Day five of the Apostolic Journey to South Sudan and the Democratic Republic of Congo. Silere non possum's account

Il quinto giorno del Viaggio Apostolico di Sua Santità è iniziato oggi, 04 febbraio 2023, con la Santa Messa celebrata in privato nella Nunziatura di Giuba.

Francesco si è poi recato presso la Cattedrale di S. Teresa di Giuba per l’incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi. “Nel mio discorso di ieri mi sono ispirato al corso delle acque del Nilo, che attraversa il vostro Paese come se fosse la sua spina dorsale. Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati «con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo» (Tt 3,5)”, ha detto il Papa.

“Proprio secondo una prospettiva biblica – ha continuato – vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini”. 

Bergoglio si è domandato: “Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore? Questa è la domanda. Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Credo che queste due cose toccano la nostra vita, qui”. 

“Sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani”, ha sottolineato.

Poi, in merito al secondo atteggiamento, Francesco ha detto: “Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente”. 

Tornando alla figura di Mosè il Papa ha invitato a guardare tre immagini: “La Scrittura ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate al cielo”. 

All’incontro hanno presenziato cinquemila persone. Il Papa, poi, ha fatto rientro in Nunziatura dove ha incontrato in forma privata i Membri della Compagnia di Gesù presenti nel Paese. 

L'incontro con gli sfollati

Francesco ha poi raggiunto gli sfollati interni presso la Freedom Hall. Il Paese è il quarto nella lista di crisi degli sfollati più trascurati al mondo e rappresenta anche la più grande crisi di rifugiati in Africa. Negli ultimi sette anni i conflitti hanno causato circa 400mila vittime e oltre due milioni di sfollati interni a cui vanno aggiunti 2,3 milioni di sud-sudanesi costretti a fuggire negli stati confinanti, soprattutto in Uganda, ma anche in Sudan e in Etiopia che il Papa ha ricordato al termine del suo intervento.

“Il futuro non può essere nei campi per sfollati – ha detto il Papa – C’è bisogno che tutti i ragazzi abbiano la possibilità di andare a scuola e pure lo spazio per giocare a calcio! C’è bisogno di crescere come società aperta, mischiandosi, formando un unico popolo attraverso le sfide dell’integrazione, anche imparando le lingue parlate in tutto il Paese e non solo nella propria etnia. C’è bisogno di abbracciare il rischio stupendo di conoscere e accogliere chi è diverso, per ritrovare la bellezza di una fraternità riconciliata e sperimentare l’avventura impagabile di costruire liberamente il proprio avvenire insieme a quello dell’intera comunità. E c’è assoluto bisogno di evitare la marginalizzazione dei gruppi e la ghettizzazione degli esseri umani. Ma per tutti questi bisogni c’è bisogno di pace. E c’è bisogno dell’aiuto di tanti, dell’aiuto di tutti”. 

“Siete voi il seme di un nuovo Sud Sudan”, ha ricordato Francesco. “Il seme per una crescita fertile e rigogliosa del Paese. Siete voi, di tutte le diverse etnie, voi che avete patito e state soffrendo, ma che non volete rispondere al male con altro male. Voi, che fin d’ora scegliete la fraternità e il perdono, state coltivando un domani migliore”. 

La Preghiera Ecumenica

“Da questa terra amata e martoriata si sono appena levate al Cielo tante preghiere: voci diverse si sono unite, formando una sola voce. Insieme, come Popolo santo di Dio, abbiamo pregato per questo popolo ferito. In quanto cristiani, pregare è la prima e più importante cosa che siamo chiamati a fare per poter bene operare e avere la forza di camminare”, ha detto Papa Francesco al termine della Preghiera Ecumenica che si è svolta nel pomeriggio presso il Mausoleo “John Garang” di Giuba.

Poi ha invitato a riflettere su tre verbi: Pregareoperare e camminare. 

