Antonio Spadaro interviews the new prefect of the dicastery for the doctrine of the faith.

A poche ore dall’inizio del suo incarico, l’arcivescovo Víctor Manuel Fernández rilascia la sua ennesima intervista. Questa volta, il neo prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede affronta numerose tematiche in un colloquio con il direttore uscente de La Civiltà Cattolica. 

Si tratta di una delle numerose “interviste veline” che in questi anni sono state sfornate da Santa Marta. Questa volta, però, a parlare non è il Papa ma il suo prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, uno dei dicasteri più importanti, nonostante qualcuno voglia far credere altrimenti. Il colloquio è fra due personaggi che la teologia l’hanno studiata, probabilmente, sui fumetti. 

In merito alle critiche che sono state rivolte al Papa e alla lettera che indirizzò al neo prefetto, Fernández dice: “Se si legge bene la lettera del Papa, è chiaro che in nessun momento egli afferma che la funzione di confutare errori debba scomparire. Evidentemente, se qualcuno dice che Gesù non è vero uomo o che tutti gli immigrati vanno uccisi, sarà necessario un intervento deciso”. Quindi, il prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede pensa di essere stato chiamato al Palazzo del Sant’Uffizio per parlare di migranti? Probabilmente questa gente ha subito uno sbalzo e non arriva più ossigeno al cervello.

La nomina di quest’uomo al dicastero che ha il compito di “tutelare l’integrità della dottrina cattolica sulla fede e la morale, attingendo al deposito della fede..” (PE 69) è una vera e propria vittoria di Francesco, il quale ha allevato il suo pupillo per anni. Ne avevamo parlato qui.

L’intervista viene proposta di seguito.

Spadaro al Dicastero per la Cultura e l’Educazione

Oggi, inoltre, il Pontefice ha anche nominato l’intervistatore, Antonio Spadaro, quale nuovo sotto segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. Si tratta di una scelta che è assolutamente superflua e conferma come le parole di Bergoglio siano sempre e soltanto parole. Questo Dicastero ha già una sotto-segretario e due segretari, uno per la cultura ed uno per l’educazione. Il Papa parla sempre di economia, attacca il Vaticano perchè ci sono troppi soldi e quant’altro. Quando c’è da premiare gli amichetti, però, non si fa alcuno scrupolo nel nominare gente che poi dobbiamo anche pagare. Non bastava avere Antonio Spadaro in tutti i viaggi apostolici, in tutti gli eventi. Non bastava vedere questo sessantenne comportarsi come i ragazzini di 15 anni e fare foto al Papa in qualunque situazione e poi postarla. Ora dobbiamo anche pagare uno stipendio a questo gesuita perchè chiaramente non può lasciare la direzione della rivista La Civiltà Cattolica e tornare a fare “l’umile religioso al servizio dei poveri”. Figuriamoci. Quelle sono cose che Spadaro scrive nei suoi tweet, mica che sperimenta. Eppure, al gesuita giornalista è andata male perchè Bergoglio non ha dimenticato le numerose discussioni che fra i due ci sono state. Infatti, seppur ai suoi amici giornalai nelle scorse ore abbia fatto trapelare notizie false, il Papa non lo ha scelto come segretario ma, bensì, come sotto-segretario. La scelta è chiara. Spadaro andava premiato perchè ha solleticato il padrone con le piume per anni ma il Papa al momento non ha intenzione di mettere lo zucchetto in testa al messinese. E diciamo pure: per fortuna!

Spadaro approda, quindi, in Vaticano. Al Dicastero per la Cultura e l’Educazione c’è già José Tolentino de Mendonça il quale non fa assolutamente nulla ma viene pagato. Piuttosto che occuparsi delle pratiche del dicastero, però, il cardinale portoghese ama viaggiare e scrivere poesie. Vivere il suo ministero sacerdotale ed episcopale è un optional. Passa il suo tempo a fare incontri nei salotti, piuttosto che occuparsi delle pratiche da sbrigare a Piazza Pio XII. Ora arriverà anche Tonino Spadaro a portare un altro po’ di “dolce far niente”.

d.L.S.

Silere non possum 

INTERVISTA A S.E.R. MONS. VÍCTOR MANUEL FERNÁNDEZ

a cura del Rev.do Padre Antonio Spadaro, S.I.

Eccellenza, qual è il rapporto tra la fede e la ragione?

La Chiesa rifiuta il fideismo, difende il valore della ragione e la necessità del dialogo tra la fede e la ragione, che non sono in contraddizione. Ma attenzione, perché talvolta si colloca al centro della Chiesa «una» certa ragione, una serie di princìpi che reggono tutto, anche se si tratta in definitiva di una forma mentis, più filosofica che teologica, alla quale tutto il resto deve sottomettersi, e che alla fine prende il posto della Rivelazione!

