Spiritual abuses in the Church. The spiritual father of the Roman seminary speaks

🇬🇧 Spiritual abuse. Fr. Giuseppe Forlai: “the good spiritual father is like a tailor’s meter”

Gli abusi spirituali e di coscienza, nella Chiesa, sono un rischio che troppo spesso non teniamo sufficientemente in considerazione. Silere non possum ha affrontato molte volte il problema e lo tratta anche nella rubrica sulla formazione sacerdotale Pharmakon. Nel volume di aprile 2023 del mensile Jesus è stata proposta una intervista al Rev.do Sac. Giuseppe Forlai, direttore spirituale del Pontificio Seminario Romano. Il sacerdote offre diversi spunti sul tema, che possono aiutare la riflessione. All'interno del seminario della diocesi del Papa, l'equipe formativa ha proposto a tutti i seminaristi il testo Schiacciare l'anima del Rev.do Padre Dysmas De Lassus O. Cart., il quale tratta in modo magistrale questo delicato problema. Queste iniziative, quindi, sono molto positive e fanno comprendere come la Chiesa sta tentando, con non poca sofferenza, di affrontare il problema e prevenirne lo sviluppo.

F.P.

Silere non possum

Don Giuseppe, nei suoi colloqui spirituali si è trovato di fronte a casi di abuso e manipolazione. La cronaca di questi ultimi mesi ci rimanda a storie di macroscopica gravità. Lei scrive che la prima cosa è prevenire. Allora ci aiuti a capire: chi è a rischio manipolazione?

«I soggetti più a rischio sono le persone che hanno bisogno di molte conferme dal punto di vista affettivo e che cercano qualcuno che decida al posto loro, magari tirando in ballo la volontà divina. Desiderano, cioè, uno sguardo paterno sulla loro vita, che conferisca il permesso di esistere, che invii all’anima un doppio messaggio: “Tu sei importante” e “non rischi nulla perché ci penso io”. Il rapporto manipolatorio, infatti, non dà mai autonomia. In chi arriva in seminario non abbiamo riscontrato casi di persone abusate fisicamente, ma spiritualmente sì, da parte di sacerdoti o guide carismatiche, anche laici, che hanno inculcato nei giovani la convinzione di avere la vocazione. Dire “la volontà di Dio sulla tua vita è questa” è generalmente una forma di abuso spirituale. E di questi casi, in undici anni, ne ho trovati non
pochi, a occhio e croce direi due ogni
dieci. In seminario queste persone
sono state responsabilizzate, hanno
ricevuto gli strumenti per discernere
e sono andate via da sole, appena hanno iniziato a respirare. Ma ci sono sta-
te anche situazioni più difficili: se hai
vissuto una paternità malsana, in cui
sei stato convinto che Dio ti ama solo
se diventi prete (e non sto esagerando), quando capisci che non è quello il tuo desiderio profondo, allora crolla tutto. Sono spesso ragazzi giovanissimi, molto legati a una figura di presbitero o animatore che non ha saputo misurare la propria autorevolezza nei loro confronti».

È capitato di avere ragazzi inviati in serie dallo stesso parroco?

«Sì. In seminario si lavora in équipe, gli educatori e il rettore si accorgono subito se una persona ha sostanza vocazionale o se l’idea viene da condizionamenti. Quando arriva un ragazzo, prima dell’anno propedeutico, l’educatore responsabile tiene una serie di colloqui approfonditi. Poi c’è anche la diagnostica psicologica. Ma è soprattutto in tre ambiti che si vede l’autenticità della vocazione: l’amore per la preghiera, la capacità di perdonare, l’instaurazione di relazioni sane. Chi è spinto a entrare in seminario da altri, solitamente è irrequieto e copre il disagio o con fughe pseudo-mistiche o con l’iperattivismo pastorale, fatto passare per spirito di servizio. Capita che a volte il manipolatore non sia neanche lui cosciente di quel che produce nelle anime. Spesso ci si improvvisa direttore spirituale per gratificare dei bisogni personali: a volte veri e propri vuoti affettivi vengono colmati con il dominio sulle persone. Il foro interno è l’ambito in cui il maligno può mietere più vittime di quel che si possa pensare. In questo abbiamo bisogno di più serietà: a volte si pensa che un sacerdote appena ordinato sia capace di svolgere tutti i ministeri che gli sono affidati. Ci sono preti con qualche anno di Messa che fanno i direttori spirituali e predicano esercizi. La mistagogia della vita sacerdotale è scomparsa dal nostro orizzonte. Non si ha più voglia di maturare lentamente sul campo. Ma le conseguenze si vedono».