“Vorrei rievocare un episodio decisivo per Mosè, ha detto il Papa ricollegandosi al discorso pronunciato al mattino ai Presbiteri.“Giunti presso le rive del mar Rosso, si presenta ai suoi occhi e a quelli di tutti gli Israeliti una scena drammatica: davanti si staglia la barriera invalicabile delle acque; dietro sta sopraggiungendo l’esercito nemico, con carri e cavalli. Ciò non richiama forse i primi passi di questo Paese, assalito sia da acque di morte, come quelle delle disastrose inondazioni che l’hanno colpito, sia da una violenza bellica efferata? Ebbene, in quella situazione disperata Mosè dice al popolo: «Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore» (Es 14,13). Ora mi chiedo: da dove veniva a Mosè una simile certezza, mentre il suo popolo continuava a lamentarsi impaurito? Questa forza gli veniva dall’ascolto del Signore (cfr vv. 2-4), che gli aveva promesso di manifestare la sua gloria. L’unione con Lui, la fiducia in Lui coltivata nella preghiera, era il segreto con il quale Mosè ha potuto accompagnare il popolo dall’oppressione alla libertà”. 

L’invito ad operare, è stato il secondo a cui ha fatto riferimento il Papa: “Perché Gesù ci vuole «operatori di pace» (Mt5,9), vuole che la sua Chiesa non sia solo segno e strumento dell’intima unione con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1). Cristo, infatti, come ricorda l’Apostolo Paolo, «è la nostra pace» precisamente nel senso del ristabilimento dell’unità: Egli è colui che “fa di due una cosa sola, abbattendo i muri di separazione, l’inimicizia” (cfr Ef 2,14). Ecco la pace di Dio: non solo una tregua tra i conflitti, ma una comunione fraterna, che viene dal congiungere, non dall’assorbire; dal perdonare, non dal sovrastare; dal riconciliarsi, non dall’imporsi.

Il terzo verbo, infine, è: camminare. “Qui, lungo i decenni, le comunità cristiane si sono fortemente impegnate nel promuovere percorsi di riconciliazione. Io vorrei ringraziarvi per questa luminosa testimonianza di fede, nata dal riconoscere non solo a parole, ma nei fatti, che prima delle divisioni storiche c’è una realtà immutabile: siamo cristiani, siamo di Cristo. È bello che, in mezzo a tanta conflittualità, l’appartenenza cristiana non abbia mai disgregato la popolazione, ma è stata, ed è tuttora, fattore di unità. L’eredità ecumenica del Sud Sudan è un tesoro prezioso, una lode al nome di Gesù, un atto di amore alla Chiesa sua sposa, un esempio universale per il cammino di unità dei cristiani”. 

Cinquantamila persone hanno partecipato a questo momento di preghiera, riferiscono le Autorità locali. Il Pontefice, poi, ha fatto rientro nella Nunziatura Apostolica ed ha cenato in privato. Domani, Francesco si congederà dal Sud Sudan per fare rientro nello Stato della Città del Vaticano

S.I.

Silere non possum

INCONTRO CON I VESCOVI, I SACERDOTI, I DIACONI, I CONSACRATI, LE CONSACRATE E I SEMINARISTI

Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi,
cari consacrati e consacrate,
cari seminaristi, novizie e novizi e aspiranti, buongiorno a tutti!

Da tempo coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore. Sono grato a Mons. Tombe Trille per il suo saluto e a tutti voi per la presenza e per il vostro saluto! Alcuni hanno fatto giorni di strada per essere qui oggi! Porto sempre scolpiti nel cuore alcuni momenti vissuti prima di questa visita: la celebrazione a San Pietro nel 2017, durante la quale abbiamo elevato la supplica a Dio per il dono della pace; e il ritiro spirituale del 2019 con i Leader politici, invitati affinché, attraverso la preghiera, prendessero nel cuore la ferma decisione di perseguire la riconciliazione e la fraternità nel Paese. Abbiamo anzitutto bisogno di questo: di accogliere Gesù, nostra pace e nostra speranza.

Nel mio discorso di ieri mi sono ispirato al corso delle acque del Nilo, che attraversa il vostro Paese come se fosse la sua spina dorsale. Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati «con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo» (Tt 3,5). Proprio secondo una prospettiva biblica vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Si vede, la paura, negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore? Questa è la domanda. E quando parlo di ministero, lo faccio in senso largo: ministero presbiterale, diaconale e ministero catechistico, di insegnamento, che fanno tanti consacrati, consacrate e laici.

Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Credo che queste due cose toccano la nostra vita, qui.

La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: in un primo tempo egli aveva preteso di portare avanti da solo il tentativo di combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Salvato dalla figlia del faraone nelle acque del Nilo, quando aveva scoperto la sua identità si era lasciato toccare dalla sofferenza e dall’umiliazione dei suoi fratelli, tanto che un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza.

A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità per lasciarsi illuminare dal fascino di quel fuoco, di fronte al quale pensa: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (v. 3). Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.

È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. Sorelle e fratelli, facciamo allora come Mosè al cospetto di Dio: togliamoci i sandali con umile rispetto (cfr v. 5), spogliamoci della nostra presunzione umana, lasciamoci attrarre dal Signore e coltiviamo l’incontro con Lui nella preghiera; accostiamoci ogni giorno al mistero di Dio, perché ci stupisca e perché bruci le sterpaglie del nostro orgoglio e delle nostre ambizioni smodate e ci renda umili compagni di viaggio di quanti ci sono affidati.

Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere. Dio scende a liberarlo. Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci e chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Milano, 29 gennaio 1991). A volte non si ottiene molto, ma bisogna farlo: un grido di intercessione. Intercedere è quindi scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio.

Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme. Vescovi e preti, preti e diaconi, pastori e seminaristi, ministri ordinati e religiosi, sempre nutrendo rispetto per la meravigliosa specificità della vita religiosa: cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte. È molto triste quando i Pastori non sono capaci di comunione, non riescono a collaborare, addirittura si ignorano tra loro! Coltiviamo il rispetto reciproco, la vicinanza, la collaborazione concreta. Se ciò non accade tra di noi, come possiamo predicarlo agli altri?

Torniamo a Mosè e, per approfondire l’arte dell’intercessione, guardiamo alle sue mani. La Scrittura ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate al cielo.

La prima immagine, quella di Mosè col bastone in mano, ci dice che egli intercede con la profezia. Con quel bastone compirà dei prodigi, segni della presenza e della potenza di Dio, nel nome del quale parla, denunciando ad alta voce il male che il popolo soffre e chiedendo al faraone di lasciarlo partire. Fratelli e sorelle, per intercedere a favore del nostro popolo siamo chiamati anche noi ad alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti. Se vogliamo essere Pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo stesso è offeso. Sono stato contento di ascoltare nella testimonianza di Padre Luka che la Chiesa non smette di portare avanti un ministero insieme profetico e pastorale. Grazie! Grazie perché, se c’è una tentazione da cui dobbiamo guardarci, è quella di lasciare le cose come stanno e non interessarci delle situazioni per paura di perdere privilegi e convenienze.

Seconda immagine: Mosè con le mani protese. Egli, dice la Scrittura, «stese la mano sul mare» (Es 14,21). Le sue mani distese sono il segno che Dio sta per operare. In seguito, Mosè terrà tra le mani le tavole della Legge (cfr Es 34,29) per mostrarle al popolo; le sue mani protese indicano la vicinanza di Dio che è all’opera e accompagna il suo popolo. Per liberare dal male non basta infatti la profezia, occorre protendere le braccia ai fratelli e alle sorelle, sostenere il loro cammino. Accarezzare il gregge di Dio. Possiamo immaginare Mosè che indica il percorso e stringe le mani dei suoi per incoraggiarli ad andare avanti. Per quarant’anni, da anziano, rimane accanto ai suoi: ecco la vicinanza. E non è stato un compito facile: egli spesso ha dovuto rianimare un popolo scoraggiato e stanco, affamato e assetato, a volte anche capriccioso, che si lasciava andare alla mormorazione e alla pigrizia. E per esercitare tale compito ha dovuto anche lottare con sé stesso, perché a volte ha vissuto momenti di oscurità e di desolazione, come quello in cui disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? […] Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me» (Nm 11,11.14). Guarda la preghiera di Mosè: è stanco. Eppure, Mosè non si è ritirato: sempre vicino a Dio, non si è mai allontanato dai suoi. Anche noi abbiamo questo compito: tendere le mani, rialzare i fratelli, ricordare loro che Dio è fedele alle sue promesse, esortarli ad andare avanti. Le nostre mani sono state “unte di Spirito” non solo per i sacri riti, ma per incoraggiare, aiutare, accompagnare le persone ad uscire da ciò che le paralizza, le chiude e le rende timorose.

Infine – terza immagine –: le mani alzate al cielo. Quando il popolo cade nel peccato e si costruisce un vitello d’oro, Mosè sale di nuovo sul Monte – pensiamo a quanta pazienza! – e pronuncia una preghiera che è una vera e propria lotta con Dio perché non abbandoni Israele. Arriva a dire: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). Si schiera dalla parte del popolo fino alla fine, alza la mano in suo favore. Non pensa a salvarsi da solo, non vende il popolo per i propri interessi! Intercede. Mosè intercede, Mosè lotta con Dio; tiene le braccia alzate in preghiera mentre i suoi fratelli combattono a valle (cfr Es 17,8-16). Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: questo è il nostro compito di intercessori!

Carissimi, queste mani profetiche, protese e alzate costano fatica, non è facile. Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa. Tanti sacerdoti, religiose e religiosi – come suor Regina ci ha detto delle sue sorelle – sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino. Possiamo ricordare San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa.

Allora io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Grazie! Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità; pastori testimoni, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; pastori e profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate. La Vergine Santa vi custodisca. In questo momento, pensiamo in silenzio a questi nostri fratelli e sorelle che hanno dato la vita in questo ministero pastorale qui, e ringraziamo il Signore perché è stato vicino. Ringraziamo il Signore per la loro vicinanza martiriale. Preghiamo in silenzio.

Grazie per la vostra testimonianza. E se avete un pochettino di tempo, pregate per me. Grazie.

INCONTRO CON GLI SFOLLATI INTERNI

Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Vi ringrazio per le preghiere, per le testimonianze e per il vostro canto! Ho pensato a voi a lungo, portando nel cuore il desiderio di incontrarvi, di guardarvi negli occhi, di stringervi le mani e di abbracciarvi: finalmente sono qui, insieme ai fratelli con cui condivido questo pellegrinaggio di pace, per dirvi tutta la mia vicinanza, tutto il mio affetto. Sono con voi, soffro per voi e con voi.

Joseph, hai posto una domanda decisiva: «Perché stiamo a soffrire nel campo per sfollati?». Perché… Perché tanti bambini e giovani come te stanno lì, anziché a scuola a studiare o in un bel posto all’aperto a giocare? Tu stesso ci hai dato la risposta, dicendo che è «a causa dei conflitti in corso nel Paese». È proprio a motivo delle devastazioni prodotte dalla violenza umana, oltre che per quelle causate dalle inondazioni, che milioni di nostri fratelli e sorelle come voi, tra cui tantissime mamme con i bambini, hanno dovuto lasciare le loro terre e abbandonare i loro villaggi, le loro case. Purtroppo in questo martoriato Paese essere sfollato o rifugiato è diventata un’esperienza consueta e collettiva.

Rinnovo perciò con tutte le forze il più accorato appello a far cessare ogni conflitto, a riprendere seriamente il processo di pace perché abbiano fine le violenze e la gente possa tornare a vivere in modo degno. Solo con la pace, la stabilità e la giustizia potranno esserci sviluppo e reintegrazione sociale. Ma non si può più attendere! Un numero enorme di bambini nati in questi anni ha conosciuto soltanto la realtà dei campi per sfollati, dimenticando l’aria di casa, perdendo il legame con la propria terra di origine, con le radici, con le tradizioni.

Il futuro non può essere nei campi per sfollati. C’è bisogno, proprio come chiedevi tu, Johnson, che tutti i ragazzi come te abbiano la possibilità di andare a scuola e pure lo spazio per giocare a calcio! C’è bisogno di crescere come società aperta, mischiandosi, formando un unico popolo attraverso le sfide dell’integrazione, anche imparando le lingue parlate in tutto il Paese e non solo nella propria etnia. C’è bisogno di abbracciare il rischio stupendo di conoscere e accogliere chi è diverso, per ritrovare la bellezza di una fraternità riconciliata e sperimentare l’avventura impagabile di costruire liberamente il proprio avvenire insieme a quello dell’intera comunità. E c’è assoluto bisogno di evitare la marginalizzazione dei gruppi e la ghettizzazione degli esseri umani. Ma per tutti questi bisogni c’è bisogno di pace. E c’è bisogno dell’aiuto di tanti, dell’aiuto di tutti.

Perciò vorrei ringraziare la Vice Rappresentante speciale Sara Beysolow Nyanti per averci detto che oggi è l’occasione per tutti di vedere quello che da anni sta accadendo in questo Paese. Qui infatti perdura la più grande crisi di rifugiati del Continente, con almeno quattro milioni di figli di questa terra sfollati, con l’insicurezza alimentare e la malnutrizione che colpiscono i due terzi della popolazione e con le previsioni che parlano di una tragedia umanitaria che può peggiorare ulteriormente nel corso dell’anno. Ma vorrei ringraziarla soprattutto perché lei e molti altri non sono rimasti fermi a studiare la situazione, ma si sono dati da fare. Lei, Signora, ha percorso il Paese, ha guardato negli occhi le madri assistendo al dolore che provano per la situazione dei figli; mi ha colpito quando ha affermato che, nonostante tutto quello che soffrono, non si sono mai spenti sui loro volti il sorriso e la speranza.

E condivido quanto ha detto su di loro: le madri, le donne sono la chiave per trasformare il Paese: se riceveranno le giuste opportunità, attraverso la loro laboriosità e la loro attitudine a custodire la vita, avranno la capacità di cambiare il volto del Sud Sudan, di dargli uno sviluppo sereno e coeso! Ma, vi prego, prego tutti gli abitanti di queste terre: la donna sia protetta, rispettata, valorizzata e onorata. Per favore: proteggere, rispettare, valorizzare e onorare ogni donna, bambina, ragazza, giovane, adulta, madre, nonna. Senza questo non ci sarà futuro.

E ora, fratelli e sorelle, guardo ancora a voi, ai vostri occhi stanchi ma luminosi che non hanno smarrito la speranza, alle vostre labbra che non hanno perso la forza di pregare e di cantare; guardo a voi che avete le mani vuote ma il cuore pieno di fede, a voi che portate dentro un passato segnato dal dolore ma non smettete di sognare un avvenire migliore. Noi oggi, incontrandovi, vorremmo dare ali alla vostra speranza. Ci crediamo, crediamo che ora, anche nei campi per sfollati, dove la situazione del Paese vi costringe purtroppo a stare, può nascere, come dalla terra spoglia, un seme nuovo che porterà frutto.

Vorrei dirvi: siete voi il seme di un nuovo Sud Sudan, il seme per una crescita fertile e rigogliosa del Paese. Siete voi, di tutte le diverse etnie, voi che avete patito e state soffrendo, ma che non volete rispondere al male con altro male. Voi, che fin d’ora scegliete la fraternità e il perdono, state coltivando un domani migliore. Un domani che nasce oggi, lì dove siete, dalla capacità di collaborare, di tessere trame di comunione e percorsi di riconciliazione con chi, diverso da voi per etnia e provenienza, vi vive accanto. Fratelli e sorelle, siate semi di speranza, nei quali già s’intravede l’albero che un giorno, speriamo vicino, porterà frutto. Sì, sarete voi gli alberi che assorbiranno l’inquinamento di anni di violenze e restituiranno l’ossigeno della fraternità. È vero, ora siete “piantati” dove non volete, ma proprio in questa situazione di disagio e precarietà potete tendere la mano a chi vi è accanto e sperimentare che siete radicati nella stessa umanità: da qui bisogna ripartire per riscoprirsi fratelli e sorelle, figli in terra del Dio del cielo, Padre di tutti.