Pertanto, coloro che determinano la corretta interpretazione della Rivelazione e della verità sarebbero coloro che possiedono questa forma mentis, questo modo di ragionare, questa unica struttura possibile di princìpi razionali. Soltanto loro sarebbero «seri», «intelligenti», «fedeli». Ciò spiega il potere che si arrogano alcuni ecclesiastici, arrivando a stabilire ciò che il Papa può o non può dire, e presentandosi come garanti della legittimità e dell’unità della fede. In fondo, la forma mentis di cui essi si considerano guardiani assoluti è una fonte di potere che si vuole salvaguardare contro tutto. Non è la ragione, è il potere.

Quale considera essere il suo «maestro» in teologia?

Benché la formazione che ho ricevuto sia stata strettamente tomista, il mio grande maestro è un altro gigante della scolastica, san Bonaventura. Mi sono addentrato nel suo pensiero da seminarista, ho continuato a leggerlo con profitto e ho dedicato la mia tesi di dottorato alla relazione tra conoscenza e vita nel suo pensiero. Mi ha lasciato un’impronta indelebile l’insistenza, derivata dal background francescano, su una teologia capace di alimentare la vita spirituale e, al tempo stesso, di incidere sull’esistenza concreta delle persone. Risale allo stesso Francesco di Assisi, che ne scriveva a sant’Antonio da Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola». Non risentiamo forse questa stessa preoccupazione nell’insistenza di papa Francesco affinché tutto il pensiero cristiano, in ogni sua tappa formativa, sia attraversato dall’annuncio del kerygma volto a provocare un’esperienza di fede?

Ha ritrovato in autori del Novecento una prospettiva simile?

Sì, per esempio ho ritrovato qualcosa di simile nella filosofia, soprattutto in quella di Maurice Blondel e nel suo desiderio di far dialogare la filosofia con le necessità dell’esistenza quotidiana. La relazione tra il pensiero e la vita era una tra le sue massime preoccupazioni. Lo si coglie bene nella sua opera sull’agire umano, dove ha saputo addentrarsi in considerazioni di grande peso esistenziale. Per esempio, la necessità quotidiana di sottrarre le energie personali a un flusso dispersivo e caotico, per incanalarle in un alveo unitario, grazie a un fine determinato che le riunisca e le esprima.

Infatti, egli afferma, in questo modo le energie non si disperdono e non si consumano nell’azione, ma si ravvivano. Pertanto, nella misura in cui l’attività volontaria penetra e domina le potenze del corpo, più riceve da esse. Inoltre, egli propone modalità e vie concrete per giungere a un movente dell’azione che sia capace di ricomporla in unità. Ecco un autore che sa andare oltre una mera «filosofia a tavolino».

Tra i teologi più vicini a noi ho tratto alimento soprattutto dalla precisione argomentativa di Karl Rahner, dalla profondità spirituale di Hans Urs von Balthasar, dall’ecclesiologia di Yves Congar e senz’alcun dubbio dall’opera preziosa di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In tutti loro sussiste un’intima connessione tra il pensiero e l’esperienza spirituale, sebbene ciascuno la ottenga a modo suo. Vale lo stesso per alcuni filosofi tomisti come Étienne Gilson o Réginald Garrigou-Lagrange.

Se tra la teologia e la vita personale c’è una relazione importante, come considera la relazione tra la spiritualità e la pastorale, che a sua volta sostanzia il pensiero teologico?

Sono latinoamericano e non si stupisca se pongo in risalto autori che esprimono l’aroma e le preoccupazioni della mia terra, come Gustavo Gutiérrez, Lucio Gera e Rafael Tello. Ho potuto conoscerli personalmente e mi hanno trasmesso un grande amore per la Chiesa, la passione per l’evangelizzazione, l’intenso affetto per i poveri e per la loro cultura, la capacità di connettere la teologia con le ansie, i sogni e le speranze del popolo sofferente.

Il pensiero si dipana alla luce della Rivelazione, ma necessariamente s’immerge nel contesto ineludibile della vita del popolo, che viene illuminato dalla Parola rivelata e a sua volta la interpella affinché faccia affiorare sempre di più la propria ricchezza. Al tempo stesso si pensa nel contesto di una prassi, e questa prassi impegnata apre al pensiero nuovi orizzonti.

Praedicate Evangelium si riferisce esplicitamente allo «sviluppo della teologia nelle diverse culture» (n. 71) e chiede che «l’integrità della dottrina cattolica sulla fede e la morale» sia tutelata «ricercandone anche una sempre più profonda intelligenza di fronte alle nuove questioni» (n. 69). La sensibilità pastorale apre strade teologiche in dialogo con il mondo.

La filosofia ci aiuta a valorizzare l’esperienza?

