Il primo mattino in montagna ha il pudore delle cose vere: l’aria morde appena, il respiro fuma, i larici frusciano come pagine sottili. I ragazzi escono dalle loro stanze con la goffaggine di chi non ha ancora imparato a trattare con la luce. Qualcuno borbotta, qualcuno ride. Noi iniziamo con le Lodi in una Chiesa nella quale entra appena la luce: tre salmi, un cantico, il Benedictus. Non c’è amplificazione, né effetto speciale: solo l’oscillare delle voci e il loro tentativo di accordarsi. È la meraviglia povera della preghiera comune: «Signore, a te si volge il mio cuore» (cf. Sal 27). In quel ritmo semplice accade qualcosa: il tempo si mette in fila, la giornata trova una spina dorsale.
Il giorno prende forma: la Liturgia come architettura
Molti di loro non avevano mai pregato la Liturgia delle Ore. La immaginavano come un geroglifico per iniziati. E invece — tra Lodi, Ora media, Vespri e Compieta — scoprono una grammatica respirabile. I salmi a tratti sembrano eccessivi, “troppo grandi” per noi; poi si capisce che non sono nostri: ci adottano, ci portano dentro una casa più ampia.
«Nulla anteporre all’amore di Cristo», dice la Regola di san Benedetto; ma per non anteporre nulla bisogna imparare a misurare il giorno con Qualcuno. La salmodia, cadenzata come i passi sul sentiero, diventa l’orologio che non mente.
Le camminate: colloqui in salita
Le conversazioni migliori, si sa, avvengono quando si cammina. Il corpo è impegnato a salire, la lingua si arrende alla verità. Nessuno sostiene ruoli, le parole non rimbombano.
«Don, ma perché pregare quando basterebbe essere persone perbene?» chiede Luca, con la franchezza di chi non sopporta la retorica. «Perché essere persone perbene non basta a diventare persone vere», rispondo, cercando la formula meno sbagliata. «La preghiera non aggiunge cose alla vita, le restituisce la sua misura».
Più tardi, sul ghiaione, è Filippo a parlare: «Io quando recitiamo i salmi sento come se la voce mi passasse attraverso. Non è emotività. È… come se mi si allargasse il petto». Non troviamo parole migliori: respiro allargato. È un’immagine onesta.
A metà mattina emerge il tema che attraverserà il campo: la vocazione. Non come domanda astratta, ma come ferita che pulsa. «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Non c’è verso: la vita spirituale comincia con un interrogativo.
Un ragazzo e il monastero: un fattore endogeno
Samuel diciannove anni, non fa proclami. Aspetta gli altri al tornante, lascia passare. Poi resta indietro e attacca piano: “Don, io… quando preghiamo insieme mi sembra che tutto si metta al suo posto. Non so spiegarlo. È come quando sistemiamo la cucina dopo pranzo: non è euforia, è ordine. Penso al monastero”. Non è un colpo di teatro; non c’è la musica. È una frase che si appoggia sul fiato. Non gli dico di sì, non gli dico di no. Gli ricordo piuttosto l’inizio della Regola: «Ascolta, o figlio, i precetti del maestro, e inclina l’orecchio del tuo cuore». L’ascolto viene prima dei fioretti. Samuel annuisce; chiede soltanto di continuare a pregare le Ore anche a casa, magari con un’app sul telefono e un amico in viva voce. Al termine del campo gli faccio dono del Breviario Monastico.
La vocazione — se c’è — matura come un fattore endogeno: non è un’idea importata dall’esterno, ma una forza che cresce da dentro e cerca forma. Un monastero non è un rifugio estetico, è una pratica lunga. Benedetto ha parlato del monachesimo come quaerere Deum, ricerca di Dio: non fuga dal mondo, ma domanda radicale sul reale. In quella domanda, Samuel ci sta già da tempo. Il campo non ha creato nulla; ha soltanto offerto luce.
