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Città del Vaticano - Nella splendida cornice della Cappella Sistina, sotto il maestoso affresco del Giudizio Universale di Michelangelo, Sua Santità Leone XIV ha presieduto questa mattina la sua prima Santa Messa da Pontefice, all’indomani della sua elezione al soglio di Pietro, avvenuta ieri, 8 maggio.
L’intera compagine cardinalizia ha preso parte alla celebrazione, inclusi i cardinali ultraottantenni, in un clima di profonda comunione ecclesiale e raccoglimento. Con il suo stile sobrio e riservato, il nuovo Papa, nato Prevost, ha dato inizio alla liturgia intonando il saluto iniziale in latino: «In nomine Patris». Le sue parole, scandite da una voce tremante per l’emozione, hanno toccato i presenti, rendendo visibile la consapevolezza e il peso spirituale del ministero appena ricevuto. Il Vangelo proclamato in questa solenne celebrazione è stato quello in cui Gesù affida a Pietro la guida della Chiesa: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa». Un passo scelto non a caso, che ha fatto da cornice perfetta all’inizio del nuovo pontificato, in questa Santa Messa "Pro Ecclesia".
Durante l’omelia, Papa Leone XIV ha meditato sulla professione di fede dell’apostolo Pietro come sintesi del tesoro che la Chiesa custodisce da duemila anni. Ha affermato con chiarezza: «Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, l’unico Salvatore, il volto del Padre che si rende vicino e accessibile all’uomo». Ricordando come Cristo si sia rivelato nelle tappe della vita — negli occhi di un bambino, nella mente di un giovane, nel volto di un uomo — il Papa ha indicato in Lui il modello di umanità santa da imitare e la promessa di una vita eterna che trascende ogni limite umano. Commentando il mandato petrino, ha evidenziato come questo incarico non sia un privilegio, ma una chiamata alla responsabilità e al servizio. Ha affermato che la salvezza affidata alla Chiesa è dono e compito insieme: «Affidata a noi da Lui, scelti prima ancora che ci formassimo nel grembo materno, rigenerati nel battesimo, inviati perché il Vangelo sia annunciato a ogni creatura». Rivolgendosi direttamente ai cardinali che lo hanno eletto, ha detto: «Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al primo degli apostoli, affida a me questo tesoro, perché, con il suo aiuto, ne sia fedele amministratore».

Con grande realismo, Leone XIV ha denunciato le due risposte che il mondo contemporaneo offre ancora oggi alla domanda di Gesù: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Da una parte, la cultura dominante che considera Cristo irrilevante o fastidioso; dall’altra, una visione più rispettosa ma riduttiva, che lo limita a un profeta giusto tra tanti. Entrambe, ha sottolineato, rivelano una fede debole, incapace di sostenere le sfide del presente. Ha poi rivolto un appello forte e diretto: «Anche oggi ci sono contesti in cui la fede cristiana è derisa, ritenuta assurda, incompatibile con la modernità. Ma sono proprio questi i luoghi dove l’annuncio di Cristo è più necessario, per restituire senso, dignità e speranza».
In conclusione, il Papa ha affidato il suo pontificato alla Vergine Maria, Madre della Chiesa, e ha pronunciato parole toccanti che risuonano come un programma spirituale: «Le sue parole [di Ignazio di Antiochia] richiamano, in senso più generale, un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: Sparire perché rimanga Cristo. Farsi piccoli, perché Lui sia conosciuto e glorificato. Spendere tutto sé stessi, perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre».
Una preghiera semplice, pronunciata nel silenzio sacro della Sistina, che già lascia intravedere il cuore del nuovo Successore di Pietro: un pastore mite, radicato nel Vangelo, che vuole guidare la Chiesa sulla via dell’umiltà e della verità riportando al centro Cristo Gesù, non gli uomini.
d.V.P.
Silere non possum
Testo dell'omelia di Sua Santità Leone XIV
I will begin with a word in English, and the rest is in Italian.
But I want to repeat the words from the Responsorial Psalm: “I will sing a new song to the Lord, because he has done marvels.”
And indeed, not just with me but with all of us. My brother Cardinals, as we celebrate this morning, I invite you to recognize the marvels that the Lord has done, the blessings that the Lord continues to pour out on all of us through the Ministry of Peter.
You have called me to carry that cross, and to be blessed with that mission, and I know I can rely on each and every one of you to walk with me, as we continue as a Church, as a community of friends of Jesus, as believers to announce the Good News, to announce the Gospel.
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette.
Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre.
In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr Conc. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.
Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr Ger 1,5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr Mc 16,15).
In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr 1Cor 4,2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture e per la grandiosità delle sue costruzioni – come i monumenti in cui ci troviamo –, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).
Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni.
«La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti. C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo. C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi. Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo. Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere. Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.
Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto. Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Cristo Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr Conc. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1). Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio questa mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa.