Castel Gandolfo - Nel quieto scenario di Castel Gandolfo, il Papa ha accolto i partecipanti al Pellegrinaggio Ecumenico Ortodosso-Cattolico provenienti dagli Stati Uniti. Un incontro che ha offerto un'occasione propizia al Pontefice per rivolgere ai presenti un discorso denso.
Le radici come segno e come domanda
Il pontefice si è rivolto ai pellegrini con un linguaggio affettuoso ma rigoroso, segnando subito un passaggio chiave: “Questo viaggio vuol essere un ritorno alle radici”. Ma quali radici? Quelle degli Apostoli Pietro e Paolo a Roma, e di Andrea a Costantinopoli: i fondamenti condivisi, ma anche le biforcazioni ecclesiali che, dal primo millennio, conducono a una frattura mai completamente sanata. Il Papa richiama il Simbolo niceno-costantinopolitano del 325 e del 381, «patrimonio comune di tutti i cristiani», ma il riferimento è tutt’altro che nostalgico. In filigrana, si legge la domanda più profonda: perché, se abbiamo lo stesso Credo, restiamo divisi nella comunione sacramentale?
Il Giubileo della speranza… e della consolazione
Il discorso si intreccia con il presente Anno Giubilare. Il Papa collega Peregrinantes in Spe — titolo del Giubileo 2025 — con il nome stesso del metropolita Elpidophoros, “portatore di speranza”. Ma subito dopo innesta un altro asse: la consolazione. Una parola biblica, certo, ma anche teologicamente densa. «L’unità tra i credenti in Cristo è uno dei segni del dono divino della consolazione; la Scrittura promette che «a Gerusalemme sarete consolati», ricorda Leone citando Isaia. E poco dopo richiama la Bolla Spes non confundit, che guarda al 2033 come anno del bimillenario della Redenzione.
La speranza cristiana, dunque, non è mera attesa ottimistica. È la certezza che “nessun grido delle vittime innocenti della violenza, nessun lamento delle madri in lutto rimarrà inascoltato”. Non si tratta di un inserto emozionale. È consapevolezza: l’unità della Chiesa passa anche da qui, dalla capacità di non essere sorda ai drammi del mondo. Non si può camminare insieme se non si è disposti ad ascoltare insieme.
Nicea e il 1054: anniversari che chiedono scelte
Il riferimento al Concilio di Nicea non è solo celebrativo, ma strategico. Il Papa rilancia la Commemorazione ecumenica del 1700º anniversario come occasione per un passo concreto verso l’unità. Ma per essere significativo, quel passo dovrà essere reale, visibile, non solo simbolico. L’anniversario delle scomuniche del 1054, revocate nel 1965 da Paolo VI e Atenagora, è ricordato non per lodare il passato recente, ma per evocare un’esigenza: «Prima di allora, un pellegrinaggio come il vostro non sarebbe stato nemmeno possibile». Tradotto: ciò che oggi diamo per scontato è frutto di uno Spirito che ha lavorato oltre gli ostacoli umani. E ciò che oggi non osiamo fare potrebbe, un giorno, apparire altrettanto ovvio. Ma solo se ci si lascia “muovere” ancora.
Una critica sottile alla logica del primato conteso
Uno dei passaggi più affilati è, forse, quello sulla tentazione di contendersi il primato. “Roma, Costantinopoli e tutte le altre Sedi non sono chiamate a contendersi il primato”, avverte il Papa, con un riferimento netto al Vangelo di Marco (Mc 9,33-37), quando i discepoli discutevano su chi fosse il più grande. È una frase che, letta con attenzione, mostra il nervo scoperto: la fatica del cammino ecumenico passa anche per un ripensamento della primazia romana, che non può più essere esercitata come dominio, né letta come ostacolo. Il Papa non rinuncia al primato, ma lo colloca in una logica di servizio, non di supremazia. Questo è, di fatto, uno dei nodi teologici irrisolti del dialogo con l’Oriente. E il Papa lo nomina con quel garbo che gli è consueto: senza alcuna vaghezza, ma con una chiarezza ponderata.
Gerusalemme come ritorno necessario
Il finale del discorso è un ritorno alla Gerusalemme spirituale. Non è solo la città santa delle origini. È anche il punto d’approdo desiderato: il luogo dove l’unità si fece fuoco, a Pentecoste, e da cui partì la missione. L’invocazione al buon Samaritano non è un’appendice morale. È una visione ecclesiale: “versare sull’umanità l’olio della consolazione e il vino della gioia”. Ma per farlo, è necessario lasciarsi ferire dalle piaghe dell’altro, come fece il Samaritano. È necessario accettare di rallentare il passo, di perdere tempo, di sporcarsi le mani. Come fa chi accompagna i feriti.
Un discorso che chiede coerenza
In definitiva, il Papa consegna a questo gruppo americano — composto da ortodossi e cattolici — un invito esigente. Non si limita a benedire un pellegrinaggio, ma chiede che esso diventi segno profetico, passo avanti reale. È un discorso che non si limita al tono dell’accoglienza, ma spinge — quasi costringe — a interrogarsi: cosa stiamo facendo, oggi, per la piena unità dei cristiani? E cosa siamo disposti a rischiare per essa? Il Giubileo, Nicea, Gerusalemme: tre nomi, tre simboli. Ma anche tre sfide. Il resto — come sempre — dipenderà dal coraggio dei discepoli.
f.S.A.
Silere non possum