Carissimi, a ricordarci che una pianta nasce da un seme sono le radici. È bello che qui la gente tenga molto alle radici. Ho letto che in queste terre «le radici non vanno mai dimenticate», perché «gli antenati ci ricordano chi siamo e quale dev’essere la nostra strada… Senza di loro siamo perduti, impauriti e senza bussola. Non c’è futuro, senza passato» (C. Carlassare, La capanna di Padre Carlo. Comboniano tra i Nuer, 2020, 65). In Sud Sudan i giovani crescono facendo tesoro dei racconti degli anziani e, se la narrativa di questi anni è stata caratterizzata dalla violenza, è possibile, anzi, è necessario inaugurarne, a partire da voi, una nuova: una nuova narrativa dell’incontro, dove quanto si è patito non sia dimenticato, ma venga abitato dalla luce della fraternità; una narrativa che metta al centro non solo la tragicità della cronaca, ma il desiderio ardente della pace. Siate voi, giovani di etnie diverse, le prime pagine di questa narrativa! Se i conflitti, le violenze e gli odi hanno strappato via dai buoni ricordi le prime pagine di vita di questa Repubblica, siate voi a riscriverne la storia di pace! Io vi ringrazio per la vostra forza d’animo e per tutti i vostri gesti di bene, che sono tanto graditi a Dio e rendono prezioso ogni giorno che vivete.

Vorrei rivolgere una parola grata anche a quanti vi aiutano, spesso in condizioni non solo difficili, ma emergenziali. Grazie alle comunità ecclesiali per le loro opere, che meritano di essere sostenute; grazie ai missionari, alle organizzazioni umanitarie e internazionali, in particolare alle Nazioni Unite per il grande lavoro che svolgono. Certo, un Paese non può sopravvivere di sostegni esterni, per lo più avendo un territorio tanto ricco di risorse! Ma ora sono estremamente necessari. Vorrei anche onorare i tanti operatori umanitari che hanno perso la vita, ed esortare al rispetto per chi aiuta e per le strutture di sostegno alla popolazione, che non possono diventare obiettivi di assalti e vandalismi. Accanto ai soccorsi urgenti, credo sia molto importante, in prospettiva futura, accompagnare la popolazione sulla via dello sviluppo, ad esempio aiutandola ad apprendere tecniche aggiornate per l’agricoltura e l’allevamento, così da facilitare una crescita più autonoma. A tutti chiedo con il cuore in mano: soccorriamo il Sud Sudan, non lasciamo sola la sua popolazione, che tanto ha sofferto e soffre!

In conclusione, desidero rivolgere un pensiero ai tanti rifugiati sud sudanesi che stanno fuori dal Paese e a quanti non possono rientrare perché il loro territorio è stato occupato. Sono loro vicino e auspico che possano tornare a essere protagonisti del futuro della loro terra, contribuendo al suo sviluppo in modo costruttivo e pacifico. Nyakuor Rebecca, mi hai chiesto una benedizione speciale per i bambini del Sud Sudan, proprio perché possiate crescere tutti insieme nella pace. Noi tre come fratelli daremo la benedizione: con mio fratello Justin e mio fratello Iain, insieme vi daremo la benedizione. Con essa, vi raggiunga la benedizione di tanti fratelli e sorelle cristiani nel mondo, che vi abbracciano e vi incoraggiano, sapendo che in voi, nella vostra fede, nella vostra forza interiore, nei vostri sogni di pace risplende tutta la bellezza dell’essere umano.

PREGHIERA ECUMENICA

Signor Presidente della Repubblica,
Distinte Autorità religiose e civili,
Cari fratelli e sorelle!

Da questa terra amata e martoriata si sono appena levate al Cielo tante preghiere: voci diverse si sono unite, formando una sola voce. Insieme, come Popolo santo di Dio, abbiamo pregato per questo popolo ferito. In quanto cristiani, pregare è la prima e più importante cosa che siamo chiamati a fare per poter bene operare e avere la forza di camminare. Pregareoperare e camminare: riflettiamo su questi tre verbi.

Pregare, anzitutto. Il grande impegno delle comunità cristiane nella promozione umana, nella solidarietà e nella pace sarebbe vano senza la preghiera. Infatti, non possiamo promuovere la pace senza aver prima invocato Gesù, «Principe della pace» (Is9,5). Ciò che facciamo per gli altri e condividiamo con gli altri è anzitutto dono gratuito che riceviamo a mani vuote da Lui: è grazia, pura grazia. Siamo cristiani perché gratuitamente amati da Cristo.

