Da tempo, la rivista “Jesus”, mensile delle Edizioni San Paolo, ha scelto di parlare della Chiesa come chi si propone di “rompere gli schemi”. In realtà, ciò che viene rotto non sono tanto gli schemi, quanto la coerenza interna della fede. La rivista - che si definisce cattolica - sembra sempre più interessata a catturare l’attenzione dei non credenti e dei critici della Chiesa, piuttosto che a illuminare i fedeli con uno sguardo teologico serio.

La formula è semplice: si prende un tema ecclesiale - in questo caso la crisi delle vocazioni - e lo si trasforma in un racconto psicologico, sociologico, emozionale, in cui la dimensione spirituale resta un sottofondo decorativo. Il risultato è un dibattito in cui si parla di prete e di seminario senza mai pronunciare la parola Cristo se non per dovere di citazione.

La retorica della crisi

“Le vocazioni calano, i preti si esauriscono, alcuni finiscono in depressione, altri assumono condotte predatorie”. Così si apre l’articolo. Una sequenza quasi cinematografica di immagini cupe, fatta per colpire più che per capire. Certo, la crisi delle vocazioni è reale, ma ridurla a una questione di burnout o di patologia significa cancellare il mistero della chiamata e ridurre il sacerdozio a un mestiere faticoso, non a una risposta a Dio. È la logica del “prete-funzionario”, non del prete-pastore. Il problema, però — e vale la pena ribadirlo — non è il numero di coloro che vengono chiamati, perché la chiamata di Dio non è affatto in calo, ma il numero di coloro che scelgono di entrare in seminario.

E sono due realtà profondamente diverse. Chi non distingue questi piani dimostra di voler manipolare il senso stesso della grazia, facendo credere che “tutti quelli chiamati” coincidano con “quelli che arrivano in seminario”. Nulla di più falso. Quando poi si aggiunge che alla base dei problemi del clero vi sarebbe un “modello sacrale” da superare, allora il problema diventa dottrinale. Perché se il sacerdote non è segno sacramentale di Cristo Capo, se non è colui che media la grazia - come ha affermato un seminarista scandalizzando la teologa Simona Segoloni -, allora non si parla più della Chiesa cattolica, ma di un convitto accademico.

Un dibattito viziato all’origine

Il dibattito convocato da Jesus riunisce quattro figure: una teologa laica, una suora, e due preti (uno ‘psicologo’ e un formatore). Sembra un confronto equilibrato, ma in realtà si parte da una premessa ideologica chiara: il modello attuale dei seminari sarebbe “tridentino”, separato dal mondo, e quindi dannoso. Simona Segoloni parla di “odio del mondo” nei seminaristi, suor Curreli afferma che il “sacro non esiste più”, e don Antonelli - rettore del Pontificio Seminario Lombardo - spiega che “l’essere separati dal mondo è un errore antropologico”.

In questa visione, il prete non deve più distinguersi, ma confondersi: essere “uno come gli altri”, vivere come gli altri, sentire come gli altri. Ma è proprio questo il punto di rottura: la Chiesa non ha mai formato preti per “separarli dal mondo”, bensì per consacrarli per il mondo. Separazione non è isolamento, è dedizione esclusiva. Il seminario non è un bunker, è un deserto spirituale dove si impara ad ascoltare la voce di Dio.

La realtà dei seminari

Chi parla di seminari - e qui sta il nodo - non li conosce più. Molti di coloro che oggi pontificano sulla formazione sacerdotale non hanno mai vissuto quel cammino, o ne sono usciti male, con ferite, rancori, o frustrazioni. Da un lato troviamo gli “esperti” che hanno trasformato la propria esperienza negativa in una cattedra di psicologia spicciola; dall’altro, chi non ha mai messo piede in un seminario ma vuole spiegarne la “patologia sistemica”. Eppure, le vere criticità della formazione esistono: manca una formazione affettiva e relazionale profonda e continua; si confonde spesso l’accompagnamento spirituale con la direzione psicologica; alcuni formatori pretendono di essere tuttologi: teologi, psicologi, educatori, senza esserlo.

I seminaristi, invece, hanno bisogno di guide preparate, ma soprattutto libere, capaci di guardare al singolo e non all’ideologia che li ha plasmati. Non serve imporre “figure femminili” per riequilibrare la presenza maschile, né introdurre “esperienze di mondanità” nei percorsi formativi. Il seminarista non si forma “annusando la donna”, come qualcuno sembra suggerire, ma imparando a vedere Cristo in ogni persona.

