Un sacerdote esce di casa in fretta per andare a scuola. Trova un bambino seduto sul cofano di una vecchia auto rossa, in un quartiere di periferia. Il piccolo lo tempesta di domande: dove vai, che fai, che cosa imparano i ragazzi grandi, a che serve la scuola. Poi, dopo avergli toccato le mani, i piedi, la testa lucida, gli chiede la cosa più disarmante: «Puoi fare un po’ il mio papà?». Alessandro D’Avenia, raccontando don Pino Puglisi e i ragazzini di Brancaccio, mostra in una scena così semplice che cos’è davvero insegnare: non svolgere una funzione, ma accogliere una vita, così com’è, con la sua mancanza di padre, le sue ferite, il suo desiderio di neve in un quartiere dove non nevica mai. Chi insegna – a scuola, in università, in parrocchia, in un doposcuola improvvisato – questo lo sa bene: ogni lezione è un bambino seduto sul cofano che, magari senza dirlo, chiede: «Puoi fare un po’ il mio papà? La mia mamma? Puoi prendere sul serio quello che sono?».
Non nozioni, ma un’umanità in atto
Don Luigi Giussani, parlando di educazione, rifiuta la riduzione della scuola a somma di competenze. Per lui educare significa introdurre il giovane alla “realtà totale”: non un pezzo di mondo, ma il senso che tiene insieme tutto. Per farlo, non basta un programma ben congegnato. Giussani descrive il processo educativo come comunicazione di una tradizione dentro una esperienza presente, in modo da liberare i giovani e metterli in condizione di giudicare ogni aspetto della realtà. Tradizione, qui, non è museo di formule, ma un modo di guardare il mondo che l’educatore incarna con il proprio volto, con le proprie scelte, con la propria storia.
Per questo l’educatore, prima ancora di spiegare un teorema o un verso di Dante, mette in gioco sé stesso. L’“autorità” - parola oggi sospetta - è per Giussani la funzione di coerenza di una persona che richiama continuamente a un senso ultimo, che vive lei per prima, e diventa così punto di riferimento stabile in mezzo alle oscillazioni dell’adolescente. In altre parole: non si fa scuola con dispense, ma con una vita. L’insegnante non dice semplicemente “questo è importante”; mostra, con il suo modo di stare in classe, che c’è qualcosa per cui vale la pena alzarsi al mattino.
Il rischio di farsi padre e madre
Giussani chiama tutto questo “rischio educativo”. Il rischio non è improvvisare, ma esporsi: accettare che la libertà dell’altro possa anche rifiutare ciò che proponi. È il contrario del possesso: chi educa rinuncia a controllare il risultato, e proprio così permette alla personalità del giovane di “divenire”, di prendere forma.
Questo comporta una progressiva consegna di sé. Educatore e educando, dopo una prima fase, diventano “due uomini fra gli uomini”: camminano fianco a fianco, condividendo un’esperienza e un destino. Come don Pino con Francesco: prima lo corregge sulle parole (“si dice: insegnare”), poi si lascia provocare dalla richiesta di essere padre; alla fine, promette un miracolo impossibile - far nevicare a Brancaccio - solo perché ha preso sul serio il desiderio del bambino. Chi insegna sa che non potrà dare a ciascuno la neve che sogna. Ma può fare qualcosa di più umile e di più grande: stare. Stabilire una presenza che non scappa quando gli occhi dei ragazzi diventano buio, quando il loro cinismo è solo difesa, quando la classe è rumorosa perché nessuno vuole mettere sul tavolo il proprio dolore. È qui che la professione diventa paternità e maternità. Non perché il docente si sostituisca ai genitori, ma perché condivide la loro responsabilità originaria: introdurre a un modo di concepire la realtà, a un “senso totale” che precede e supera i gusti del momento.