In campo filosofico ho trovato un correlato in Hans-Georg Gadamer, apprezzato e consultato da san Giovanni Paolo II. Da lui ho tratto in particolare due cose: in primo luogo, il valore che attribui­sce all’esperienza vitale in quanto possibilità di accedere ad alcuni aspetti della verità. Questo, tradotto in un pensiero latinoamericano, implica per esempio l’apprezzamento della cultura popolare come humus che dà una prospettiva diversa per conoscere la verità sotto un’altra ottica, tanto da potersi parlare di una sapienza propria dei poveri. Ma da questo punto di vista si può spiegare anche, in dialogo con settori agnostici, la legittimità della partecipazione della Chiesa, con il messaggio evangelico, al dibattito pubblico.

In secondo luogo, Gadamer invita anche a porre attenzione agli effetti, e oggi chi fa teologia non può ignorare gli esiti di ciò che dice, giacché si può riconoscere che qualcosa che è corretto nell’intenzione di chi l’afferma forse diventa sbagliato negli effetti che produce su chi lo ascolta. Posso citare anche Jacques Maritain, che fu capace di rielaborare un tomismo in dialogo con i problemi della società del suo tempo.

Lei, infatti, ha scritto un volume di Teologia spirituale sistematica, nel quale si è soffermato sulla sua relazione con la pastorale.

Sì, nel volume Teología espiritual encarnada. Se «spirito» nelle Scritture non è l’anima immateriale, bensì l’azione dello Spirito divino nel mondo, allora il dinamismo spirituale può essere vissuto non solo nei momenti di raccoglimento e di preghiera privata, ma anche nell’attività esterna. Tutta l’attività nel mondo – dal lavoro manuale a qualsiasi opera evangelizzatrice – può essere impregnata da quel dinamismo e trasformarsi così in una realtà pienamente spirituale. È ciò che san Paolo esprimeva come un «camminare secondo lo Spirito» (Rm 8,4). Per questa ragione la pastorale non va intesa come una degradazione della spiritualità o della teologia, bensì come un ambito in cui è lo Spirito Santo stesso a introdurci, e attraverso il quale può condurci alle profondità della vita spirituale e del pensiero cristiano.

Quanto detto sulla pastorale è specialmente valido se ci riferiamo all’ampia divulgazione dei contenuti teologici.

A questo riguardo, lei ha davvero pubblicato molti saggi divulgativi. Sono opere nelle quali lei ha svolto un interessante lavoro di comunicazione. Come considera questa sua attività?

Mi sono sempre interessate la Teologia delle Persone divine e la nostra relazione peculiare con ciascuna di loro. Ne sono scaturiti, per esempio, un articolo su ciò che è specifico della Persona del Padre, pubblicato sulla rivista Angelicum, e soprattutto vari articoli sullo Spirito Santo, sempre orientati a pensare e ad alimentare una relazione personale. Ma, appunto, non mi paiono meno significativi al riguardo i miei testi di catechesi o di spiritualità popolare trinitaria. Fra questi, le opere di ampia divulgazione – più di 100 – come Los cinco minutos del Espíritu Santo[6], che, secondo dati recenti, è stato stampato in oltre 350.000 copie in vari Paesi. Ai teologi dico di non vergognarsi di scrivere anche questo tipo di libri, che sanno declinare la teologia in modo che risponda alle necessità popolari, della gente. Per quell’opera ho ricevuto innumerevoli messaggi di gratitudine: persone che leggendola si sono convertite, hanno evitato il suicidio, sono entrate in un monastero o hanno ricomposto il loro matrimonio. In questo caso, con un linguaggio accessibile, la teologia entra in dialogo con la vita concreta, le ansie e le speranze della gente, e così mostra la sua massima fecondità.

Qual è, dunque, il rapporto tra teologia e comunicazione?

Per san Tommaso, «comunicare ciò che si sta contemplando» è quanto di più perfetto possiamo vivere su questa terra, perché combina la perfezione della contemplazione con quella della donazione di sé nell’azione. Allora l’azione acquista una tale qualità interiore che il teologo non si sfinisce quando comunica, non gli dispiace lasciare la sua solitudine riflessiva, perché nella comunicazione contemplativa il suo carisma teologico raggiunge la propria pienezza. Come insegna ancora san Tommaso, l’azione comunicativa a sua volta dispone a una contemplazione migliore. San Bonaventura sostiene la stessa cosa, ma insiste sulla correlazione esistente tra la vita interiore e la comunione con il mondo esterno. Per questo afferma che la perfezione della contemplazione si dà soltanto quando, oltre che contemplare Dio nell’intimità, lo si sa scoprire negli altri.

Questo non è estraneo al metodo teologico. Esprimendo le proprie considerazioni sul metodo, Bernard Lonergan spiegava che la teologia, pur vantando varie specializzazioni funzionali, diversi tipi di operazioni che le consentono di coronare il proprio compito, deve sempre culminare nella comunicazione, ed «è a questo stadio finale che la riflessione teologica porta i suoi frutti». Altrimenti i frutti della teologia «non arrivano a maturazione». Perciò il teologo non cerca nel proprio lavoro soltanto una realtà conoscitiva, ma anche una realtà costitutiva, in grado di creare cose nuove nel mondo e nella Chiesa, di incoraggiarle, di articolarle, e inoltre comunicativa ed efficace, capace di illuminare altri e di aiutarli a vivere. Perciò la teologia entra in dialogo con tutti i saperi del suo tempo, senza però pretendere di imporre loro una cultura antica, medievale o moderna, ma piuttosto partirà dalla cultura degli ascoltatori per comunicare la verità.