L’illusione della psicologizzazione

La Jesus-teologia è quella che ha sostituito il discernimento con la diagnosi, la vocazione con il profilo psicologico. Ogni gesto, ogni inclinazione, ogni emozione deve essere letta alla luce del DSM-5, non del Vangelo. Salvo per l’omosessualità, quando si parla di questa si torna al DSM-I. Rispuntano termini senza alcuna base scientifica come "strutturalo o non strutturali", "passeggero o radicato", "tendenze", "disfunzioni", e altre sciocchezze varie. 

Ma il rischio di questa deriva è che il seminario diventi un ambulatorio, e il sacerdote un paziente. La formazione non è un esperimento clinico. Non servono psicanalisti del sacro, ma guide spirituali che conoscano il cuore umano e sappiano orientarlo verso Dio. La vera “cura” non è la supervisione esterna, ma la vita di preghiera, la direzione spirituale e la libertà interiore che nascono dal Vangelo.

La libertà del seminarista

Un altro aspetto che l’articolo non coglie è la libertà personale del seminarista. Troppo spesso viene ridotto a un numero, a un “caso”, a un profilo comportamentale da modellare. Ma la formazione autentica non può essere un processo di clonazione. Non esistono preti in serie: ci sono uomini con storie diverse, vocazioni diverse, temperamenti diversi. Uno potrà sentirsi più chiamato alla missione tra i poveri, un altro alla predicazione, un altro alla contemplazione. Il compito del seminario non è uniformare, ma aiutare ciascuno a riconoscere la propria vocazione personale nella chiamata al sacerdozio.

L’ideologia del “prete-non-prete”

Quando Segoloni dice che il prete non deve “mediare la grazia di Dio”, svela la radice del problema: l’idea di un clero ridotto a funzione sociale, non più a sacramento.

Eppure, il Concilio Vaticano II - che spesso si invoca ma poco si legge - insegna che i presbiteri «sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa» (PO, 2); che Cristo «promosse alcuni… come ministri… con la sacra potestà dell’ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati» (PO, 2); e che «è attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell’unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore; … per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell’eucaristia» (PO, 2). Perciò «Dio… ha voluto assumere degli uomini come soci e collaboratori, perché servano umilmente nell’opera di santificazione» (PO, 5), e nelle celebrazioni «rappresentano in modo speciale Cristo in persona» (PO, 13).

Il prete non è un facilitatore di gruppi, né un assistente sociale della fede. Dietro questa retorica “anti-sacrale” si nasconde una profonda paura del mistero. Si parla tanto di “umanità del prete”, ma poco della sua configurazione a Cristo. Come se la missione evangelica fosse un mestiere tra gli altri, e non una chiamata che attraversa tutto l’essere.

Famiglia, donna e realtà

L’articolo di Jesus affronta anche la “questione femminile”, con le solite accuse: la Chiesa sarebbe misogina, la donna non avrebbe voce, il seminario la escluderebbe. Ma chi vive la Chiesa sa che è esattamente il contrario. Le parrocchie, le sagrestie, i consigli pastorali ed economici, gli uffici diocesani sono pieni di donne. Non è una questione di potere, ma di vocazione differente. Si continua a parlare della presenza delle donne nei seminari come se fosse necessario, a ogni costo, “far vedere la donna al seminarista”, quasi che il problema fosse che non l’abbiano mai vista, o che non ne siano attratti. Si dà per scontato che la sua debba essere sempre una presenza materna, accudente, come se fosse l’antidoto a ogni possibile “deviazione”. Ma questa idea rivela piuttosto una ossessione malata per la sessualità, che non appartiene ai seminaristi, bensì - troppo spesso - ai formatori. Senza dimenticare che ci offre uno spaccato di una dipendenza affettiva nei confronti della figura materna di determinati rettori e anche vescovi.

È il segno di una Chiesa che fatica a comprendere che la famiglia non è più automaticamente il luogo dove il giovane impara relazioni sane e stabili. La donna non è di per sé figura di tenerezza e di cura: la realtà ci mostra, purtroppo, anche donne violente, che picchiano, che abusano, che abbandonano i figli, talvolta fino a farli morire. La cronaca ce lo ricorda con crudezza.

Come Chiesa, sembra che non siamo ancora capaci di accettare che la famiglia di oggi non è più quella idealizzata e predicata per decenni: esistono famiglie separate, ferite, disfunzionali. Ma dobbiamo comprendere che questo non determina necessariamente la vocazione di un giovane, né la compromette; e soprattutto, che non è solo in famiglia che egli può fare esperienza di relazioni autentiche e sane. Dovrebbe poterle vivere nella comunità cristiana e nel seminario, luoghi che dovrebbero educare alla comunione e alla libertà interiore. E invece, troppo spesso, si ritrova immerso in ambienti giudicanti, segnati da divisioni e ideologie, dove si preferisce spettegolare e puntare il dito piuttosto che accogliere e accompagnare.

