Sabato 21 dicembre 2024 il Santo Padre Francesco ha incontrato la Curia Romana nell'Aula delle Benedizione per il tradizionale scambio degli auguri natalizi. 

«Ho pensato al parlare bene degli altri e non parlarne male. È una cosa che ci riguarda tutti, anche il Papa – vescovi, preti, consacrati, laici – e rispetto alla quale siamo tutti uguali. Perché? Perché tocca la nostra umanità»
ha esordito il Pontefice nel suo discorso. Un tema centrale nella vita delle nostre comunità ecclesiali. Sono molte, infatti, le occasioni in cui si parla male dell'altro. Si tratta di un atteggiamento, spiega il Papa, che riguarda chierici e laici. Il laicato vive questo cancro come modo per distruggere i fratelli e le sorelle ed anche i ministri a servizio delle loro comunità. Quante sono le occasioni in cui laici esprimono la loro sete di potere proprio nel calunniare e nel male-dire i preti. Qui dentro abbiamo molti esempi: Andrea Monda, Paolo Ruffini, Andrea Tornielli, Maximino Caballero, ecc. Quante volte ci sono laici che diffondono false narrazioni su fratelli e chierici al solo fine di eliminarli? Metterli in cattiva luce? 

Fra chierici, allo stesso modo, spesso si utilizza il chiacchiericcio per distruggere i confratelli, i superiori o i sottoposti. È un cancro, una ferita, aperta e che sempre più diventa insopportabile. «Questo atteggiamento - ha detto il Papa - il parlare bene e non parlare male, è un’espressione dell’umiltà, e l’umiltà è il tratto essenziale dell’Incarnazione, in particolare del mistero del Natale del Signore, che ci apprestiamo a celebrare. Una comunità ecclesiale vive in gioiosa e fraterna armonia nella misura in cui i suoi membri camminano nella via dell’umiltà, rinunciando a pensare male e parlare male degli altri». 

Poi sottolinea: «Alcune volte ho parlato del chiacchiericcio. È un male che distrugge la vita sociale, fa ammalare il cuore della gente e porta a niente. Il popolo lo dice molto bene: “Le chiacchiere stanno a zero”. State attenti su questo». Ciò che forse bisogna iniziare ad evidenziare è anche il fatto che questo sistema è un circolo vizioso. Non c'è solo chi "parla male" ma anche chi "ascolta attentamente e riporta". Bisogna stare attenti anche a questo. Se quando qualcuno ci parla male dell'altro ci iniziassimo a interrogare sul "perché" ci sta dicendo quella cosa, forse capiremmo che quel circolo abbiamo il potere di interromperlo. Sarebbe utile, inoltre, applicare i tre filtri di cui parla Socrate: Verità, Bontà e Utilità. Se manca uno solo di questi filtri, cestiniamo. 

Il Papa ha continuato dicendo: «Tutti noi abbiamo bisogno di essere immersi in questo mistero, altrimenti rischiamo di inaridirci e allora diventiamo come quei canali asciutti, secchi, che non portano più nemmeno una goccia d’acqua. E il lavoro di ufficio qui in Curia è spesso arido e alla lunga inaridisce, se uno non si ricarica con esperienze pastorali, con momenti di incontro, di relazione amicale, nella gratuità. Riguardo alle esperienze pastorali, specialmente ai giovani domando se hanno qualche esperienza pastorale: è molto importante. E soprattutto per questo, abbiamo bisogno ogni anno di fare gli Esercizi spirituali: per immergerci nella grazia di Dio, immergerci totalmente. Lasciarci “inzuppare” dallo Spirito Santo, dall’acqua vivificante in cui ognuno di noi è voluto e amato “dal principio”. Allora sì, se il nostro cuore è immerso in questa benedizione originaria, allora siamo capaci di benedire tutti, anche quelli che ci risultano antipatici – è una realtà; benedire anche gli antipatici –, anche chi ci ha trattato male. Benedire»

Al termine dell'incontro il Papa ha regalato due libri a tutti i presenti: il primo è “La grazia è un incontro. Se Dio ama gratis, perché i comandamenti?” del domenicano p. Adrien Candiard. L’altro è “La gloria dei buoni a nulla. Guida spirituale per accogliere l’imperfezione del domenicano p.Sylvain Detoc, una riflessione sulla piccolezza umana e le scelte di Dio spesso sorprendenti che si riallaccia alla meditazione di ieri offerta da p. Roberto Pasolini. 

Discorso alla Curia Romana in occasione degli auguri natalizi

Cari fratelli e sorelle!

Ringrazio di cuore il Cardinale Re per le sue parole augurali; non invecchia questo! E questo è bello. Grazie, Eminenza, per il Suo esempio di disponibilità e di amore alla Chiesa.
Il Cardinale Re ha parlato della guerra. Ieri il Patriarca [Latino di Gerusalemme] non l’hanno lasciato entrare a Gaza, come avevano promesso; e ieri sono stati bombardati dei bambini. Questo è crudeltà. Questo non è guerra. Voglio dirlo perché tocca il cuore. Grazie di questo riferimento, Eminenza, grazie! Il titolo di questa allocuzione è “Bene-dite e non male-dite”

La Curia Romana è composta da tante comunità di lavoro, più o meno complesse o numerose. Pensando a uno spunto di riflessione che potesse giovare alla vita comunitaria nella Curia e nelle sue diverse articolazioni, quest’anno ho scelto un aspetto che si intona bene al Mistero dell’Incarnazione, e si vedrà subito il perché.
Ho pensato al parlare bene degli altri e non parlarne male. È una cosa che ci riguarda tutti, anche il Papa – vescovi, preti, consacrati, laici – e rispetto alla quale siamo tutti uguali. Perché? Perché tocca la nostra umanità.

Questo atteggiamento, il parlare bene e non parlare male, è un’espressione dell’umiltà, e l’umiltà è il tratto essenziale dell’Incarnazione, in particolare del mistero del Natale del Signore, che ci apprestiamo a celebrare. Una comunità ecclesiale vive in gioiosa e fraterna armonia nella misura in cui i suoi membri camminano nella via dell’umiltà, rinunciando a pensare male e parlare male degli altri.
San Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, dice: «Benedite e non maledite» (Rm 12,14). Possiamo intendere l’esortazione anche in questo modo: “Dite bene e non dite male” degli altri, nel nostro caso delle persone che lavorano in ufficio con noi, dei superiori, dei colleghi, di tutti. Dite bene e non dite male.

La strada dell’umiltà: accusare sé stessi


Come feci una ventina di anni fa, in occasione di un’Assemblea diocesana a Buenos Aires, così propongo oggi a tutti noi, per praticare questa via di umiltà, di esercitarci nell’accusare sé stessi, secondo gli insegnamenti degli antichi maestri spirituali, in particolare di Doroteo di Gaza. Sì, proprio di Gaza, quel luogo che adesso è sinonimo di morte e distruzione, ma che è una città antichissima, dove nei primi secoli del cristianesimo fiorirono monasteri e figure luminose di santi e di maestri. Doroteo è uno di questi. Nella scia di grandi Padri come Basilio ed Evagrio, egli ha edificato la Chiesa con istruzioni e lettere piene di linfa evangelica. Oggi anche noi, mettendoci alla sua scuola, possiamo imparare l’umiltà di accusare sé stessi per non dire male del prossimo. A volte nel parlare quotidiano, quando qualcuno critica, l’altro pensa: “E a casa tua come andiamo?” [“Da che pulpito viene la predica!”]. È il parlare quotidiano.

In una sua istruzione, Doroteo dice: «Se all’umile capita qualche male, immediatamente fa ritorno su di sé, ed egualmente giudica che lo ha meritato. E non si permette di rimproverare altri né di incolpare chicchessia. Semplicemente sopporta, senza turbamento, senza angoscia e in tutta quiete. L’umiltà non si irrita né irrita nessuno» (Dorothée de Gaza, Oeuvres spirituelles, Paris 1963, n. 30).

E ancora: «Non cercare di conoscere il male del tuo prossimo, e non alimentare sospetti contro di lui. E se la nostra malizia li fa nascere, cerca di trasformarli in pensieri buoni» (ivi, n. 187).

Accusare sé stessi è un mezzo, ma è indispensabile: è l’atteggiamento di fondo in cui può mettere radici la scelta di dire “no” all’individualismo e “sì” allo spirito comunitario, ecclesiale. Infatti, chi si esercita nella virtù di accusare sé stesso e la pratica in modo costante, diventa libero dai sospetti e dalla diffidenza e lascia spazio all’azione di Dio, il solo che crea l’unione dei cuori. E così, se ciascuno progredisce su questa strada, può nascere e crescere una comunità in cui tutti sono custodi l’uno dell’altro e camminano insieme nell’umiltà e nella carità. Quando uno vede un difetto in una persona, può parlarne soltanto con tre persone: con Dio, con la persona stessa e, se non può con questa, con chi nella comunità può prendersene cura. E niente di più.

Allora ci chiediamo: cosa c’è alla base di questo stile spirituale di accusare sé stesso? Alla base c’è l’abbassamento interiore, improntato al movimento del Verbo di Dio, la synkatabasis, o condiscendenza. Il cuore umile si abbassa come quello di Gesù, che contempliamo in questi giorni nel Presepe.

Di fronte al dramma dell’umanità tante volte oppressa dal male, che cosa fa Dio? Si erge forse nella sua giustizia e fa piombare dall’alto la condanna? Così, in un certo senso, lo aspettavano i profeti fino a Giovanni il Battista. Ma Dio è Dio, i suoi pensieri non sono i nostri, le sue vie non sono le nostre (cfr Is 55,8). La sua santità è divina e perciò ai nostri occhi risulta paradossale. Il movimento dell’Altissimo è di abbassarsi, di farsi piccolo, come un granello di senape, come un germe di uomo nel grembo di una donna. Invisibile. Così incomincia a prendere su di sé l’enorme, insostenibile massa del peccato del mondo.

A questo movimento di Dio corrisponde, nell’uomo, l’accusa di sé stesso. Non è prima di tutto un fatto morale: è un fatto teologale – come sempre, come in tutta la vita cristiana –; è dono di Dio, opera dello Spirito Santo, e da parte nostra è ac-con-discendere, fare nostro il movimento di Dio, assumerlo, accoglierlo. Così ha fatto la Vergine Maria, che non aveva nulla di cui accusarsi ma si è lasciata pienamente coinvolgere nell’abbassamento di Dio, nella spogliazione del Figlio, nella discesa dello Spirito Santo. In questo senso l’umiltà si potrebbe chiamare una virtù teologale.

Ci aiuta, per abbassarci, andare al sacramento della Riconciliazione. Ci aiuta. Ognuno può pensare: quando è stata l’ultima volta che mi sono confessato?

En passant, vorrei menzionare una cosa. Alcune volte ho parlato del chiacchiericcio. È un male che distrugge la vita sociale, fa ammalare il cuore della gente e porta a niente. Il popolo lo dice molto bene: “Le chiacchiere stanno a zero”. State attenti su questo.

Benedetti benediciamo

Cari fratelli e sorelle, l’Incarnazione del Verbo ci dimostra che Dio non ci ha maledetti ma ci ha benedetti. Anzi, di più, ci rivela che in Dio non c’è maledizione, ma solo e sempre benedizione.

Tornano alla mente certe espressioni delle Lettere di Santa Caterina da Siena, come ad esempio questa: «Pare che Egli non si voglia ricordare delle offese che noi gli facciamo; e non ci vuole dannare eternamente, ma sempre fare misericordia» (Lettera n. 15). E dobbiamo parlare della misericordia!

Ma qui il riferimento va soprattutto a San Paolo, alla vertiginosa apertura dell’inno della Lettera agli Efesini:

«Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (1,3).

Ecco il fondamento del nostro dire-bene: siamo benedetti, e in quanto tali possiamo benedire. Siamo benedetti e pertanto possiamo benedire.

Tutti noi abbiamo bisogno di essere immersi in questo mistero, altrimenti rischiamo di inaridirci e allora diventiamo come quei canali asciutti, secchi, che non portano più nemmeno una goccia d’acqua. E il lavoro di ufficio qui in Curia è spesso arido e alla lunga inaridisce, se uno non si ricarica con esperienze pastorali, con momenti di incontro, di relazione amicale, nella gratuità. Riguardo alle esperienze pastorali, specialmente ai giovani domando se hanno qualche esperienza pastorale: è molto importante. E soprattutto per questo, abbiamo bisogno ogni anno di fare gli Esercizi spirituali: per immergerci nella grazia di Dio, immergerci totalmente. Lasciarci “inzuppare” dallo Spirito Santo, dall’acqua vivificante in cui ognuno di noi è voluto e amato “dal principio”. Allora sì, se il nostro cuore è immerso in questa benedizione originaria, allora siamo capaci di benedire tutti, anche quelli che ci risultano antipatici – è una realtà; benedire anche gli antipatici –, anche chi ci ha trattato male. Benedire.

Il modello a cui guardare, come sempre, è la nostra Madre, la Vergine Maria. Lei è, per eccellenza, la Benedetta. Così la saluta Elisabetta quando la accoglie a casa: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). E così noi ci rivolgiamo a lei nell’Ave Maria. In lei si è realizzata quella “benedizione spirituale in Cristo”, certamente “nei cieli”, prima del tempo, ma anche sulla terra, nella storia, quando il tempo è stato “riempito” dalla presenza del Verbo incarnato (cfr Gal 4,4). È Lui la benedizione. È il frutto che benedice il grembo; il Figlio che benedice la Madre: «figlia del tuo Figlio», scrive Dante, «umile e alta più che creatura». E così Maria, la Benedetta, ha portato al mondo la Benedizione che è Gesù. C’è un quadro, che ho nel mio studio, che è proprio la synkatabasis. C’è la Madonna con le mani come se fosse una piccola scala, e il Bambino scende su quella scala. Il Bambino in una mano ha la Legge e con l’altra si aggrappa alla mamma per non cadere. Questa è la funzione della Madonna: portare il Figlio. E questo è ciò che Lei fa nei nostri cuori.

Artigiani di benedizione

Sorelle, fratelli, guardando Maria, immagine e modello della Chiesa, siamo condotti a considerare la dimensione ecclesiale del bene-dire. E in questo nostro contesto vorrei riassumerla così: nella Chiesa, segno e strumento della benedizione di Dio per l’umanità, siamo tutti chiamati a diventare artigiani di benedizione. Non solo benedicenti, artigiani di questo: insegnare, vivere come artigiani per benedire.

Possiamo immaginare la Chiesa come un grande fiume che si dirama in mille e mille ruscelli, torrenti, rivoli – un po’ come il bacino amazzonico –, per irrigare tutto il mondo con la benedizione di Dio, che scaturisce dal Mistero pasquale di Cristo.

La Chiesa ci appare così quale compimento del disegno che Dio rivelò ad Abramo fin dal primo momento in cui lo chiamò a partire dalla terra dei suoi padri. Gli disse: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, […] e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). Questo disegno presiede a tutta l’economia dell’alleanza di Dio con il suo popolo, che è “eletto” non in senso escludente, ma al contrario nel senso che cattolicamente diremmo “sacramentale”: cioè facendo arrivare il dono a tutti attraverso una singolarità esemplare, meglio, testimoniale, martiriale.

Così, nel mistero dell’Incarnazione, Dio ha benedetto ogni uomo e donna che viene a questo mondo, non con un decreto calato dall’alto dei cieli, ma mediante la carne, mediante la carne di Gesù, Agnello benedetto nato da Maria benedetta (cfr S. Anselmo, Disc. 52).

Mi piace pensare alla Curia Romana come una grande officina in cui ci sono tante mansioni diverse, ma tutti lavorano per lo stesso scopo: bene-dire, diffondere nel mondo la benedizione di Dio e della Madre Chiesa.

In particolare, penso al lavoro nascosto del “minutante” – ne vedo alcuni qui che sono bravi, grazie! –, che nella sua stanza prepara una lettera, perché a una persona malata, a una mamma, a un papà, a un carcerato, a un anziano, a un bambino giunga la preghiera e la benedizione del Papa. Grazie di questo, perché io firmo queste lettere. E questo che cos’è? Non è essere artigiani di benedizione? I minutanti sono artigiani di benedizione. Mi dicono che un santo prete che lavorava anni fa in Segreteria di Stato aveva attaccato al lato interno della porta della sua stanza un foglio con scritto: “Il mio lavoro è umile, umiliato, umiliante”. Una visione un po’ troppo negativa, ma c’è del vero e del buono. Direi che esprime lo stile tipico dell’artigianato della Curia, da intendere però in senso positivo: l’umiltà come via del bene-dire. La strada di Dio che in Gesù si abbassa e viene ad abitare la nostra condizione umana, e così ci benedice. E questo posso testimoniarlo: nell’ultima Enciclica, sul Sacro Cuore, che ha menzionato il Cardinale Re, quanti hanno lavorato! Quanti! Le bozze andavano, tornavano… Tanti, tanti, con piccole cose.

Carissimi, è bello pensare che con il lavoro quotidiano, specialmente quello più nascosto, ognuno di noi può contribuire a portare nel mondo la benedizione di Dio. Ma in questo dobbiamo essere coerenti: non possiamo scrivere benedizioni e poi parlare male del fratello o della sorella, rovina la benedizione. Ecco allora l’augurio: che il Signore, nato per noi nell’umiltà, ci aiuti ad essere sempre donne e uomini bene-dicenti.

Buon Natale a tutti!