Roma – Nella sala semivuota dell’Auditorium di via della Conciliazione, questa mattina si è celebrato un Giubileo tanto sbandierato quanto desolante. A parlare agli influencer accorsi (pochissimi, e non per caso) è stata una sfilata di volti noti e ormai logori, la cui credibilità vacilla come la poltrona che occupano. Il risultato? Una passerella di retorica stanca, di parole vuote, di discorsi così sterili da far rimpiangere il silenzio.

Pietro Parolin, il regista nell’ombra

Ha aperto le danze Sua Eminenza il Cardinale Pietro Parolin, l’uomo del sorriso diplomatico e delle manovre dietro le quinte. Nessuno come lui incarna l’arte dell’ambiguità clericale: davanti il volto bonario del dialogo, dietro le quinte il burattinaio spietato. Basta ricordare il caso Enzo Bianchi. Parolin, con la complicità di Amedeo Cencini – noto per le sue crociate pseudo psicologiche –, ha orchestrato l’esautorazione del fondatore di Bose per piazzare Luciano Manicardi, suo protetto. Inutile rammentare le calunnie e diffamazioni ai danni di Enzo Bianchi, fatte passare attraverso la stampa amica, le quali non hanno mai trovato riscontro in nessun documento ufficiale. Il risultato? Manicardi è sparito nel nulla. A dimostrazione che i “nuovi inizi” della diplomazia ecclesiale portano dritti nel dimenticatoio.

Antonio Spadaro, il manipolatore digitale

Poi è toccato a padre Antonio Spadaro, maestro della mistificazione, che nei giorni scorsi si è superato: ha diffuso una falsa copertina di un libro, spacciando per inedita e sua un’intervista al Card. Prevost che in realtà era online da anni e non è stata rilasciata a lui. E quando la menzogna è venuta a galla? Ha chiesto alla Casa Editrice di coprirgli le spalle, scaricando su di loro la colpa. Peccato che lui stesso abbia promosso la copertina sui social senza battere ciglio nelle settimane precedenti. Ecco il senso di responsabilità secondo Spadaro: falsificare, mentire, scaricare. Dietro le quinte di quell’operazione c’è un altro pezzo forte del circo ecclesiale: Alberto Melloni. Storico del nulla, tuttologo compulsivo, boomer impenitente. Usa i social come se fossero bollettini parrocchiali del ’62, lancia anatemi sgrammaticati e insulti gratuiti su X. Ma lo fa in nome del dialogo, ovviamente. Non manca mai di ribadire quanto sia colto, ma basta leggerlo per capire il contrario.

Ruffini, il comandante del Titanic mediatico

E poi Paolo Ruffini. Direttore di un Dicastero per la Comunicazione che, invece di comunicare, confonde, occulta, distorce. Le gaffe si sprecano, gli errori sono diventati prassi. E quando una notizia è scomoda, la si “mistifica” – parola chiave del lessico ruffiniano – fino a renderla irriconoscibile. Un disastro annunciato, coperto da un linguaggio mellifluo e da progetti tanto inutili quanto costosi.

E questi dovrebbero insegnare qualcosa?

A cosa serve che questa banda di autocompiaciuti si rivolga agli influencer, se non hanno nulla da insegnare? Gli influencer – almeno quelli veri – dovrebbero parlare di verità, raccontare la realtà per quella che è, e non per come la vorrebbero nelle stanzette del potere. Altro che storytelling, altro che “ministero digitale”: servono occhi aperti, schiena dritta e un rifiuto netto della menzogna. Perché senza verità, non esiste alcuna evangelizzazione. Senza credibilità, ogni parola è rumore.

E oggi, sul palco del Giubileo, si è sentito solo quello: rumore vuoto, parole che non bucano il silenzio ma lo aggravano. La Chiesa, se vuole parlare al mondo, dovrebbe prima imparare a non prenderlo in giro. E a non prendere in giro sé stessa mettendo in prima fila personaggi assetati di potere: Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, Nathalie Becquart, Paolo Ruffini, ecc….

p.R.B.
Silere non possum