Ritrovare il centro

L’impressione è che molti di questi “esperti” parlino più di sé che della Chiesa. Proiettano i propri disagi, le proprie ferite, le proprie letture psicologiche su un’istituzione che conoscono attraverso le loro lenti. E mentre cercano di “umanizzare” il prete, finiscono per disumanizzarlo, privandolo della sua dimensione spirituale, della sua libertà, della sua singolarità. La vera riforma non passa per l’ibridazione dei modelli o per la parità di genere nei seminari, ma per il ritorno al primato dell’umanità, della preghiera, della libertà. Solo chi ha incontrato Cristo, e lo ha incontrato attraverso un incontro che è anche una persona, può davvero innamorarsi di Lui. Le parole di questi preti intervistati, più che descrivere l’esperienza comune, sembrano raccontare la loro personale esperienza. È normale che un giovane decida di entrare in seminario dopo aver incontrato un sacerdote che lo ha affascinato: ma forse don Nicosia dimentica che quel sacerdote è stato, per quel giovane, il volto concreto di Cristo. È attraverso quell’incontro che egli ha conosciuto Gesù Cristo, e spesso proprio in quell’incontro ha vissuto la sua conversione.

Certo, esistono casi in cui un giovane si fissa su un modo di vivere il sacerdozio, imitandone i tratti esteriori o le rigidità del prete che lo ha affascinato. Ma non si può demonizzare questo passaggio: fa parte del cammino umano e spirituale. Il compito del formatore, infatti, non è riformattare il seminarista, cancellando ciò che lo ha plasmato, ma aiutarlo a discernere e a maturare quella scintilla di amore per Cristo che in lui è già accesa.

Non serve, anzi è pericoloso, insegnare al giovane a disprezzare o a rinnegare la figura sacerdotale che lo ha ispirato. Se un ragazzo di vent’anni tende all’imitazione, se mostra una certa rigidità, è semplicemente un segno della sua età. La crescita lo porterà, con il tempo, a essere più libero, più comprensivo, più capace di integrare. È nel Seminario che questo processo deve compiersi: non prima, e non attraverso un giudizio preventivo che rischia di soffocare la grazia della vocazione. A cosa serve il Seminario, se pensiamo di dover accogliere solo persone “perfette”?

Chi parla in questi termini finisce spesso per imporre modelli irrealistici, che neppure egli stesso rispecchia. Se si applicassero davvero i criteri che certi formatori pretendono dagli altri, dovrebbero essere i primi a lasciare il presbiterio. Il seminario non è un’accademia di impeccabili, ma una scuola di umanità redenta, dove la grazia lavora nella fragilità. Cristo stesso si circondò di uomini che oggi, probabilmente, sarebbero respinti da qualunque commissione di discernimento. La storia della Chiesa è costellata di figure che oggi sarebbero emarginate: Pietro, impulsivo e contraddittorio; Paolo, critico e indipendente; Luigi Gonzaga, giudicato “troppo mistico” e “poco avvezzo alle donne”; Filippo Neri, considerato “troppo giocherellone”; Giovanni Bosco, “troppo in mezzo ai giovani”; Giuseppe Benedetto Cottolengo, “troppo poco conforme al modello di prete del tempo” e alle regole ecclesiastiche, ecc….

Eppure, proprio attraverso questi uomini imperfetti ma veri, Dio ha costruito la sua Chiesa. Se il Seminario diventa il luogo dove si selezionano le persone piuttosto che discernere la volontà di Dio, smette di essere la casa della formazionee diventa una vetrina di apparenze. Cristo non cercava perfetti, ma cuori capaci di lasciarsi trasformare.

Anche la suora che mette in guardia dal “rischio di imitare il prete e non Gesù Cristo” sa bene che questa distinzione, per quanto teologicamente corretta, può diventare una retorica astratta. Tutti noi - laici, religiosi o sacerdoti - abbiamo conosciuto Cristo attraverso qualcuno. È sempre una mediazione personale a introdurci nel mistero della fede.

La maturità spirituale non consiste nel negare quell’influenza, ma nel trasformarla in libertà, nel mettere a frutto i propri talenti e nell’esprimere la propria personalità alla luce dell’incontro originario. Non è un “peccato” imitare per un tempo qualcuno che ci ha mostrato il volto di Dio: è parte del cammino verso la piena configurazione a Cristo. Se poi un giovane di venticinque anni parla con la stessa flemma del parroco novantenne, ne imita i gesti, si interessa solo a restaurare la dalmatica o a correre dietro a dei preti, allora sì, lì comincia a esserci un problema. Ma è proprio la comunità ecclesiale - e, se quel giovane è in seminario, il seminario stesso - a doverlo aiutare a maturare, a comprendere che un modello di riferimento è legittimo e persino necessario, ma che ciascuno deve vivere la propria età, custodire la propria libertà interiore e mettere a frutto i propri talenti, non diventare la copia sbiadita di qualcun altro.

