Città del Vaticano – Questa mattina, nell’Aula Paolo VI, padre Roberto Pasolini OFM Cap, Predicatore della Casa Pontificia, ha offerto alla Curia Romana e al Santo Padre la seconda meditazione di Avvento 2025, dal tema: “Ricostruire la casa del Signore. Una Chiesa senza contrapposizioni”. Un intervento che ha messo a tema la responsabilità ecclesiale di accogliere la grazia non solo come singoli, ma come corpo, evitando le scorciatoie dell’uniformità e le polarizzazioni che rendono sterile il discernimento.

Una Chiesa “edificio” da edificare insieme

Dopo la prima meditazione dedicata alla vigilanza nell’attesa della Parusia, Pasolini ha spostato l’asse sul “noi” ecclesiale: il Battesimo, ha ricordato, costituisce i credenti «collaboratori di Dio» chiamati a edificare il suo «edificio» che è la Chiesa, “segno e strumento” di unità secondo Lumen gentium. La domanda di fondo è netta: quale unità testimoniare oggi, e come renderla credibile nel mondo.

Babele: l’unità cercata come uniformità

Per rispondere, il Predicatore ha ripercorso il racconto della torre di Babele: un progetto che nasce dalla paura della dispersione e si presenta come operazione “ragionevole”, ma in realtà nasconde una logica di controllo. La frase-chiave del testo biblico, ripresa nella meditazione, è: «Venite… facciamoci un nome, per non disperderci». Qui l’unità non nasce dalla composizione delle differenze, ma dall’omologazione: “mattoni” identici al posto delle pietre irregolari, consenso rapido al posto del confronto reale. Pasolini ha poi attualizzato la tentazione dell’omologazione: ieri i totalitarismi, oggi dinamiche più sottili, dalle bolle informative ai linguaggi standardizzati, fino alla Chiesa quando confonde l’unità della fede con l’uniformità delle espressioni e delle sensibilità.

La “confusione” come terapia: Dio salva la differenza

Il punto teologico è decisivo: Dio non “punisce” Babele per gelosia, ma interviene per prevenire un processo di morte. Il testo mette in bocca al Signore parole durissime e insieme medicinali: «Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua». La confusione diventa così una protezione, perché impedisce che un’unica voce si imponga come assoluto e restituisce all’umanità la possibilità di non essere tutta uguale.

In controluce emerge la Pentecoste come racconto “speculare”: non una lingua unica per tutti, ma una comunione in cui ciascuno comprende “nella propria lingua”. Differenza custodita, non abolita.

Il tempio da ricostruire: gioia e lacrime nello stesso canto

La meditazione passa poi alla storia di Israele e alla ricostruzione dopo l’esilio: Neemia, Esdra, le mura e il tempio. Il dettaglio che Pasolini valorizza è la fatica concreta e personale (“ognuno davanti alla propria casa”) e la vigilanza dei costruttori: «con una mano lavoravano e con l’altra tenevano la loro arma». La ricostruzione della casa di Dio, insomma, non è mai ingenua: comporta conflitto interiore, resistenza spirituale, perseveranza. Il vertice narrativo è la scena delle fondamenta del nuovo tempio: alcuni esultano, altri piangono. La Scrittura, spiega il religioso cappuccino, registra un fatto sconcertante: «Non si poteva distinguere… gioia… dal… pianto». È l’immagine di una Chiesa che non riparte da zero, ma porta memorie, ferite, nostalgia e speranza nello stesso cantiere.

Riforma: né conservatorismo di rifugio né innovazione acritica

Da qui Pasolini trae criteri per il rinnovamento ecclesiale: mai scambiare la comunione con l’uniformità; accettare il combattimento spirituale; imparare a “patireinsieme senza cancellare la voce dell’altro. Come icona spirituale richiama Francesco d’Assisi e la parola che lo mette in cammino: «Va’, ripara la mia casa»; inizialmente pietre e mura, ma presto la consapevolezza che il vero tempio da risanare è la Chiesa stessa. Il riferimento esplicito al Vaticano II è altrettanto diretto: la Chiesa peregrinante è chiamata a una «continua riforma», intesa non come moda ma come fedeltà più grande alla vocazione.



Il “declino” come tempo di grazia e la critica alle polarizzazioni

Nell’ultima parte, a sessant’anni dal Concilio, la meditazione affronta il nodo più sensibile: la lettura del tempo presente. Pasolini distingue declino e decadenza: il primo può diventare travaglio fecondo; la seconda è la deriva in cui la Chiesa smarrisce la propria natura sacramentale e scivola nell’autopercezione di organizzazione, tra moralismo e prestazione. Per leggere questo passaggio invita a non “armare” contrapposizioni ideologiche (progressismo/tradizionalismo) e a non cercare soluzioni immediate, ma gesti umili e concreti: il tratto di muro “davanti alla propria casa”.

Il criterio evangelico resta la logica pasquale del seme: «se il chicco di grano… non muore, rimane solo». Nel rinnovamento, alcune forme si spengono e altre nascono: l’essenziale è non trasformare la perdita in paura, né la paura in fazione.

Pietre vive verso la “Gerusalemme del cielo”

La meditazione si è chiusa con una preghiera che sintetizza l’intero percorso: una Chiesa fatta di “pietre vive”, chiamata a progredire nell’edificazione della “Gerusalemme del cielo”, nella consapevolezza che la casa definitiva non è prodotta dalle strategie umane ma ricevuta come dono. La prossima meditazione sarà offerta alla curia venerdì prossimo.

p.L.C.
Silere non possum