Natura: non cornice, ma maestro
I ragazzi fotografano molto, com’è naturale. Ma presto capiscono che le immagini più vere non stanno bene su Instagram: sono fatte di odore di resina, di silenzio compatto, di ombre che cambiano. Mangiamo pane e prosciutto seduti su una pietra piatta; qualcuno tira fuori un libro di Romano Guardini: «La natura non è oggetto, è ambito in cui l’anima impara la misura».
Le nuvole trascorrono mentre in sottofondo c’è l’alternarsi del canto dei salmi. «Sotto il cielo di notte, gli occhi miei ti cercano» (cf. Sal 63). Alla Compieta guardiamo le stelle come si guarda una pagina luminosa. L’antifona di Maria, cantata lentamente, ha il peso specifico della realtà: non consola, orienta.
Pastore (quasi) invisibile: il compito del sacerdote
In un campo così il sacerdote non fa lo showman né il capocordata: custodisce il ritmo, toglie rumore, protegge lo spazio delle domande. «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza» (cf. Is 30,15). Non c’è bisogno di molte parole, ma di parole giuste: poche, posate come pietre di guado.
Quando la sera ci sediamo su un tronco a fare verifica, evito i giri d’incenso. Chiedo soltanto: che cosa ti ha fatto bene?che cosa ti ha inquietato? dove hai percepito un appello? Non cerco promesse; cerco indizi. Nelle storie dei ragazzi si ripetono alcune costanti: una gioia sobria nella preghiera comune, una libertà nuova nello stare insieme, la sensazione che Dio non sia un’idea ma un incontro che avviene dentrola trama dei giorni.
Dialoghi in ombra: frammenti
“Don, io ho paura che pregando perda tempo”, interviene Giacomo.
“L’adorazione è l’arte di perdere tempo in modo redentivo. Davanti a Dio il tempo torna tempo: smette di essere ansia, torna ad essere spazio”, spiego.
“Se Samuel entra in monastero, non è uno spreco dei talenti”, chiede Damiano.
“I talenti maturano dove sono amati. “Affida al Signore la tua via, confida in lui” (Sal 37): non è un anti-progetto, è un criterio”, rispondo.
“E se mi accorgessi tra un anno che non è la mia strada?”, dice Samuel.
“Allora avrai imparato la cosa più rara: lasciare andare senza cinismo. Le vie di Dio non umiliano: conducono alla verità di sé”.
Di notte, tra il legno umido della casa e il respiro dei compagni, risuonano in mente le parole ascoltate nel pomeriggio dei discepoli di Emmaus: «Non ardeva forse il nostro cuore mentre conversava con noi lungo la via?» (Lc 24,32). Un campo estivo è esattamente questo: una via su cui Dio si aggiunge discreto alla compagnia.
Quando la preghiera educa l’amicizia
È curioso: più preghiamo, più diventiamo socievoli. Non per zucchero spirituale, ma perché i salmi ci raddrizzano. «Impara, anima mia, a cantare con i fratelli», scriveva Evagrio. La Liturgia non è un affare intimista: è scuola di relazioni. Nel coro impari a non schiacciare l’altro con il tuo volume, a sostenere chi si perde, ad accettare che non sempre si intoni sulla tua tonalità. È un’etica musicale. La carità non nasce da un buon proposito: si impara nella fatica di mettersi in ascolto. « Obsculta, inclina l’orecchio del tuo cuore»: quel movimento - dal rumore al senso - è il lavoro di tutta la vita.
Un esito provvisorio (come ogni cosa viva)
Alla fine del campo non “abbiamo fatto esperienza”, formula inflazionata. Abbiamo, più modestamente, aperto spazi: di preghiera, di pensiero, di decisione. Samuel continuerà a discernere; forse entrerà in un monastero, forse scoprirà che la sua cella è una stanza in affitto con una Bibbia sul comodino e una comunità parrocchiale da servire. In entrambi i casi sarà la stessa ricerca. La montagna intanto resta. Resterà anche la Liturgia delle Ore, se avremo il coraggio di non ridurla a “cosa da campo”. «In te è la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36). Basterebbe questo versetto, masticato ogni giorno, per diventare meno opachi.
d.L.V
Silere non possum