Queste situazioni sono più frequenti oggi o si è solo più attenti?

«Si è più attenti di un tempo. L’abuso specificamente spirituale è molto frequente, oggi più di ieri, perché è ritornata molto “di moda” la direzione spirituale, complice un certo disorientamento generalizzato. Prima la gente cercava giustamente il confessore ordinario, ora il direttore spirituale, a volte in maniera morbosa. Un padre surrogato. Viviamo in una società in cui le persone non sono ascoltate, non ci sono punti di riferimento, ma tante paure e ansietà. Avere un adulto che in nome di Dio ti dice cosa fare è una grande comodità. La salutare fatica del pensare e del cercare la Verità mi viene apparentemente risparmiata. Il padre spirituale improvvisato non dà strumenti per discernere, per ascoltare la parola di Dio in autonomia, per assumersi responsabilità nella Chiesa, ma è lui lo strumento. Al contrario, quello accorto non si mette in mezzo alla relazione tra il soggetto e Dio, verifica semplicemente che si sia giocata la partita secondo le regole della vita cristiana. Per farlo bisogna aver meditato e digerito la dottrina dei grandi maestri dello Spirito: Ignazio, Teresa, Giovanni della Croce, Francesco di Sales, solo per citare i più noti. Qualcuno pensa di non averne bisogno, basandosi solo su quello che “sente” o “crede”: ma nella Chiesa, grazie a Dio, c’è una tradizione molto solida su questi temi. Santa Teresa d’Avila era molto chiara circa le competenze dottrinali del direttore spirituale. L’attitudine ad autoproclamarsi direttore spirituale, in senso tecnico, non è diffusa solo tra i presbiteri, ma anche nei movimenti e nelle aggregazioni ecclesiali. Il clericalismo è presente anche tra i laici. La leggenda metropolitana che si sta diffondendo, per cui il clericalismo si elimina mortificando il clero, è una disonesta ingenuità. È opportuno comunque ricordare che la direzione spirituale è un mezzo secondario e non primario della vita cristiana: Vangelo e sacramenti sono mezzi primari, poi ci sono i secondari, come ad esempio gli esercizi spirituali e una devozione particolare. Questi ultimi aiutano grandemente ma non sono essenziali per la santificazione delle persone.

Non si muore senza direttore spirituale, è molto più importante imparare a confessarsi bene e spesso».

Qual è il profilo del manipolatore?

«È una persona che vanta un rapporto privilegiato con Dio: “Io so…”, “nella preghiera ho capito che …”, “ho pregato tanto sulla tua situazione e so che il Signore vuole questo”. Espressioni già considerate erronee e da evitare, come insegnava sant’Ignazio nella quindicesima annotazione dei suoi Esercizi. I Padri del deserto ai figli spirituali davano solo le perle del Vangelo, con grandissima libertà. San Benedetto, nel capitolo 58 della Regola in cui istruisce circa l’ammissione dei candidati in monastero, fa di tutto per metterli alla prova in modo che emergano le vere motivazioni. Inoltre, il manipolatore, e le comunità manipolatrici, hanno sempre un nemico – il vescovo, un certo settore della Chiesa, un teologo – perché compattarsi è facile quando si elegge un avversario. C’è una narrazione funzionale a far apparire i fondatori come delle vittime espiatrici. Ne ho conosciuto uno che si lamentava di essere perseguitato della massoneria: quando gli chiesi i dettagli non seppe dirmi né un nome, né una circostanza. Il fondatore manipolatore in genere recita la parte del perseguitato davanti ai suoi – fino a versare lacrime – ma è prepotente con gli esterni, a volte anche minaccioso. Altra caratteristica è che il manipolatore/abusatore è un narcisista assoluto. Non ama davvero i suoi figli spirituali e nemmeno, in fondo, le opere a cui ha dato vita.

Quando finisce lui, finisce tutto. Se viene scoperto non è interessato a scagionare la comunità, perché non può sopportare che i figli abbiano una vita dopo la sua fine. L’incesto spirituale richiede l’omicidio psicologico. Un altro elemento che ricorre spesso è che i manipolatori non hanno mai problemi di soldi. Perché c’è una parte di Chiesa e di fedeli con molti mezzi che li valorizzano: i santoni attirano benefattori. I poveri non ci sono mai. È un fenomeno trasversa- le e con varie sfaccettature. Infine, una componente di questi ambienti manipolatori è il familismo, che è anche la causa degli insabbiamenti. Si chiede di conservare una comunione che non è altro che complicità, spesso a scapito dell’onestà. Si negano le malefatte del leader spirituale anche quando sono conclamate, o addirittura quando la Chiesa si pronuncia con una sentenza chiara. Questo è diabolico: colui che con il suo fascino mi ha riavvicinato alla Chiesa, ora ne diviene causa di allontanamento! Le persone possono cadere in questo errore ragionando all’incirca in questo modo: siccome ho riscoperto la fede con questa persona – il fondatore, il leader, il padre spirituale – allora potrò continuare a vivere la fede solo con lui. Cosa è successo? Che il legame, la gratitudine, sono diventati il capolinea della ricerca della verità evangelica. La fisionomia spirituale del leader diviene quella dei suoi seguaci. Invece non bisogna legarsi a nessuno, come ha insegnato Gesù: “Non chiamate nessuno padre sulla terra” (Matteo 23,9); è una cosa estremamente seria. Bisogna essere persone adulte, autonome, nonostante i propri timori. Per legarsi a Cristo, al Vangelo, bisogna essere coraggiosi, e anche darsi il permesso di rischiare qualcosa. Abbiamo un esempio bellissimo nella storia: quando san Francesco muore, disteso sulla terra, a Santa Maria degli Angeli, la sera del 3 ottobre 1226, i frati gli chiedono di dire loro qualcosa di definitivo, che li aiuti a camminare veracemente secondo il carisma ricevuto. E Francesco risponde: “Io ho fatto la mia parte, la vostra ve la insegni Cristo”. Solo il maligno produce copie. Ognuno di noi deve assumersi il rischio di seguire il Signore».

La rigidità è segnale di cosa?

«Cosa si intende per rigidità? Un prete chiaro nella dottrina, che chiama le cose per nome, non è rigido, è semplicemente “ecclesiale”, trasmette ciò che ha ricevuto. La rigidità la riferiamo all’ambito della volontà, al come metto in pratica nella vita la verità che mi è stata donata. Un amico canonista, padre Ottavio De Bertolis, faceva un esempio molto bello: prendeva un righello e un metro da sarto. Entrambi gli strumenti riportano i centimetri, ma il primo è rigido, il secondo misura seguendo le forme della persona. I manipolatori sono molto chiari di solito, ma non hanno una pedagogia: ti dicono cosa fare, ma non come arrivare alle cose. Sono righelli, non metri da sarto; ti mostrano la mèta, non la strada. Perché non l’hanno percorsa nemmeno loro!».

Il carisma può essere pericoloso?

«Il vero educatore è uno che a un certo punto scompare. Ci sono tante persone carismatiche, ma a volte ingenuamente noi confondiamo la notorietà con il carisma. Un carisma è certo quando è riconosciuto dalla Chiesa. Almeno questo è il filtro fondamentale. I grandi santi quando si accorgevano di avere doni straordinari cercavano di nasconderli. Nessun santo ha mai cercato la notorietà. Avere un carisma non significa automaticamente essere legittimati a svolgere un ministero. Anche qui una semplicissima indicazione dei Padri del deserto: chi si autopropone all’altro come padre spirituale va immediatamente fuggito. Perché si è scelti come padri, non ci si scelgono i figli».

Come si sviluppa il rapporto abusante? A cosa bisogna stare attenti?