La comunicazione spesso usa immagini, metafore per essere maggiormente efficace.

La metafora ha la capacità di mediare tra diverse forme di sapienza, come hanno ben spiegato sant’Agostino e Paul Ricoeur, ciascuno a modo suo. Quando il teologo professionista esprime in termini metaforici o simbolici un contenuto che ha approfondito in un arduo cammino di lettura e di riflessione, questa modalità pedagogica di comunicazione non toglie profondità né qualità speculativa alla riflessione teologica sottostante. Non c’è bisogno di usare parole difficili ed espressioni teologiche per dimostrare il livello teologico di una riflessione. Oggi un teologo che presti effettiva attenzione alla cultura attuale deve servire il banchetto del Vangelo attraverso la bellezza e la seduzione delle immagini, delle figure, degli esempi, delle sensazioni che possono renderlo accessibile alla gente del XXI secolo.

La relazione fra la teologia e la vita del popolo di Dio vale specialmente per la teologia morale. Come intende questo rapporto?

La teologia morale non può ignorare, per esempio, come affrontano la vita le persone più povere, limitate, escluse dai benefici della società, che devono sostenere ogni giorno la lotta per sopravvivere alla bell’e meglio. Perciò Francesco ci avverte: «Nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio. In tal modo, invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in “pietre morte da scagliare contro gli altri”».

Su questa linea si colloca una nuova considerazione sul peso dei condizionamenti nel discernimento. Al riguardo Francesco ha proposto alla teologia morale un passo molto importante.

Lo ha fatto accogliendo gli orientamenti dei vescovi della Regione Buenos Aires rispetto all’applicazione di Amoris laetitia. Essi parlano della possibilità che i divorziati in nuova unione vivano in continenza, ma aggiungono che «in altre circostanze più complesse, e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione citata può di fatto non essere fattibile». Quindi affermano che «ciò nonostante, è ugualmente possibile un cammino di discernimento. Se si arriva a riconoscere che, in un caso concreto, ci sono limiti che attenuano la responsabilità e la colpabilità, specie quando una persona consideri che cadrebbe in una mancanza ulteriore danneggiando i figli della nuova unione, Amoris laetitia apre la possibilità di accedere ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia». Francesco ha subito inviato loro una lettera formale, confermando che il senso del capitolo VIII dell’AL è questo. Ma ha aggiunto: «Non ci sono altre interpretazioni». Non è necessario attendersi risposte diverse dal Papa. Tanto gli orientamenti quanto la lettera del Pontefice sono stati pubblicati negli Acta Apostolicae Sedis, insieme a un rescritto che li dichiara «magistero autentico». Di conseguenza non ci sono più dubbi, ed è chiaro che il discernimento che tiene conto dei condizionamenti o fattori attenuanti può avere conseguenze anche nella disciplina sacramentale.

Lei ha un interesse specifico nel rinnovamento della morale?

Per quanto riguarda il rinnovamento della morale, mi spinge anche un’altra preoccupazione più teologale, ma ugualmente pratica: rimarcare il primato della carità, nella teologia morale o, in altre parole, elaborare una teologia morale intimamente trasfigurata dalla carità. Ciò si pone in relazione con la carità non solo intesa come forma o motivazione del discernimento morale, ma anche come suo contenuto proprio, con reale incidenza quando vanno prese decisioni a livello personale o pastorale.

Il Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) ha fatto propria con grande nettezza la legge dell’amore fraterno come una «regola d’oro» (cita Mt 7,12; Lc 6,31; Tb 4,15), un criterio centrale nel discernimento morale, che va applicato «in ogni caso» (CCC 1789; cfr 1970a), specie quando «l’uomo talvolta si trova ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione» (CCC 1787).

Ma nella pratica la funzione della carità sparisce dalle posizioni morali concrete se si ritiene che essa fornisca solo una conoscenza connaturale di Dio come fine ultimo – e un orientamento a Lui –, ma non determini in alcun modo i fini prossimi. Perché la carità fraterna, in quanto comandamento principale che si compie tramite la virtù della carità, interviene anche nell’ambito dell’azione e provvede di razionalità il discernimento, posto che questa virtù ha atti esterni propri che diventano paradigmi, riferimenti necessari in ogni discernimento. Per questo la carità, sebbene risieda nella volontà, comprende anche l’ordine della ragione, intervenendo – in parte – nella determinazione del fine prossimo, oggetto della scelta. Il valore supremo e paradigmatico degli atti esterni propri della carità viene riconosciuto da Tommaso quando colloca la misericordia al vertice delle virtù, in quanto essa regola un operare esterno e così produce una somiglianza con l’operare divino.

Insomma, una morale ridotta al compimento dei comandamenti non risponderebbe a questa dinamica?

Assolutamente no.

Il primato della carità ha, a suo avviso, una forte incidenza anche nella riflessione teologica?

Il nostro sforzo per penetrare la verità e l’impegno per comunicarla sono uniti da una cosa: per l’appunto, l’amore. Tanto la scienza quanto la profezia, senza l’amore, «non servono a nulla» (cfr 1 Cor 13,1-3). L’amore ha molto a che fare con la migliore conoscenza teologica, perché produce un contatto diretto con le realtà soprannaturali, e così finisce con il rispecchiarsi nell’intelligenza, sicché chi meglio conosce è colui che più ama. Grazie a un affascinante circolo virtuoso, nel riconoscimento gratuito dell’altro in virtù dell’amore si produce la migliore disposizione per raggiungere una nuova profondità teologica, si aprono meglio gli occhi affinché la speculazione raggiunga una nuova penetrazione del Mistero. A sua volta, lo sforzo speculativo mosso dal dinamismo dell’amore apporta nuove ragioni per amare.

Tutta la realtà scaturisce dall’amore di Dio, è attraversata da quell’amore, e tutto si orienta all’amore, che è il motore che muove l’universo e gli dà senso. Da questo trae origine una logica soprannaturale. Perciò Bonaventura affermava che il frutto più grande di tutte le scienze è la carità (fructus omnium scientiarum). Il fine di qualsiasi conoscenza, e in particolare «di tutta la Scrittura», consiste nel concludersi stimolando un atto di amore. A maggior ragione il fine principale della teologia morale è di motivare una vita sospinta dalla carità.

Questo ci aiuta a comprendere radicalmente perché un buon teologo è sempre preoccupato per il bene del popolo che ama, è capace di soffrire per e con gli altri.

Sono convinto che oggi sia davvero errato pensare che un’autentica e solida teologia possa scaturire da un benessere individualistico, indifferente e apatico, distante dall’impegno della carità. In questo senso possiamo ricorrere a Giovanni della Croce: «Il dolore più puro porta con sé una conoscenza più intima e più pura». «Non si può giungere nel folto delle ricchezze e della sapienza di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze». Tutto questo non è ovviamente possibile senza la Grazia, e quindi il trattato sulla Grazia andrebbe considerato tra quelli centrali. Riflettere sulla Grazia per me è stata una grande festa teologica, e per questo ho dedicato diversi anni a insegnare quel trattato e a redigere un manuale su «la Grazia e la vita intera».

Qual è il suo rapporto come teologo con la Sacra Scrittura?

Prima di svolgere il mio dottorato in Teologia, fui inviato a Roma a studiare Sacra Scrittura. Al Seminario della mia diocesi serviva un professore. Di fatto poi mi furono assegnati tutti i trattati biblici. Mi diedero solo due anni di tempo per tornare con il titolo accademico. Quindi mi iscrissi a Teologia biblica alla Gregoriana, ma svolgevo i corsi presso l’Istituto Biblico. Ho avuto professori eccellenti. In quel periodo non ho conosciuto affatto Roma, ma ho acquisito strumenti esegetici che mi sono serviti per tutta la vita.

In seguito, non ho mai smesso di dedicare allo studio delle Scritture tutte le energie possibili, e ciò spiega i numerosi articoli biblici che ho scritto. Ancora una volta, sono questioni correlate alle domande che si pongono le persone: perché Gesù ci ha promesso che avremmo compiuto opere più grandi delle sue (cfr Gv 14,12)? Che cosa significa per noi la promessa di «spostare le montagne» (Cfr Mt 17,20)? In particolare, ho dedicato molti anni allo studio della lettera ai Romani, e per questo mi è stato richiesto di scrivere su quella monumentale opera paolina in un Commento biblico internazionale. Questi studi hanno suscitato molte domande, che a loro volta hanno avuto una forte incidenza su varie convinzioni teologiche, e mi hanno orientato a una consistente revisione di alcune di esse. Non poteva andare diversamente, dato che il Concilio ha riconosciuto che il lavoro degli esegeti può far «maturare il giudizio della Chiesa».

Gli studi biblici spalancano prospettive enormi e non possiamo non riconoscere il peso dei progressi nella ricerca biblica riguardo al rinnovamento della Teologia cattolica. Per questa ragione mi pare molto importante che il Dicastero per la dottrina della fede disponga di quella validissima risorsa che è il lavoro della Pontificia Commissione biblica.

Veniamo al lavoro che l’attende. Quali sono le sue prospettive sul Dicastero per la Dottrina della fede?

Per prendere coscienza delle prospettive che possono aprirsi nel lavoro della Sezione dottrinale del Dicastero per la dottrina della fede non c’è niente di meglio che glossare ciò che ha detto Francesco nella lettera con cui ha accompagnato la mia designazione. In essa dispiega orizzonti amplissimi e appassionanti per il Dicastero.