La maturità di un prete, poi, si riconosce anche nella capacità di accompagnare chi lo segue aiutandolo a comprendere che la vera sequela non consiste nel legarsi a modelli umani e rigidi, ma nel vivere la libertà dei figli di Dio, imparando a esprimere la propria personalità alla luce del Vangelo.

Un esame di coscienza

“Jesus” crede di scuotere la Chiesa, ma in realtà la svuota di contenuto. Non è rinnegando le strutture che ci hanno ferito che si costruisce qualcosa di nuovo, né è mettendo al centro noi stessi o le nostre ideologie che si rigenerano le istituzioni ecclesiali. Il seminario è una realtà complessa, chiamata a tenere insieme due dimensioni inseparabili: lo stare con Lui e il camminare con gli altri - i confratelli, il popolo santo di Dio. Ma se prima non si sta con Lui, se non si coltiva un rapporto vivo con Cristo, non si può portare nulla agli altri. Se non permettiamo al seminarista di passare del tempo di deserto, quindi nel seminario, per potersi interrogare sulla sua vocazione, ci ritroveremo un domani un prete che lascia perché pieno di cose da fare che aveva già iniziato a “fare, fare e fare” da seminarista.

Chi oggi parla di “riforme” sembra spesso ignorare questa radice spirituale, e lo dimostra nel momento in cui riduce tutto alla mancanza di esperienza pastorale, senza vedere che le vere ferite nascono dentro il seminario stesso: lì, dove dovrebbero nascere legami fraterni, spesso non esistono relazioni sincere, reali, profonde. Come si può pensare che un seminarista impari a vivere la relazionalità pastorale in parrocchia, se non riesce a viverla nella propria comunità?

Le dinamiche malate sono tante e concrete: uso distorto dei social network, gelosie e paure, etichette, calunnie, maldicenze, ideologie e fazioni. Tutto ciò mina la fraternità e impedisce una crescita autentica. E lo stesso accade nel rapporto con i superiori: giudizi costanti, ideologie imposte, proiezioni psicologiche, favoritismi, divieti senza senso, accuse e sospetti. Tutti elementi che rendono il rapporto tra formatore e formato non sincero e non libero. Cose che poi ritroviamo nel presbiterio e nel rapporto fra vescovo e prete.

Questa è la realtà - e allora la domanda è inevitabile: come possiamo pensare di “mandare i seminaristi in parrocchia” per imparare a relazionarsi, se già in seminario le relazioni non funzionano? Dietro la patina di modernità di queste analisi apparentemente lucide, si nasconde un vuoto profondo: non siamo più capaci di dirci la verità, ma vogliamo continuare a parlare di rinnovamento, sinodalità, novità, solo per darci l’illusione di essere vivi. Ci agitiamo, facciamo, produciamo parole e iniziative, ma evitiamo accuratamente di guardare in faccia i problemi reali.

Ogni volta che qualcuno parla di seminario o di sacerdozio, lo fa attraverso le proprie lenti deformanti: chi è stato allontanato ne parla con rabbia, affermando che il seminario “fa schifo” e andrebbe abolito, e che i preti sono tutti ipocriti; chi è stato ordinato ma ha sofferto (e sono la maggior parte) finisce per condannare il sistema e le persone, incapace di riconciliarsi con quell’esperienza; chi è andato avanti per inerzia, senza grandi ferite ma nemmeno grandi passioni, vivacchia, auspicando che le cose restino così come sono; infine, arrivano le pseudo-teologhe che spiegano, con tono compiaciuto, quanto sia “indispensabile” la loro presenza nel processo formativo. Il risultato è sempre lo stesso: personalismo puro, dove ognuno parla di sé e nessuno parla di Cristo.

Finché continueremo a considerare la formazione sacerdotale come un esperimento sociologico, non faremo altro che offrire solo preti confusi, stanchi e sradicati, incapaci di abitare la propria umanità e di parlare il linguaggio di Dio. Solo quando torneremo a formare uomini di Dio, e non funzionari ecclesiastici o profili “adatti”, comprenderemo che le vocazioni non sono in calo: semplicemente, molti scelgono di non avvicinarsi a strutture che spesso sono diventate motivo di scandalo, perché non trasmettono umanità.

E lo scandalo vero non nasce da quelle ossessioni o turbe che popolano le menti di alcuni, ma dalla mancanza di carità, di fraternità e di normalità che troppo spesso abita i nostri ambienti, svuotandoli della gioia semplice del Vangelo.

d.G.F. e F.P.
Silere non possum