Città del Vaticano - Negli ultimi giorni, la rete è tornata a ronzare attorno a un nuovo “caso” mediatico: Fabrizio Corona ha pubblicato un audio privato attribuito a Raoul Bova, in cui l’attore si esprimeva in termini intimi e sentimentali. Tralasciando, per un momento, la sostanza dell’audio — che appartiene evidentemente alla sfera più privata e personale — ciò che dovrebbe farci riflettere non è tanto il contenuto, quanto il gesto: la diffusione non autorizzata di un file vocale privato tra due persone.

Qui non è in discussione la morale, né tantomeno si può legittimamente esprimere un giudizio sui sentimenti di qualcuno. L’amore, la vulnerabilità, la tenerezza, l’insicurezza: sono tutte emozioni profondamente umane, che dovrebbero essere rispettate, non messe alla berlina. E soprattutto, non c’è alcun diritto di cronaca che possa giustificare un’azione simile. Siamo di fronte a una violazione gravissima della privacy, che configura un vero e proprio reato.

Il diritto di cronaca, infatti, non è un lasciapassare assoluto: esiste solo laddove vi sia un interesse pubblico concreto, un elemento di rilevanza collettiva. Ma sinceramente, gli innamoramenti di una persona adulta, anche se nota, non rientrano in alcun modo in questo ambito. Non interessano, se non per quella forma distorta di voyeurismo collettivo che alimenta la cosiddetta “informazione” spazzatura.

Dalla violazione alla derisione

Non è tutto. Oltre alla violazione, c’è la beffa: l’audio non è stato semplicemente pubblicato, ma commentato, manipolato, ridicolizzato. Nel video è stato presentato con risate, insulti, espressioni sarcastiche, commenti che non lasciano spazio all’empatia, ma solo al dileggio. Una derisione gratuita, compiuta su un frammento della vita di un altro. Essere sotto i riflettori non significa aver perso il diritto al rispetto. Una verità elementare che sfugge anche a chi si ammanta dell’intransigenza cattolica come fosse una corazza.

E allora viene da chiedersi: perché? A che pro? Qual è il guadagno reale nel fare a pezzi l’intimità di qualcuno? Cosa dice di noi il fatto che consumiamo questo tipo di “contenuto” come se fosse puro intrattenimento?

Il contesto che manca e l’indignazione selettiva

Nelle ultime ore, Selvaggia Lucarelli ha attaccato un sacerdote per aver utilizzato in un Reel l’audio ormai virale attribuito a Raoul Bova. Considerata la nota ostilità personale che nutre nei confronti di Fabrizio Corona, qualunque pretesto sembra buono per scagliare l’ennesima freccia. Ma l’episodio ha offerto il palco anche alla solita parrocchiana repressa, pronta a cavalcare l’onda per accusare - senza contraddittorio né possibilità di replica - l’ex viceparroco. E l’“influencer” da milioni di follower? Si limita a ripubblicare, senza farsi troppe domande. Il tutto a testimonianza del livello di un certo giornalismo moralista, sempre pronto a puntare il dito sugli altri. Salvo poi voltarsi dall’altra parte - o sparire del tutto - quando si tratta di affrontare temi realmente urgenti e complessi.

Ma forse, a queste tuttologhe sfugge un dettaglio non irrilevante: molte persone non conoscono il contesto di quell’audio. Non sanno da dove proviene, chi lo ha pubblicato, non ne conoscono la natura né l’intenzione originaria e non sanno neppure chi è a registrarlo. Vedono solo un trend, un suono che spopola, e come spesso accade nel mondo social, lo riproducono per andare virali.  Non tutto è sempre consapevolezza e cinismo. A volte è superficialità, a volte inconsapevolezza. E per questo, prima di lanciare insulti, invettive ed esporre le persone alla pubblica gogna, bisognerebbe forse fermarsi un attimo a capire, piuttosto che cliccare.

Il fascino malsano della vita privata altrui

Al di là di queste precisazioni, però, è bene focalizzarsi sul punto: perché esiste questo mercato fiorente della vita privata degli altri? Perché centinaia di migliaia di persone guardano avidamente video che mostrano vulnerabilità, debolezze, errori, dolori — purché non siano i propri?

La risposta, in parte, la offre la psicologia. Come ricorda lo psicanalista Carl Gustav Jung, quello che non accetti di te stesso apparirà nel mondo come destino. Guardare, giudicare, deridere l’altro, soprattutto quando è vulnerabile, è spesso un modo per proiettare fuori di sé ciò che si rifiuta di vedere dentro. Il sentimento che ci muove, allora, non è la curiosità, ma l’autoassoluzione: vedo te inciampare, e così mi sento migliore. Eppure, chi ha ascoltato quell’audio in silenzio, sul proprio smartphone, probabilmente ha provato inconsciamente un moto di empatia. Perché, in fondo, tutti, quando siamo innamorati o scossi dalle emozioni, diciamo cose che fuori contesto possono apparire goffe, esagerate o “strane”. È l’amore stesso che ci rende ridicoli agli occhi dei cinici. Ma come ricorda Milan Kundera, l’uomo ridicolo è l’uomo che ama senza difese”.

La stessa dinamica nei contesti ecclesiali

Perché, dunque, Silere non possum si interessa a una vicenda che, a prima vista, sembrerebbe estranea alla vita ecclesiale e al ministero sacerdotale? Perché la dinamica che emerge è tutt’altro che estranea: è la stessa che si ripete, con inquietante frequenza, anche all’interno della Chiesa. Ci sono laici, certo, ma anche — e con particolare amarezza lo si constata — seminaristi, sacerdoti e religiosi che trascorrono le giornate non nella preghiera, nello studio o nel servizio, ma impegnati a commentare, giudicare, spettegolare sulla vita privata altrui.

Ci sono poi vere e proprie 'isteriche del moralismo' (nei confronti degli altri, sia chiaro!), che su questi temi reagiscono come indemoniati durante un esorcismo: si agitano, strepitano, perdono il controllo. Basta sfiorare il punto nevralgico su cui hanno edificato la loro intera “carriera” da megere social, e subito scatta la furia. Rivendicano con ostinazione il diritto di frugare nella vita privata degli altri, come se fossero inviati da qualche fustigatore. Ma guai a fare lo stesso con loro: in quel caso, si trasformano in vittime indignate, pronte a piangere davanti alla platea social. Tutti ce l’hanno con loro, loro sono vittime delle lobby, del potere, tutti mentono. Coerenza? Un dettaglio trascurabile.

Anche in questo caso, ciò che si osserva è spesso un meccanismo di proiezione: le fragilità, i desideri, le insicurezze che non si riescono ad accettare in sé stessi vengono riversati sugli altri, trasformati in colpa, etichettati, usati come bersaglio. Il prossimo diventa così capro espiatorio delle proprie irrisolutezze interiori. La psicanalisi lo dimostra in modo inequivocabile, utilizzano l’altro per buttargli addosso parti di sé che non sono in grado di accogliere.

Si dimentica che la fragilità altrui è uno specchio, e chi ci ride sopra lo fa per non doverci guardare dentro. Non è raro che proprio chi deride con più ferocia sia colui che vive i conflitti interiori più profondi, ma non ha il coraggio di affrontarli. Se guardiamo a Fabrizio Corona, poi, non viene altro che chiedersi: “Perché viene ancora dato spazio a gente del genere?” Umberto Eco, però, lo aveva già profetizzato qual è il problema dei social.

Una cultura che ha smarrito il pudore

In definitiva, il vero dramma non è solo la pubblicazione di un audio, ma la cultura che lo rende possibile: una cultura che ha smarrito il senso del pudore, del rispetto, della distanza, e che ha trasformato ogni emozione in un contenuto monetizzabile. Spesso si punta il dito su chi pubblica ma non ci si rende conto che se non sapessero di avere avvoltoi pronti a ridicolizzare la vita privata altrui, non pubblicherebbero.

Lo stesso meccanismo si ripete sui social, dove l’insulto diventa pratica quotidiana: c’è chi crea account falsi, si costruiscono narrazioni distorte, si lanciano accuse prive di fondamento. C’è chi lo fa con piena consapevolezza, sapendo che qualcun altro raccoglierà quel fango per rilanciarlo. E tutto questo, in un Paese come l’Italia, resta quasi sempre impunito. Perché? Perché troppi pubblici ministeri sono occupati a coltivare alleanze, accontentare amichetti e difendere rendite di potere e contrastare qualunque riforma che possa limitare la loro libertà di agire senza controllo, secondo logiche opache e personali.

Se è vero che il diritto penale dovrebbe intervenire a posteriori, sanzionando comportamenti già compiuti, allora è ancora più urgente promuovere azioni preventive, orientate alla formazione delle coscienze. Occorre recuperare, con decisione, il senso della dignità — propria e altrui — e riconoscere che non tutto ciò che possiamo vedere è lecito, e non tutto ciò che possiamo condividere è giusto.

Perché non c’è nulla di eroico nel denudare l’altro. Ma c’è qualcosa di profondamente umano nel coprirlo.

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum