First Lenten sermon at the Roman Curia
Questa mattina,
all'interno dell'Aula Paolo VI nello Stato della Città del Vaticano,
S.E.R. il Sig. Cardinale Raniero Cantalamessa ha
predicato la prima meditazione di Quaresima alla Curia Romana.
«Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» – Un piccolo contributo ai lavori del Sinodo. Questo è stato il tema scelto dal porporato cappuccino.
"La mancanza di dialogo – ha esordito il Predicatore della Casa Pontificia – da
una parte spinse alcuni dei più noti modernisti su posizioni sempre più
estreme e per finire chiaramente ereticali; dall'altra, privò la Chiesa
di enormi energie, provocando lacerazioni e sofferenze a non finire al
suo interno, facendola ripiegare sempre di più su se stessa e facendole
perdere il passo con i tempi"
Cantalamessa ha scelto di dedicare queste cinque prediche di Quaresima ai lavori del Sinodo. Una scelta un po' discutibile e che risuona come una mossa per "fare colpo" sul Pontefice. Le meditazioni, appunto, devono concentrarsi su questioni spirituali e non altro. Il Cardinale cappuccino ha sempre offerto delle ottime meditazioni in questi anni ma, purtroppo, questa
mattina ha dimostrato come, a volte, siamo portati a piegare gli eventi
e la stessa Scrittura alle nostre personali esperienze.
Non è una novità il fatto che Raniero Cantalamessa sia
molto
legato al Rinnovamento dello Spirito, una delle tante realtà laicali
dove avvengono veri e propri abusi di coscienza e di potere.
Il
problema è che il Vangelo non si può predicare a seconda delle nostre
esperienze e aspettative. Se abbiamo avuto una sana esperienza con dei
buoni laici, una realtà laicale, molto bene siamo tutti contenti.
Ciò non significa che i laici abbiano potestà di giurisdizione. Nella
Chiesa, ognuno ha ricevuto un compito. Nessuno deve sentirsi migliore o
peggiore degli altri. Semplicemente, si tratta di servizi. Qualcuno li
può svolgere, altri no. Molto semplice.
Il religioso ha approfittato di questa meditazione per parlare del ruolo dei laici nella Chiesa.
"Siamo davanti alla riscoperta della natura non solo gerarchica, ma anche carismatica della Chiesa, ha detto. San
Giovanni Paolo II, nella "Novo millennio ineunte"(nr. 45) la renderà
ancora più esplicita definendo la Chiesa come gerarchia e come koinonia.
A una prima lettura, la recente costituzione sulla riforma della Curia
"Praedicate Evangelium" (al di là di tutti gli aspetti giuridici e
tecnici sui quali sono un perfetto ignorante) a me ha dato l'impressione
di un passo avanti in questa stessa direzione: cioè nell'applicare il
principio sancito dal Concilio a un settore particolare della Chiesa che
è il suo governo e a un maggiore coinvolgimento in esso dei laici e
delle donne".
Il Cardinale, però, dimentica che il
Concilio Vaticano II non ha mai affermato che i laici possano essere
investiti di una potestà di giurisdizione. Anzi, proprio quel Concilio
afferma chiaramente che l'unità della potestà deriva dal Sacramento
dell'Ordine.
Giustamente, Cantalamessa si sofferma sulle lotte intestine e ricorda al Papa che il ruolo di Pietro è quello di "mediatore".
"È
come chiedere a un padre di scegliere tra due figli; come dirgli:
"Scegli: o me o il mio avversario; mostra chiaramente da che parte
stai!"Dio sta con tutti e perciò non sta contro nessuno! È il padre di
tutti",
ha riferito.
La soluzione proposta dal cappuccino, però, non è certamente quella che si evince dalla Scrittura. Cantalamessa parla di "
tempo, pazienza, dialogo, tolleranza; a volte anche il compromesso". Certamente
ci sono questioni sulle quali si può "scendere ad un compromesso" ma
non quando vi sono questioni dottrinali. È vero, come ha ricordato, che
Pietro si è posto come mediatore fra Giacomo e Paolo
ma vi sono questioni sulle quali Pietro ha avuto il precipuo compito di affermare la Verità.
Il religioso cappuccino ha citato San Tommaso d'Aquino, elogiando la pratica che il Doctor angelicus utilizzava:
"San
Tommaso d'Aquino ce ne dà l'esempio: egli premette a ogni sua tesi le
ragioni dell'avversario che mai banalizza o ridicolizza, ma prende sul
serio e ad esse risponde poi con il suo "Sed contra", cioè con le
ragioni che ritiene le più conformi alla fede e alla morale".