Il Papa ha chiesto di «mettere in dialogo il sapere teologico con la vita del santo Popolo di Dio». Nel presentarmi, insieme ai miei titoli accademici, Francesco ha ricordato che sono stato parroco di Santa Teresita. È già evidente che al Papa importa in maniera particolare che il sapere teologico non si pieghi soltanto dall’alto a «illuminare» il popolo di Dio, ma che se ne lasci stimolare, che si lasci ferire e disarmare da esso.

Quindi mi ha chiesto di «custodire l’insegnamento che scaturisce dalla fede». Le parole «custodire» e «curare» sono tra le predilette da Francesco. Non è un caso che egli sia specialmente devoto a san Giuseppe. La cura, per lui, è un atteggiamento fondamentale che scaturisce dal Vangelo. Ma così come ci si prende cura delle persone, si deve fare altrettanto con la dottrina che emerge dalla fede. Ciò comporta innanzitutto un profondo apprezzamento di ciò che va curato, ovvero implica che si ami quella dottrina come un tesoro prezioso, che si sia giustamente orgogliosi di quel dono divino. Non c’è posto per i complessi d’inferiorità nei confronti del mondo: prevalgono il più legittimo apprezzamento e la gratitudine di sentirci toccati dalla Grazia, privilegiati da questo dono fatto dal Signore alla sua Chiesa.

Come era solito dire san Giovanni Paolo II in vario modo, bisogna sviluppare «il massimo dialogo con la massima identità».

Francesco le ha chiesto anche di «accrescere la comprensione e la trasmissione della fede al servizio dell’evangelizzazione».

Custodire qualcosa è anche migliorarlo. Non si tratta ovviamente di migliorare la dottrina, ma la sua comprensione e la sua comunicazione. Su questo punto i decenni passati non ci mostrano un risultato confortante. Quanti teologi possiamo nominare della statura di Rahner, Ratzinger, Congar o von Balthasar? E neanche la cosiddetta «teologia della liberazione» ha teologi al livello di un Gutiérrez. Qualcosa è venuto meno. Ci sono stati controlli, sì, ma pochi sviluppi.

Mi rendo conto che Francesco vuole avviare una tappa in cui la crescita del pensiero cristiano sia di più ampio respiro, perché sa che ciò incide direttamente sul servizio dell’evangelizzazione. I grandi teologi che hanno pensato in dialogo con la realtà hanno apportato ampie ricadute, per vie diverse, perfino sulla pastorale delle parrocchie più piccole e povere. Perciò non possiamo restare indifferenti allo scarso sviluppo che la teologia ha avuto dalla fine del secolo scorso a questa parte.

Come accogliere «le domande poste dal progresso scientifico e dallo sviluppo della società»? Questa mi sembra una sfida molto rilevante.

Riguardo alle scienze, Francesco si è espresso in maniera inequivocabile. Lasci che le citi alcune sue affermazioni: «Su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità di opinione»; «Il rispetto della fede verso la ragione chiede di prestare attenzione a quanto la stessa scienza biologica, sviluppata in modo indipendente rispetto agli interessi economici, può insegnare a proposito delle strutture biologiche e delle loro possibilità e mutazioni» (LS 132). Tale rispetto ci consente di apprendere e di lasciarci interpellare dallo sviluppo delle varie scienze. Inoltre Francesco ha affermato che «la scienza e la religione, che forniscono approcci diversi alla realtà, possono entrare in un dialogo intenso e produttivo per entrambe» (LS 62) e che «non si può sostenere che le scienze empiriche spieghino completamente la vita, l’intima essenza di tutte le creature e l’insieme della realtà. Questo vorrebbe dire superare indebitamente i loro limitati confini metodologici» (LS 199).

Se vogliamo dare un più ampio ascolto ai problemi posti dalla società, insieme al tentativo di mostrare le ragioni e l’armonia del nostro pensiero cristiano dobbiamo proporci un’ascesi: tollerare con carità la ricorrente aggressività che ci investe. La messa in discussione della società non può essere una mediazione che Dio stesso usa per disarmarci, per aprirci ad altro? Lévinas diceva giustamente che vivere ponendosi domande è essere in Dio[23].

Non possiamo nasconderci in un limbo e ignorare che la violenza verbale di alcuni gruppi è uno sfogo comprensibile, dopo molti secoli di violenza verbale nostra, di un linguaggio ingiurioso, molto offensivo, o di una manipolazione delle donne come se fossero di seconda classe, molto sprezzante. Francesco è un modello di questa «pazienza» che nasce dal suo cuore di padre. È sperabile che con il tempo si riesca a trovare un equilibrio migliore, si possa riflettere e dialogare su questi temi senza tutta questa acredine, in modo meno aggressivo, con una serenità che ci consenta di trattarne più integralmente e più a fondo.

Lei sa bene che nella Chiesa ci sono «diverse linee di pensiero» e il Papa ritiene che accoglierle possa far crescere la Chiesa. Come intende questa richiesta in un contesto che sembra alquanto polarizzato?

