiesa rinnovandone il volto. Il Pontefice ha interpretato le letture del giorno come due icone bibliche – tratte dagli Atti degli Apostoli (1,12-14) e dal Vangelo di Giovanni (19,25-34) – capaci di illuminare il mistero della Chiesa e, in essa, il ruolo della Santa Sede.
Con fine sensibilità teologica, Leone XIV ha posto al centro della sua meditazione il mistero della maternità spirituale di Maria, scaturita dal gesto estremo d’amore di Cristo sulla croce. È proprio lì, nel cuore del Venerdì Santo, che si compie il “salto impensabile”: Maria non è più soltanto la madre del Verbo incarnato, ma diventa la nuova Eva, la Madre dei viventi nella grazia. È associata da Cristo alla sua Passione redentrice e alla nascita del nuovo popolo di Dio. «Tutta la fecondità della Chiesa e della Santa Sede – ha detto il Papa – dipende dalla Croce di Cristo. Altrimenti è apparenza, se non peggio». Citando il teologo Hans Urs von Balthasar, ha sottolineato che l’albero della Chiesa nasce dal piccolo seme della croce, e solo nella misura in cui produce frutti a forma di croce manifesta la propria autenticità.
In una prospettiva profondamente spirituale e concreta, Leone XIV ha evidenziato che questa fecondità ecclesiale si riflette nella santità dei suoi membri: è santità vissuta, incarnata, spesso nascosta e quotidiana. Il Papa ha citato l’esempio di un sacerdote che, pur portando una croce pesante, svolge il proprio servizio con amore e fedeltà; o quello di un padre e una madre che, tra difficoltà familiari e fatiche quotidiane, perseverano con responsabilità e amore. «Ad esempio, un prete che personalmente sta portando una croce pesante a motivo del suo ministero, e tuttavia ogni giorno va in ufficio e cerca di fare al meglio il suo lavoro con amore e con fede, questo prete partecipa e contribuisce alla fecondità della Chiesa». Così la Santa Sede è santa, non solo perché fondata sulla roccia di Pietro, ma perché ogni suo membro, nel vivere il proprio servizio, coopera alla sua fecondità spirituale.
Nella seconda parte dell’omelia, il Papa ha commentato l’icona di Maria nel Cenacolo, immagine della Chiesa nascente raccolta in preghiera, in attesa dello Spirito. Maria – ha detto – è la “memoria vivente di Gesù”, colei che con la sua presenza armonizza la diversità dei discepoli, rendendo la preghiera comunitaria “con-corde”. È significativa anche la presenza di Pietro, nominato per primo tra gli Apostoli, ma anch’egli sorretto dalla maternità di Maria. È in questo equilibrio tra ministero petrino e carisma mariano che si comprende il mistero della Santa Sede, la cui santità e fecondità sono garantite proprio dal polo mariano, dono del Crocifisso e del Risorto. L’omelia si è conclusa con un invito accorato alla santità personale e comunitaria, vissuta nel quotidiano, come modo autentico di servire la Santa Sede. Illuminati dalla Parola, ha detto il Papa, possiamo rinnovare la preghiera della colletta: che la Chiesa, sorretta dall’amore di Cristo, sia sempre più feconda nello Spirito, esulti per la santità dei suoi figli e raccolga nel suo grembo l’intera famiglia umana.
f.P.S.
Silere non possum