«È progressivo. All’inizio c’è una grande accoglienza e un’apparente valorizzazione, che in realtà è seduzione. Poi la persona viene isolata dal suo abituale contesto relazionale. È una dinamica tipica, anche nel mondo animale: si aspetta che la preda si allontani dal gruppo prima di sferrare l’attacco. Il ventaglio affettivo ridotto: la relazione diventa sempre più esclusiva con la figura leader e con gli altri “figli”, in un rapporto verticistico. Uno dei tre sussidi prodotti dalla Cei sul tema degli abusi (La formazione iniziale in tempo di abusi) – utilissimi e illuminanti – descrive molto bene l’ambiente abusante, mettendo in luce come esso non si può dare dove c’è molteplicità di relazioni e scambio intergenerazionale. Per esempio: una comunità in gran parte composta da giovani è più soggetta al verificarsi dell’abuso. Dove c’è manipolazione viene anche inculcato un concetto tossico di obbedienza, legata solo al superiore. Nella tradizione monastica e religiosa, invece, l’obbedienza è a tre livelli: al Vangelo, alla Regola e al superiore, dove i primi due sono la garanzia che salva dall’arbitrio di un eventuale superiore non libero».

In molti casi, anche dinanzi alle accuse l’abusatore sembra non avere coscienza delle sue colpe. È solo finzione o c’è altro?

«Il narcisista patologico sa che sta facendo del male, altrimenti davanti alle accuse comprovate non negherebbe. Però spiritualizza, cioè pensa di proporre una via “che ancora la Chiesa non può capire”. Bisogna stare attenti, perché tra spiritualità e sessualità c’è una membrana di separazione sottilissima, specialmente in quelle correnti spirituali dove si mette molto l’accento sulla progressiva azione dello Spirito Santo, separandolo dal Verbo, dall’esempio di Cristo che norma la nostra esistenza quotidiana. Lo Spirito senza λόγος non è lo Spirito Santo che annuncia la Chiesa. A volte, come diceva un frate, “si parla di spiritualità solo per non parlare di morale”! Lo Pseudo Macario, nel IV secolo, insegnava che sebbene riempito di Spirito, possono contemporaneamente permanere delle dimensioni della mia esistenza che non riesco a padroneggiare tramite la temperanza.

Da qui si sviluppano due vie del pensiero: una dice che occorre lavorare con umiltà su ciò che non è ancora trasfigurato, affidandosi alla grazia; e un’altra insegna che tutto quello che si vive, anche sessualmente, ormai è trasformato; il peccato c’è ma non è più imputabile. In altre parole, il disordine sessuale sebbene agito, non sarebbe più peccato perché lo Spirito Santo ha già cancellato la malizia in radice. È una deriva storicamente ricorrente – sovente appendice di circoli gnostici – che troviamo per esempio nei Chlysty, una setta che dicono ancora esista in Russia, nata poco prima della metà del 1600, di cui faceva parte probabilmente anche il famigerato Grigorij Rasputin (+1916), lo pseudo mistico laico, padre spirituale dello zar Nicola II, che aveva abitudini sessuali disinibite. Non siamo di fronte a semplici debolezze carnali, bensì a un sistema “teologico” consapevole, che razionalizza misticamente ciò che l’io non riesce ad integrare».

Ma come capire se si è manipolati?

«La prova è semplicissima. Il manipolatore non ti fa mai staccare da lui. Se gli dici: “Sono anni che camminiamo insieme, sento il bisogno di parlare con quest’altra persona”, ed egli ti risponde “vai pure, sei grande abbastanza per decidere”, allora puoi stare sereno. Al contrario, se inizia a trattenerti, magari tirando in ballo il Signore “che ci ha fatti incontrare”, allora bisogna diventare molto guardinghi. La libertà nel distacco – nell’accompagnato e nell’accompagnatore – è la prova del nove».

Con chi parlare se si ha il sospetto di essere manipolati?

«Una cosa è sentirsi manipolati, un’altra cosa è l’abuso oggettivo. Alcune persone possono sentirsi manipolate ma non lo sono realmente. Comunque, se un rapporto è oggettivamente costrittivo, bisogna andare a parlare con un prete – meglio il proprio parroco (i nostri parroci solitamente possiedono il grande carisma della normalità) – o con il vescovo: con qualcuno, insomma, che abbia la capacità di oggettivare la cosa, al di fuori del cerchio magico del manipolatore. Ci si può rivolgere anche al Servizio di tutela dei minori che ormai è presente in ogni diocesi. È molto discreto, dà informazione e sostegno, aiutando a discernere; non si rivolge solo ai minori, ma anche alle persone vulnerabili e a chi vive momenti di fragilità».

Il fenomeno della manipolazione è più frequente in ambito religioso?

«È un fenomeno sociale trasversale. Può avvenire nelle psicoterapie, nello sport, nella scuola… Certo, la motivazione religiosa può caricare maggiormente l’abuso, vincolando la coscienza. In passato, inoltre, si ragionava in questa maniera: meglio “non far sapere” perché lo scandalo nuoce alla Chiesa; oggi ci si rende conto che il silenzio nuoce più dello scandalo. Le persone non sopportano le coperture. Bisogna però ricordare che le vittime vanno aiutate e i colpevoli puniti e messi in situazione di non nuocere…

Ma questo non significa rivelare tutto, se non ciò che è inevitabile ai fini processuali: il Codice di Diritto canonico al canone 220 è molto chiaro. Le persone – tutte – hanno diritto a conservare la buona fama per quanto possibile. Non esistono “mostri”, ma solo figli di Dio che sbagliano».

Oggi si parla di tolleranza zero…

«Non amo questa espressione, non è evangelica e rischia di essere ipocrita. Chi esamina ogni giorno queste situazioni nei Dicasteri vaticani preposti, mi racconta che nelle relazioni del seminario c’era già scritto tutto quello che bisognava sapere per poter prendere una decisione seria. Ma i soggetti sono stati ordinati ugualmente per motivi “misteriosi”. I formatori dovrebbero essere abili a distinguere i problemi di crescita dai problemi strutturali. Ma questo è un altro discorso. Voglio dire che quando si ordina un soggetto notoriamente problematico non si può in seguito invocare la tolleranza zero qualora accadano cose disdicevoli. Troppo comodo ridurre allo stato laicale un ministro di cui già si sapeva che non possedeva i requisiti minimi per essere ordinato».

Si sa che, anche in Italia, ci sono diocesi che accolgono seminaristi dimessi da altre strutture formative…

«Succedeva un tempo, ora molto meno. La mia esperienza è questa: abbiamo avuto dei ragazzi che erano stati dimessi da altro seminario. E lo abbiamo scoperto da soli, senza che il vescovo inviante ce lo comunicasse. La Ratio fundamentalis sulla formazione dei presbiteri, al n. 205, prevede che il rettore abbia tutte le informazioni necessarie sul candidato, compreso l’esito scritto circa la tappa formativa precedente, vissuta in altro luogo. È un obbligo, non una cortesia. Bisognerebbe solo essere onesti».

Perché lo fanno? Sono preoccupati della carenza di vocazioni?

«Non so rispondere di preciso. Potrebbe essere così. Può accadere che alcuni vescovi cadano nell’inganno di credere di saperne più dei formatori. Grazie a Dio è raro; oramai c’è una collaborazione avanzata. Episodio di qualche anno fa: davanti a una relazione negativa circa l’idoneità di un ragazzo all’ordinazione, il vescovo ribatté ai formatori: “Lo conosco io, voi che potete saperne!”. In realtà, lo vedeva due volte l’anno durante le vacanze! L’umiltà risolverebbe una grande quantità di problemi»

Don Giuseppe Forlai, 51 anni, da 11 anni è il direttore spirituale del Pontificio Seminario Romano Maggiore. Già vicario parrocchiale, cappellano negli istituti penitenziari e docente di religione, ha conseguito il dottorato in Teologia dogmatica e insegna all’Istituto di Teologia della vita consacrata Claretianum.

Articolo pubblicato sul numero di Aprile della rivista Jesus. Si ringrazia Edizioni San Paolo per la gentile concessione.