Ciò che Francesco dice del poliedro si applica anche al pensiero della Chiesa. Ma lui è consapevole del fatto che su questo si incontra resistenza: «A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo».

Vorrei ricordare che su questo punto Francesco si ispira alla teo­logia della creazione di san Tommaso d’Aquino, quando rimarca che «la distinzione e la molteplicità delle cose provengono dal primo agente», il quale ha voluto che «ciò che manca a una per ben rappresentare la divina bontà sia supplito dall’altra». Pertanto, noi dobbiamo cogliere la varietà delle cose nelle loro molteplici relazioni. Per Francesco, ciò si può affermare a maggior ragione se ci collochiamo davanti all’inesauribile mistero del Vangelo, che non si può confinare in un determinato schema mentale, per quanto solido esso possa apparire.

Veniamo al tema della riforma della Chiesa. Lei ha partecipato a un seminario che «La Civiltà Cattolica» ha organizzato nel 2015 proprio su questo tema. Che cosa ne pensa?

Francesco riconosce che «l’uscita missionaria è il paradigma di tutta l’opera della Chiesa» (EG 15). Allora non si può pensare alcuna riforma se non da questa prospettiva. Ciò diventa esplicito in un’altra affermazione del Papa: «La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di uscita» (EG 27). La Chiesa fedele alla sua propria natura è quindi una Chiesa in dialogo con il mondo e decentrata in un’estasi evangelizzatrice. Questa uscita da sé non è il risultato di un puro sforzo della volontà umana, ma è un dinamismo soprannaturale provocato dallo Spirito Santo nelle persone e in tutta la Chiesa.

Tuttavia, il movimento di riforma volto a far uscire la Chiesa da sé stessa non è solo pneumatologico, ma anche cristologico. Infatti, lo Spirito ci introduce alla verità tutta intera (cfr Gv 16,13), Cristo stesso. Pertanto, lo Spirito non ci spinge al di fuori del mistero dell’incarnazione, ma, al contrario, ci introduce sempre più pienamente nel mistero di Cristo e nel suo Vangelo. Perciò lo Spirito e il Vangelo – come fonte paradigmatica oggettiva – sono simultaneamente la radice che rende possibile l’uscita da sé della Chiesa in riforma missionaria. Francesco dice che, quando si torna al cuore del Vangelo, tutto si rinnova, l’evangelizzazione è sempre «nuova» (EG 11) e «la proposta si semplifica» (EG 35). Questa apertura al dinamismo autotrascendente dello Spirito dev’essere al tempo stesso un ritorno all’oggettività del Vangelo, che semplifica, riporta all’essenziale e rende possibile la purificazione e la riforma delle strutture obsolete.

La preservazione della dottrina della fede è stata spesso associata a un meccanismo di «controllo». Il Papa sembra invece puntare sulla crescita armonica della sua comprensione. Questo vuol dire che la funzione di confutare errori è destinata a scomparire?

Se si legge bene la lettera del Papa, è chiaro che in nessun momento egli afferma che la funzione di confutare errori debba scomparire. Evidentemente, se qualcuno dice che Gesù non è vero uomo o che tutti gli immigrati vanno uccisi, sarà necessario un intervento deciso. Ma al tempo stesso questo offrirà l’occasione di crescere, di arricchire la nostra comprensione. Per esempio, in questi casi la persona in questione andrà accompagnata nella sua legittima intenzione di mostrare meglio la divinità di Gesù Cristo, o bisognerà conversare su alcune leggi migratorie imperfette, incomplete o problematiche.

Francesco mi chiede un maggiore impegno per aiutare lo sviluppo del pensiero, anche quando si presentano questioni difficili, perché, se si vuole aver cura della dottrina, è più efficace accrescerne la comprensione che incrementarne i controlli. Le eresie sono state sradicate meglio e più rapidamente quando c’è stato un adeguato approfondimento teologico, mentre, quando ci si è limitati alle condanne, esse si sono diffuse e radicate.

A questo riguardo, un criterio fondamentale da preservare e tenere fermo è che «qualsiasi concezione teologica che in ultimo termine metta in dubbio l’onnipotenza di Dio e, in specie, la sua misericordia» deve considerarsi inadeguata.

L’affermazione che è un «criterio fondamentale» è molto forte. Significa che non lo si può ignorare o prendere alla leggera. Ricordiamo che Francesco riprende questa espressione dalla Commissione teologica internazionale, e così facendo attribuisce alla Commissione una particolare rilevanza. Ma per di più si tratta di un testo riferito alla salvezza dei bambini morti senza il battesimo, per mostrare che l’onnipotenza e la misericordia di Dio, capaci di concedere quella salvezza gratuita, non devono essere negate né oscurate da alcun ragionamento teologico. Se ciò viene applicato in maniera generale, come criterio fondamentale, indubbiamente ci obbliga a ripensare molte altre cose.