Stamani mi sono ispirato alla figura di Mosè e ora, proprio in relazione alla preghiera, vorrei rievocare un episodio decisivo per lui e per il suo popolo, avvenuto quando aveva appena iniziato ad accompagnarlo nel cammino verso la libertà. Giunti presso le rive del mar Rosso, si presenta ai suoi occhi e a quelli di tutti gli Israeliti una scena drammatica: davanti si staglia la barriera invalicabile delle acque; dietro sta sopraggiungendo l’esercito nemico, con carri e cavalli. Ciò non richiama forse i primi passi di questo Paese, assalito sia da acque di morte, come quelle delle disastrose inondazioni che l’hanno colpito, sia da una violenza bellica efferata? Ebbene, in quella situazione disperata Mosè dice al popolo: «Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore» (Es 14,13). Ora mi chiedo: da dove veniva a Mosè una simile certezza, mentre il suo popolo continuava a lamentarsi impaurito? Questa forza gli veniva dall’ascolto del Signore (cfr vv. 2-4), che gli aveva promesso di manifestare la sua gloria. L’unione con Lui, la fiducia in Lui coltivata nella preghiera, era il segreto con il quale Mosè ha potuto accompagnare il popolo dall’oppressione alla libertà.

È così anche per noi: pregare dà la forza di andare avanti, di superare i timori, di intravedere, anche nelle oscurità, la salvezza che Dio prepara. Di più, la preghiera attira la salvezza di Dio sul popolo. La preghiera di intercessione, che caratterizzò la vita di Mosè (cfr Es 32,11-14), è quella a cui siamo tenuti soprattutto noi, Pastori del Popolo santo di Dio. Affinché il Signore della pace intervenga laddove gli uomini non riescono a costruirla, occorre la preghiera: una tenace, costante preghiera di intercessione. Fratelli, sorelle, sosteniamoci in questo: nelle nostre diverse Confessioni sentiamoci uniti tra noi, come un’unica famiglia; e sentiamoci incaricati di pregare per tutti. Nelle nostre parrocchie, chiese, assemblee di culto e di lode preghiamo assidui e concordi (cfr At 1,14) perché il Sud Sudan, come il popolo di Dio nella Scrittura, “raggiunga la terra promessa”: disponga serenamente ed equamente della terra fertile e ricca che possiede e sia colmato di quella pace promessa ma purtroppo ancora non giunta.

Proprio per la causa della pace siamo chiamati, in secondo luogo, a operare. Perché Gesù ci vuole «operatori di pace» (Mt 5,9), vuole che la sua Chiesa non sia solo segno e strumento dell’intima unione con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1). Cristo, infatti, come ricorda l’Apostolo Paolo, «è la nostra pace» precisamente nel senso del ristabilimento dell’unità: Egli è colui che “fa di due una cosa sola, abbattendo i muri di separazione, l’inimicizia” (cfr Ef 2,14). Ecco la pace di Dio: non solo una tregua tra i conflitti, ma una comunione fraterna, che viene dal congiungere, non dall’assorbire; dal perdonare, non dal sovrastare; dal riconciliarsi, non dall’imporsi. Talmente grande è il desiderio di pace del Cielo, che fu annunciato già al momento della nascita di Cristo: «sulla terra, pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14). E tanta fu l’angoscia di Gesù per il rifiuto di questo dono che veniva a portare, che Egli pianse su Gerusalemme, dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!» (Lc 19,42).