Una ferita che rende vivi
Don Giussani definisce la fede come una ferita di bellezza che entra nella carne della vita e costringe a cambiare, anche quando non ci si riesce del tutto. È una “porta spalancata” che mette l’uomo “in amore con la verità”. Questo vale anche per l’atto di insegnare. Il docente autentico è uno che porta addosso una ferita: è stato toccato da qualcosa - un incontro, un libro, un professore, un quartiere come Brancaccio o una periferia di oggi - che gli ha fatto intuire che la realtà è più grande dei suoi calcoli. Quella ferita non si rimargina: sanguina ogni volta che uno studente spreca il suo talento, ogni volta che il sistema riduce la scuola a burocrazia, ogni volta che il desiderio dei ragazzi viene anestetizzato. Ed è proprio questa ferita che rende credibile la sua parola. Gli studenti fiutano se chi hanno davanti è uno che rischia, o uno che si protegge. Non cercano supereroi, ma adulti attraversati da un senso, capaci di dire “non lo so” senza perdere autorevolezza, perché il loro “non lo so” nasce da una passione per la verità, non dal disimpegno.
Donare tutto di sé: cuore, ragione, tempo
Nel Senso religioso Giussani insiste su un punto decisivo: quanto più un uomo è veramente uomo, tanto più è capace di fidarsi, perché intuisce i motivi adeguati per credere a un altro. È come se confrontasse ciò che ascolta con il proprio cuore, con la sua esperienza elementare, e dicesse: “Qui c’è qualcosa che mi corrisponde, posso fidarmi”. In classe accade esattamente questo. L’insegnante offre sé stesso come motivo di fiducia. Non chiede agli studenti un atto cieco, ma li invita a verificare: “Guarda se ciò che ti propongo regge davanti alle domande che porti dentro”. In questo senso, insegnare è un atto altissimo di fiducia nella ragione e nel cuore dei ragazzi: si scommette che, sotto la stanchezza e il sarcasmo, esiste ancora un desiderio di totalità, una nostalgia di felicità che nessuna serie in streaming può zittire per sempre. Donare tutto di sé significa, allora: donare il proprio cuore, cioè la propria modalità di stare di fronte alla realtà; donare la propria ragione, educando a un uso non ridotto, capace di abbracciare ciò che non è immediatamente dimostrabile ma è ragionevole; donare il proprio tempo, che diventa ascolto, correzione, proposta, accompagnamento nella fatica di crescere. Non sappiamo che adulti diventeranno i nostri studenti. Sappiamo, però, che un giorno - forse quando avranno i capelli bianchi - ricorderanno meno il contenuto preciso delle lezioni e più il modo in cui siamo stati presenza: uno sguardo che non li ha ridotti ai loro voti, una frase che ha aperto uno spiraglio, una visita in ospedale, una telefonata in un momento buio.
L’inferno della scuola senza amore
Dostoevskij definiva l’inferno come “la sofferenza di non poter più amare”. Forse l’inferno della scuola - e dell’università, delle nostre comunità educative - è questo: non avere più adulti capaci di amare, cioè di donare sé stessi senza calcoli, senza cinismo, senza rifugiarsi dietro le circolari o i contratti. Quando la scuola smette di essere luogo di relazione, tutto il resto - organici, riforme, didattica digitale - diventa rumore di fondo. Possiamo avere laboratori perfetti e stipendi dignitosi (ed è una utopia in Italia!), ma se chi entra in aula non è disposto a farsi toccare dalla vita dei ragazzi, se non sente gli studenti “come figli”, allora la scuola diventa un ufficio, e gli studenti utenti.
Perché è bello insegnare
Eppure, nonostante la fatica, insegnare resta uno dei mestieri più belli che esistano. È bello perché ci costringe a non invecchiare dentro: ad avanzare “in giovinezza”, dice Giussani, in una capacità di stupore che cresce con gli anni invece di spegnersi. È bello perché ci obbliga a non vivere per noi stessi: ogni spiegazione, ogni compito corretto, ogni colloquio con un genitore è un piccolo esodo da sé, un’uscita dal proprio ombelico. È bello perché ci ricorda, ogni giorno, che siamo stati educati anche noi, che qualcuno ha rischiato su di noi quando non eravamo affatto promettenti, e che ora tocca a noi continuare quella catena di gratuità. In un’epoca di precarietà e sfiducia, forse la vera rivoluzione non sta in una nuova riforma ma nella scelta personale di chi entra in classe dicendo, almeno implicitamente: «Oggi vi dono me stesso: la mia intelligenza, certo, ma soprattutto il mio cuore ferito, il mio tempo, la mia speranza. Non so che cosa ne farete, ma io ci sono».
È da qui che può ripartire tutto.
d.L.V.
Silere non possum