Francesco, nella lettera a lei indirizzata, le chiede di sviluppare e promuovere un pensiero che presenti «un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le convoca al servizio fraterno».

Il pensiero cristiano non può essere svincolato dal cuore del Vangelo, che è il kerygma teologico e il kerygma morale. Infatti «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (EG 165), e al tempo stesso è il messaggio che fa innamorare e che cattura. È l’annuncio che ci aiuta a vivere, ad andare avanti, a lottare, a impegnarci, con un’enorme risonanza pratica ed esistenziale.

D’altro canto, vorrei aggiungere che ciò non implica un’opzione per una teologia meramente pratica che disprezzi uno sviluppo altamente speculativo, perché Francesco chiede anche di assicurare che i documenti della Santa Sede abbiano un «adeguato supporto teologico». Sebbene sia opportuno evitare una «teologia a tavolino», questo non dovrebbe mai indurre al pensiero che la Chiesa non «incoraggi il carisma dei teologi e lo sforzo che pongono nella ricerca teologica». Lo studio, come lo intende san Tommaso, è piena attività. È un aprirsi ricettivo alla verità, ma in totale coscienza e donazione di sé, con desiderio e altissima attenzione, pari a quella di chi dedica tutto il suo interesse ad ascoltare un amico. Questa contemplazione è vita piena.

Sempre alla luce della necessità di sviluppare e promuovere un pensiero che presenti «un Dio che ama», Francesco chiede che si presti attenzione alla gerarchia delle verità, dal momento che «il maggiore pericolo si produce quando le verità secondarie finiscono per mettere in ombra quelle centrali».

Il problema è che risulta relativamente facile sviluppare un tema fuori da ogni contesto, portarlo avanti con una logica ferrea fino a lasciarsi trasportare da un certo fanatismo ossessivo. Per Francesco questo è «il pericolo maggiore». È ben più difficile situare quel ragionamento nel ricco contesto di tutto l’insegnamento della Chiesa e lasciare che si trasfiguri alla luce delle verità centrali, del cuore del Vangelo. Infatti, «tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo. In questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (EG 36) e, al tempo stesso, rispetto alla morale, «le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito» (EG 37).

Francesco, nella sua lettera, pone insieme l’insegnamento perenne della Chiesa e il Magistero recente. Mi sembra un dato interessante.

È significativo che menzioni anche il Magistero recente, oltre a riferirsi all’insegnamento perenne. Si tratta di una precisazione importante, perché è proprio il Magistero recente a dialogare con le circostanze attuali che attraversano il mondo e la Chiesa, con la cultura e le sue sfide. Il Magistero non è un mero «deposito», ma è anche un dono presente che è attivo attraverso Francesco. Se il Magistero riesce anche a illuminarci nel nostro pellegrinaggio in questo momento della storia, dobbiamo lasciarci orientare dai suoi interventi recenti e attuali, ed è indubbio che ciò equivalga a continuare a bere da quel pozzo senza fondo che è la Rivelazione sempre vigente e sempre attuale.

Come immagina il suo lavoro, adesso che siamo all’inizio? La necessità di dare risposte, elaborare documenti…

Per avvicinarci a questi obiettivi, indubbiamente avranno speciale rilevanza le due Commissioni che presiederò: la Commissione teologica internazionale e la Pontificia Commissione biblica. Probabilmente saranno anche opportuni uno sviluppo dell’Accademia di teologia e un dialogo fecondo con le altre Accademie pontificie.

D’altra parte, queste indicazioni di Francesco dovranno orientare e attraversare tutto il lavoro quotidiano della Sezione dottrinale del Dicastero, anche quello di rispondere ad accuse dottrinali o di esprimersi su questioni complesse. Infatti, non basterà più dare rapide risposte in un formato standard, ma bisognerà cercare, insieme con le persone coinvolte, una crescita, un nuovo approfondimento, un certo sviluppo del tema che è stato posto.

Allo stesso tempo, quando fosse necessario emettere un documento, sarà indispensabile sforzarsi di assumere meglio le considerazioni e gli apporti provenienti dall’insegnamento di questo Papa. Non si tratta soltanto di inserire qualche sua citazione, ma di far sì che il pensiero si arricchisca e si sviluppi alla luce dei suoi apporti specifici. Questo richiederà anche di sostenere un dialogo con gli altri Dicasteri.

Vorrei aggiungere che l’augurio inviatomi dal Santo Padre per il mio cardinalato si è soffermato sulla necessità di «inculturare il Vangelo», e in questa linea è previsto che il Prefetto possa riunirsi in varie regioni del mondo con teologi e Commissioni dottrinali degli episcopati. Più avanti forse cercherò di cogliere tale opportunità. Tutto ciò richiede risorse umane, tecniche ed economiche. Vedremo fin dove potrò arrivare, ma la cosa importante, come dice Francesco, è «generare processi», che poi faranno il loro corso.

L'intervista è stata pubblicata da La Civiltà Cattolica.