Noi, cari fratelli e sorelle, operiamo senza stancarci per questa pace, che lo Spirito di Gesù e del Padre ci invita a costruire: una pace che integra le diversità, che promuove l’unità nella pluralità. Questa è la pace dello Spirito Santo, il quale armonizza le differenze, mentre lo spirito nemico di Dio e dell’uomo fa leva sulle diversità per dividere. Al riguardo, la Scrittura dice: «In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello» (1 Gv 3,10). Carissimi, chi si dice cristiano deve scegliere da che parte stare. Chi segue Cristo sceglie la pace, sempre; chi scatena guerra e violenza tradisce il Signore e rinnega il suo Vangelo. Lo stile che Gesù ci insegna è chiaro: amare tutti, in quanto tutti sono amati come figli dal Padre comune che è nei cieli. L’amore del cristiano non è solo per i vicini, ma per ognuno, perché ciascuno in Gesù è nostro prossimo, fratello e sorella, persino il nemico (cfr Mt 5,38-48); a maggior ragione quanti appartengono al nostro stesso popolo, anche se di etnia diversa. «Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12): questo è il comandamento di Gesù, che contraddice ogni visione tribale della religione. Che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21): questa è l’accorata preghiera di Gesù al Padre per tutti noi credenti.

Adoperiamoci, fratelli e sorelle, per questa unità fraterna tra noi cristiani e aiutiamoci a far passare il messaggio della pace nella società, a diffondere lo stile di non violenza di Gesù, perché in chi si professa credente non vi sia più spazio per una cultura basata sullo spirito di vendetta; perché il Vangelo non sia solo un bel discorso religioso, ma una profezia che diventa realtà nella storia. Operiamo per questo: lavoriamo per la pace tessendo e ricucendo, mai tagliando o strappando. Seguiamo Gesù e, dietro a Lui, muoviamo passi comuni sulla via della pace (cfr Lc 1,79).

Ecco allora il terzo verbo: dopo pregare e operare, camminare. Qui, lungo i decenni, le comunità cristiane si sono fortemente impegnate nel promuovere percorsi di riconciliazione. Io vorrei ringraziarvi per questa luminosa testimonianza di fede, nata dal riconoscere non solo a parole, ma nei fatti, che prima delle divisioni storiche c’è una realtà immutabile: siamo cristiani, siamo di Cristo. È bello che, in mezzo a tanta conflittualità, l’appartenenza cristiana non abbia mai disgregato la popolazione, ma è stata, ed è tuttora, fattore di unità. L’eredità ecumenica del Sud Sudan è un tesoro prezioso, una lode al nome di Gesù, un atto di amore alla Chiesa sua sposa, un esempio universale per il cammino di unità dei cristiani. È un’eredità che va custodita nel medesimo spirito: le divisioni ecclesiali dei secoli passati non si ripercuotano su chi viene evangelizzato, ma la semina del Vangelo contribuisca a diffondere una maggiore unità. Il tribalismo e la faziosità che alimentano le violenze nel Paese non intacchino i rapporti interconfessionali; al contrario, la testimonianza di unità dei credenti si riversi sul popolo.

In questo senso, per finire, vorrei suggerire due parole-chiave per il prosieguo del nostro cammino: memoria e impegnoMemoria: i passi che fate ricalcano le orme dei predecessori. Non abbiate timore di non esserne all’altezza, sentitevi invece sospinti da chi vi ha preparato la strada: come in una staffetta, raccoglietene il testimone per affrettare il raggiungimento del traguardo di una comunione piena e visibile. E poi impegno: si cammina verso l’unità quando l’amore è concreto, quando insieme si soccorre chi sta ai margini, chi è ferito e scartato. Voi già lo fate in tanti campi, penso in particolare a quelli della sanità, dell’istruzione, della carità: quanti aiuti urgenti e indispensabili portate alla popolazione! Grazie per questo. Continuate così: mai concorrenti, ma familiari; fratelli e sorelle che, attraverso la compassione per i sofferenti, i prediletti di Gesù, danno gloria a Dio e testimoniano la comunione che Egli ama.

Carissimi, i miei fratelli e io siamo giunti pellegrini in mezzo a voi, Popolo santo di Dio in cammino. Anche se distanti fisicamente, vi saremo sempre vicini. Ripartiamo ogni giorno dal pregare gli uni per gli altri e con gli altri, dall’operare insieme come testimoni e mediatori della pace di Gesù, dal camminare sulla stessa strada, muovendo passi concreti di carità e di unità. In tutto, amiamoci intensamente e di vero cuore (cfr 1 Pt 1,22).