Ecco,
certamente Tommaso teneva in considerazione tutte le questioni ma, alla
fine, affermava quella che era la Verità. Oggi, nella Chiesa, abbiamo
terribilmente bisogno di questo.
Il Successore di Pietro, purtroppo, troppo spesso tergiversa e non indica quella che è la Verità. Non
dimentichiamo che è proprio il pensiero della Teologia della
liberazione quello che prevede "il conflitto" e poi "la pacificazione".
Quello che, invece, porta solo "confusione".
"Davanti agli eventi e alle realtà politiche, sociali ed ecclesiali – continua il Predicatore – noi siamo portati a schierarci subito da una parte e demonizzare quella avversa.
Non dico che sia proibito avere preferenze: in campo politico, sociale,
teologico e via dicendo, o che sia possibile non averle.
Non dovremmo mai, però, pretendere che Dio si schieri dalla nostra parte contro l'avversario"
Poi un bel richiamo, sopratutto in questo tempo quaresimale:
"Noi
siamo portati, per natura, ad essere intransigenti con gli altri e
indulgenti con noi stessi, mentre dovremmo proporci di fare proprio il
contrario: severi con noi stessi, longanimi con gli altri.
Questo proposito, preso sul serio, basterebbe da solo a santificare la
nostra Quaresima. Ci dispenserebbe da ogni altro tipo di digiuno e ci
disporrebbe a lavorare con più frutto e più serenità in ogni ambito
della vita della Chiesa".
Di seguito il testo integrale della prima meditazione. La Curia, che
oggi pomeriggio terminerà gli esercizi spirituali, vivrà le prossime
predicazioni il 10, il 17, il 24, e il 31 marzo.
S.I.
Silere non possum
Prima meditazione di Quaresima 2023
La storia della Chiesa di fine Ottocento e inizio Novecento ci ha lasciato una lezione amara che non dovremmo dimenticare per non ripetere l'errore che la provocò. Parlo del ritardo (anzi del rifiuto) di prendere atto dei cambiamenti avvenuti nella società, e della crisi del Modernismo che ne fu la conseguenza.
Chi ha studiato, anche superficialmente, quel periodo conosce il danno che ne derivò per una parte e per l'altra, cioè sia per la Chiesa che per i cosiddetti "modernisti".
La mancanza di dialogo, da una parte spinse alcuni dei più noti modernisti su posizioni sempre più estreme e per finire chiaramente ereticali; dall'altra, privò la Chiesa di enormi energie, provocando lacerazioni e sofferenze a non finire al suo interno, facendola ripiegare sempre di più su se stessa e facendole perdere il passo con i tempi.
Il Concilio Vaticano II è stato l'iniziativa profetica per recuperare il tempo perduto. Esso ha operato un rinnovamento che non è certo il caso di illustrare di nuovo in questa sede. Più che i suoi contenuti, ci interessa in questo momento il metodo da esso inaugurato che è quello di camminare nella storia, a fianco dell'umanità, cercando di discernere i segni dei tempi.
La storia e la vita della Chiesa non si è arrestata con il Vaticano II. Guai a fare di esso quello che si è tentato di fare con il concilio di Trento e cioè una linea di arrivo e un traguardo inamovibile. Se la vita della Chiesa si fermasse, succederebbe come a un fiume che arriva a uno sbarramento: si trasforma inevitabilmente in un pantano o una palude.
"Non pensare – scriveva Origene nel III secolo – che basti essere rinnovati una volta sola; bisogna rinnovare la stessa novità: 'Ipsa novitas innovanda est'" . Prima di lui, il neo dottore della Chiesa sant'Ireneo aveva scritto: La verità rivelata è "come un liquore prezioso contenuto in un vaso di valore. Per opera dello Spirito Santo, essa ringiovanisce continuamente e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene" . Il "vaso" che contiene la verità rivelata è la vivente tradizione della Chiesa. Il "liquore prezioso" è in primo luogo la Scrittura, ma la Scrittura letta nella Chiesa, che è poi la definizione più giusta della Tradizione. Lo Spirito è, per sua natura, novità. L'Apostolo esorta i battezzati a servire Dio "nella novità dello Spirito e non nella vetustà della lettera" (Rom 7,6).
Non solo la società non si è fermata al tempo del Vaticano II, ma ha subito una accelerazione vertiginosa. I mutamenti che un tempo avvenivano in un secolo o due, oggi avvengono in un decennio.
Questo bisogno di continuo rinnovamento non è altro che il bisogno di continua conversione, esteso dal singolo credente alla Chiesa intera nella sua componente umana e storica.
La "Ecclesia semper reformanda".
Il vero problema non sta dunque nella novità; sta piuttosto nel modo di affrontarla. Mi spiego. Ogni novità e ogni cambiamento si trova davanti a un bivio; può imboccare due strade opposte: o quella del mondo, o quella di Dio: o la via della morte o la via della vita. La Didaché, uno scritto redatto mentre era ancora in vita almeno uno dei dodici apostoli, illustrava già ai credenti queste due vie.
Ora noi abbiamo un mezzo infallibile per imboccare ogni volta la via della vita e della luce: lo Spirito Santo.
È la certezza che Gesú ha dato agli apostoli prima di lasciarli: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre (Gv 14, 16). E ancora: "Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità" (Gv 16, 13). Non lo farà tutto in una volta, o una volta per sempre, ma a mano a mano che le situazioni si presenteranno. Prima di lasciarli definitivamente, al momento dell'Ascensione, il Risorto rassicura di nuovo i suoi discepoli sull'assistenza del Paraclito: "Riceverete –dice – la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra" (Atti 1, 8).
L'intento delle cinque prediche di Quaresima che oggi iniziamo, detto molto semplicemente, è proprio questo: incoraggiarci a mettere lo Spirito Santo nel cuore di tutta la vita della Chiesa, e, in particolare, in questo momento, nel cuore dei lavori sinodali.
Raccogliere, in altre parole, l'invito pressante che il Risorto rivolge, nell'Apocalisse, a ognuna delle sette chiese dell'Asia Minore: "Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese" (Ap 2, 7).
È l'unico modo, tra l'altro,
che ho per non rimanere, io stesso, del tutto estraneo all'impegno in
atto per il sinodo. In una delle mie prime prediche alla Casa
Pontificia, 43 anni fa, dissi in presenza di san Giovanni Paolo II:
"Io ho continuato a fare per tutta la vita l'umile mestiere che facevo da bambino".
E spiegai in che senso. I miei nonni materni coltivavano, a mezzadria,
un vasto terreno collinoso. In giugno o in luglio c'era la mietitura,
tutta a mano, con la falce, curvi sotto il sole. Era una fatica immane.
Io e miei cuginetti eravamo incaricati di portare continuamente acqua da
bere ai mietitori. È quello, dissi, che ho continuato a fare per il
resto della vita. Sono cambiati i mietitori, che ora sono gli operai
nella vigna del Signore, ed è cambiata l'acqua che ora è la Parola di
Dio. Un mestiere, il mio, molto meno faticoso, a dire la verità, di
quello dei lavoratori del campo, ma pure esso, spero, utile e in qualche
modo necessario.
In questa prima predica mi limito a raccogliere la lezione che ci viene dalla Chiesa nascente.
Vorrei mostrare, in altre parole, come lo Spirito Santo guidò gli
apostoli e la comunità cristiana a muovere i primi passi nella storia.
Quando
furono messe per iscritto da Giovanni le parole di Gesú sopra ricordate
sull'assistenza del Paraclito, la Chiesa ne aveva già fatto
l'esperienza pratica, ed è proprio tale esperienza, ci dicono gli
esegeti, che si riflette nella parole dell'evangelista.
Gli Atti degli apostoli ci mostrano una Chiesa che è, passo passo, "condotta dallo Spirito".
La sua guida si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose di minor conto.
Paolo e Timoteo vogliono predicare il vangelo nella provincia
dell'Asia, ma "lo Spirito Santo lo vieta loro"; fanno per dirigersi
verso la Bitinia, ma, è scritto, "lo Spirito di Gesù non lo permette
loro" (At 16, 6 s.). Si capisce, dal seguito, il perché di questa guida
così incalzante: lo Spirito Santo spingeva in questo modo la Chiesa
nascente ad uscire dall'Asia ed affacciarsi su un nuovo continente,
l'Europa (cf. At 16,9). Paolo arriva a definirsi, nelle sue scelte,
"prigioniero dello Spirito" (At 20,22).
Non è un cammino rettilineo e senza intoppi, quello della Chiesa nascente. La prima grande crisi è quella relativa all'ammissione dei gentili nella Chiesa. Non occorre rievocarne lo svolgimento. Ci interessa soltanto ricordare come viene risolta la crisi.
Pietro va verso Cornelio e i pagani?
È lo Spirito che glielo ordina
(cf. At 10,19;11,12). E come viene motivata e comunicata la decisione
presa dagli apostoli a Gerusalemme di accogliere i pagani nella
comunità, senza obbligarli alla circoncisione e a tutta la legislazione
mosaica?
È risolta con quelle straordinarie parole iniziali: "È parso bene allo Spirito Santo e a noi…" (15, 28).
Non si tratta di fare dell'archeologia della Chiesa, ma di riportare
alla luce, sempre di nuovo, il paradigma di ogni scelta ecclesiale. Non
ci vuole molto sforzo infatti per scorgere l'analogia che c'è tra
l'apertura che allora si operò nei confronti dei gentili, con quella che
oggi si impone nei confronti dei laici, in particolare delle donne, e
di altre categorie di persone.
Vale la pena perciò rievocare la
motivazione che spinse Pietro a superare le sue perplessità e a
battezzare Cornelio e la sua famiglia.
Leggiamo negli
Atti: Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo
discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli
circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui
pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti
parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse:
«Chi può impedire che siano battezzati nell'acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». (At 10, 44-47)
Chiamato a giustificare la sua condotta a Gerusalemme, Pietro racconta
quello che era accaduto nella casa di Cornelio e conclude dicendo:
Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: "Giovanni
battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo!". Se
dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver
creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?
(At 11, 16-17).
Se guardiamo bene, è la stessa motivazione che
spinse i Padri del Concilio Vaticano II a ridefinire il ruolo dei laici
nella Chiesa, e cioè la dottrina dei carismi. Conosciamo bene il testo,
ma è sempre utile richiamarlo alla memoria:
Lo Spirito Santo non
solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il Popolo di Dio
e lo guida e adorna di virtù, ma 'distribuendo a ciascuno i propri doni
come piace a lui' (cf. 1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni
ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad
assumersi opere ed uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore
espansione della Chiesa, secondo quelle parole: 'A ciascuno…la
manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio' (1
Cor 12,7). E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più
comuni, siccome sono soprattutto adattati e utili alle necessità della
Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione .
Siamo davanti alla riscoperta della natura non solo gerarchica, ma anche carismatica della Chiesa.
San Giovanni Paolo II, nella "Novo millennio ineunte"(nr. 45) la
renderà ancora più esplicita definendo la Chiesa come gerarchia e come
koinonia. A una prima lettura, la recente costituzione sulla riforma
della Curia "Praedicate Evangelium" (al di là di tutti gli aspetti
giuridici e tecnici sui quali sono un perfetto ignorante) a me ha dato
l'impressione di un passo avanti in questa stessa direzione: cioè
nell'applicare il principio sancito dal Concilio a un settore
particolare della Chiesa che è il suo governo e a un maggiore
coinvolgimento in esso dei laici e delle donne.
Ma adesso dobbiamo fare un
passo avanti. L'esempio della Chiesa apostolica non ci illumina soltanto
sui principi ispiratori, cioè sulla dottrina, ma anche sulla prassi
ecclesiale.
Ci dice che non tutto si risolve con le decisioni prese in un sinodo, o con un decreto. C'è la necessità di tradurre nella pratica tali decisioni, la cosiddetta "recezione" dei dogmi. E per questo occorrono tempo, pazienza, dialogo, tolleranza;
a volte anche il compromesso. Quando è fatto nello Spirito Santo, il
compromesso non è un cedimento, o uno sconto fatto sulla verità, ma è
carità e obbedienza alle situazioni. Quanta pazienza e tolleranza ha
avuto Dio, dopo aver dato il Decalogo al suo popolo! Quanto a lungo ha
dovuto –e deve ancora – aspettare per la sua recezione!
In
tutta la vicenda appena ricordata, Pietro appare chiaramente come il
mediatore tra Giacomo e Paolo, cioè tra la preoccupazione della
continuità e quella della novità.
In questa mediazione,
assistiamo a un incidente che ci può essere di aiuto anche oggi.
L'incidente è quello di Paolo che ad Antiochia rimprovera Pietro di
ipocrisia per aver evitato di sedere a tavola con dei pagani convertiti.
Sentiamo l'accaduto dalla sua viva voce:
Ma quando Cefa venne ad
Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti,
prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo
insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a
tenersi in disparte, per timore dei circoncisi (Gal 2, 11-12).
I
"conservatori" del tempo rimproveravano a Pietro di essersi spinto
troppo oltre, andando dal pagano Cornelio; Paolo gli rimprovera di non
essersi spinto abbastanza oltre.
Paolo è il santo che ammiro e
amo di più. Ma in questo caso sono convinto che si è lasciato trascinare
(non è l'unica volta!) dal suo carattere di fuoco. Pietro non ha
affatto peccato di ipocrisia. La prova è che, in altra occasione, Paolo
farà, lui stesso, esattamente, quello che fece Pietro ad Antiochia. A
Listra egli fece circoncidere il suo compagno Timoteo "a motivo –è
scritto- dei giudei che si trovavano in quelle regioni" (At 16, 3), cioè
per non scandalizzare nessuno. Ai Corinzi scrive di essersi fatto
"giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei" (1 Cor 9, 20) e nella
Lettera ai Romani raccomanda di venire incontro a chi non è ancora
arrivato alla libertà di cui gode lui" (Rom 14, 1 ss).
Il ruolo di mediatore che Pietro esercitò tra le opposte tendenze di Giacomo e di Paolo continua nei suoi successori.
Non certo (e questo è un bene per la Chiesa) in modo uniforme in ognuno
di essi, ma secondo il carisma proprio di ognuno che lo Spirito Santo
(e si presume i cardinali sotto di lui) hanno ritenuto il più necessario
in un dato momento della storia della Chiesa.
Davanti agli
eventi e alle realtà politiche, sociali ed ecclesiali, noi siamo portati
a schierarci subito da una parte e demonizzare quella avversa, a
desiderare il trionfo della nostra scelta su quella degli avversari.
(Se scoppia una guerra, ognuno prega lo stesso Dio di dare la vittoria
ai propri eserciti e annientare quelli del nemico!). Non dico che sia
proibito avere preferenze: in campo politico, sociale, teologico e via
dicendo, o che sia possibile non averle.
Non dovremmo mai, però, pretendere che Dio si schieri dalla nostra parte contro l'avversario. E neppure dovremmo chiederlo a chi ci governa. È come chiedere a un padre di scegliere tra due figli; come dirgli: "Scegli: o me o il mio avversario; mostra chiaramente da che parte stai!" Dio sta con tutti e perciò non sta contro nessuno! È il padre di tutti.
L'agire di Pietro ad Antiochia – come pure quello di Paolo a Listra –
non era ipocrisia, ma adattamento alle situazioni, cioè la scelta di
quello che, in una certa situazione, favorisce il bene superiore della
comunione. È su questo punto che vorrei continuare e concludere questa
prima meditazione, anche perché questo ci permette di passare da quello
che riguarda la Chiesa universale a quello che riguarda la Chiesa
locale, anzi la propria comunità, o famiglia e la vita spirituale di
ognuno di noi. (Che è quello che ci si attende, penso, da una
meditazione quaresimale!).
C'è una prerogativa di Dio nella Bibbia che i Padri amavano sottolineare: la synkatabasis, cioè la condiscendenza.
Per san Giovanni Crisostomo essa è una specie di chiave di lettura di
tutta la Bibbia. Nel Nuovo Testamento questa stessa prerogativa di Dio è
espressa con il termine benignità (chrestotes). La venuta di Dio nella
carne è vista come la manifestazione suprema della benignità di Dio: "È
apparsa la benignità di Dio e il suo amore per gli uomini" (Tito 3, 4).
La benignità –oggi diremmo anche cortesia – è qualcosa di diverso dalla
semplice bontà; è essere buoni nei confronti degli altri.
Dio è buono in se stesso ed è benigno con noi.
Essa è uno dei frutti dello Spirito (Gal 5,22); è una componente
essenziale della carità (1 Cor 13,4) ed è indice di animo nobile e
superiore. Essa occupa un posto centrale nella parenesi apostolica.
Leggiamo, per esempio, nella Lettera ai Colossesi:
Rivestitevi
dunque di sentimenti di tenerezza, di benignità, di umiltà, di
mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli
uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un
altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi (Col 3,
12-13).
Quest'anno celebriamo il quarto centenario della
morte di un santo che è stato un modello eccelso di questa virtù, in
un'epoca anch'essa segnata da aspre controversie: san Francesco di
Sales.
Dovremmo diventare tutti, in questo senso, "salesiani":
condiscendenti e tolleranti, meno arroccati sulle nostre personali
certezze. Consapevoli di quante volte abbiamo dovuto riconoscere dentro
di noi di esserci sbagliati sul conto di una persona o di una
situazione, e di quante volte abbiamo dovuto adattarci anche noi alle
situazioni.
Nei nostri rapporti ecclesiali non c'è per fortuna – e mai ci dovrebbe essere –
quella propensione all'insulto e al vilipendio dell'avversario che si
nota in certi dibattiti politici e che tanto danno arreca alla pacifica
convivenza civile.
C'è qualcuno, è vero, nei confronti del
quale è giusto e doveroso essere intransigenti, ma quel qualcuno sono io
stesso, è il mio io.
Noi siamo portati, per natura, ad essere
intransigenti con gli altri e indulgenti con noi stessi, mentre dovremmo
proporci di fare proprio il contrario: severi con noi stessi, longanimi
con gli altri.
Questo proposito, preso sul serio, basterebbe
da solo a santificare la nostra Quaresima. Ci dispenserebbe da ogni
altro tipo di digiuno e ci disporrebbe a lavorare con più frutto e più
serenità in ogni ambito della vita della Chiesa.
Un ottimo
esercizio in questo senso consiste nell'essere onesti, nel tribunale del
proprio cuore, nei confronti della persona con cui si è in disaccordo.
Quando mi accorgo che sto mettendo sotto accusa qualcuno dentro di me,
devo stare attento a non schierarmi subito dalla mia parte.
Devo
smettere di passare e ripassare le mie ragioni come chi mastica gomma, e
cercare di mettermi invece nei panni dell'altro per capire le sue
ragioni e quello che anch'egli potrebbe dire a me.
Questo
esercizio non si deve fare soltanto nei confronti della singola
persona, ma anche della corrente di pensiero con cui sono in disaccordo e
della soluzione da essa proposta a un certo problema in discussione
(nel Sinodo o in altro ambito).
San Tommaso d'Aquino ce ne dà
l'esempio: egli premette a ogni sua tesi le ragioni dell'avversario che
mai banalizza o ridicolizza, ma prende sul serio e ad esse risponde poi
con il suo "Sed contra", cioè con le ragioni che ritiene le più conformi
alla fede e alla morale.
Domandiamoci (io per primo): facciamo così anche noi?
Gesù
dice: "Non giudicate, per non essere giudicati. […] Perché osservi la
pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della
trave che hai nel tuo occhio?" (Mt 7, 1-3). Si può vivere, ci
domandiamo, senza mai giudicare?
La capacità di giudicare non fa parte della nostra struttura mentale e non è un dono di Dio?
Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: "Non giudicate e non
sarete giudicati" è seguito immediatamente, come per esplicitare il
senso di queste parole, dal comando: "Non condannate e non sarete
condannati" (Lc 6, 37).
Non si tratta dunque di eliminare il
giudizio dal nostro cuore, quanto di togliere il veleno dal nostro
giudizio! Cioè l'astio, la condanna, l'ostracismo.
Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare.
Talvolta, anzi, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a esercitare nella società o nella Chiesa.
La forza dell'amore cristiano sta nel fatto che esso è capace di
cambiare segno anche al giudizio e, da atto di non-amore, farne un atto
d'amore. Non con le nostre forze, ma grazie all'amore che "è stato
effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato"
(Rom 5,5)
Facciamo nostra, a conclusione, la bellissima preghiera
attribuita a san Francesco d'Assisi. (Forse non è sua, ma ne riflette
alla perfezione lo spirito):
O Signore, fa di me uno strumento della tua pace:
dove è odio, ch'io porti l'amore,
dove è offesa, ch'io porti il perdono,
dov'è discordia, ch'io porti l'unione,
dov'è dubbio, ch'io porti la fede,
dove è l'errore, ch'io porti la verità,
dove è la disperazione, ch'io porti la speranza,
dove è tristezza, ch'io porti la gioia,
dove sono le tenebre, ch'io porti la luce.
E aggiungiamo:
Dove c'è malignità ch'io porti benignità.
Dove c'è asprezza, ch'io porti gentilezza!
1.Cf. Origene, In Rom. 5,8; PG 14, 1042.
2.S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 24,1.
3.Lumen gentium, 12.