Garlasco - La riapertura dell’indagine sull’omicidio di Chiara Poggi ha rimesso in moto un meccanismo che in Italia si attiva sempre con la stessa, implacabile regolarità: il processo mediatico. Bastano poche ore perché i salotti televisivi si trasformino in aule giudiziarie improvvisate, dove si commenta di tutto – verbali, perizie, sospetti, ipotesi – spesso senza conoscerli davvero, spesso senza poterne parlare. È accaduto di nuovo. Accade ogni volta. Eppure, la storia giudiziaria di Garlasco dimostra con estrema chiarezza quanto sia fragile un’indagine esposta alla pressione dell’opinione pubblica, quanto sia facile smarrire la verità quando i fatti diventano spettacolo.
Per comprendere il punto a cui siamo, occorre ricordare da dove veniamo. Se osserviamo l’inchiesta originaria possiamo osservare una lunga catena di errori: la mancata pesatura del corpo, fondamentale per stabilire l’ora della morte; il sequestro tardivo delle scarpe di Alberto Stasi; l’assenza dell’impronta di Chiara Poggi per le comparazioni; la mancata individuazione dell’arma del delitto; soprattutto, una gestione delle prime 48 ore che gli stessi magistrati hanno riconosciuto essere costellata di omissioni e sviste. È la cronaca documentata degli atti, non un’opinione.
Oggi l’inchiesta è stata riaperta perché i campioni di DNA ritrovati sotto le unghie della vittima – già analizzati anni fa senza esiti definitivi – sono stati rivalutati alla luce di nuove tecniche. È da questo punto che si è tornati a parlare di un nuovo indagato, Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara. Ma il dato più grave non è il nome dell’indagato: è la quantità di atti riservati finiti sui giornali e persino nei telegiornali del servizio pubblico.
Le fotografie contenute in una perizia della procura, i bigliettini privati sequestrati nella casa dell’indagato, persino la registrazione di frasi intercettate e decontestualizzate o appunti personali: tutto è stato rivelato senza che gli avvocati delle parti coinvolte ne fossero ancora a conoscenza. Tutto è stato diffuso violando il segreto investigativo, che non tutela solo il corso delle indagini, ma la presunzione di innocenza e il diritto fondamentale a un processo equo. Molti di quei documenti non avrebbero potuto essere né ottenuti né pubblicati in nessun modo. Non è una sfumatura. È la legge.
Il confine spezzato tra indagini e spettacolo
Che cosa produce questo sistema? Un clima in cui la verità non è più un fatto giudiziario ma una costruzione mediatica. Un meccanismo in cui fughe di notizie, analisi improvvisate, perizie lette in diretta televisiva e supposizioni presentate come certezze condizionano l’opinione pubblica e, talvolta, perfino il giudizio dei tribunali. Non è un rischio teorico. È un fatto documentato da decenni di studi sul processo mediatico, che trasforma gli indagati in personaggi e i giornalisti, gli opinionisti, in custodi di verità parziali, filtrate da fonti interessate a diffondere solo ciò che conviene all’accusa o alla difesa.
E qui si innesta il secondo tema, quello che sta esplodendo in questi giorni: la vicenda delle presunte cartelle cliniche di Alberto Stasi.
Le cartelle cliniche di Alberto Stasi: una linea rossa che non si può superare
È bene ricordarlo con precisione: Alberto Stasi oggi è un detenuto condannato in via definitiva dopo un processo lungo, discusso, complesso. La riapertura dell’inchiesta non cancella la condanna, non la sospende, non la mette tra parentesi. Tuttavia, resta un cittadino privato della libertà, non della dignità. E il tema della sua salute non può diventare materia di intrattenimento televisivo. Da anni, infatti, sulla televisione di Stato, alcuni professionisti continuano a parlare delle sue condizioni cliniche. In particolare, Roberta Bruzzone, criminologa e psicologa forense, conosciuta per la sua presenza costante nelle trasmissioni RAI, ha parlato di elementi tratti – a suo dire – dalle cartelle cliniche del detenuto. Ma, quando le è stato chiesto dall’avvocato Giada Bocellari se ne avesse copia, ha ammesso di non possederle. È un punto decisivo. Perché se quei documenti esistono, sono in ogni caso protetti dalla normativa sulla privacy. Se non esistono, parlarne è altamente scorretto. In entrambi i casi, siamo di fronte a un abuso del dibattito pubblico. La legge italiana considera i dati sanitari la parte più intima e sensibile della vita di una persona. Lo stabilisce lo stesso Garante per la protezione dei dati personali: non possono essere diffusi, non possono essere commentati, non possono essere usati per fare audience. Non importa che il protagonista sia un condannato definitivo. Non importa la notorietà del caso. Non importa che il Paese si divida, discuta, si appassioni. La notorietà giudiziaria non è - e non potrà mai essere - una licenza per devastare la privacy sanitaria.
E c’è un punto ulteriore, ancora più inquietante: molte delle informazioni circolate non solo non dovevano essere pubblicate, ma sono risultate inesatte, incomplete, in alcuni casi suggestive, adatte più ad alimentare una narrazione che a descrivere un fatto. Per questo motivo, oltre alla segnalazione all'Ordine degli Psicologi delle Marche, è stato presentato un esposto anche al Garante dei Detenuti, il Difensore Civico della Regione Lombardia, avv. Gianalberico De Vecchi, chiedendone un intervento sia nei confronti di Roberta Bruzzone sia della televisione pubblica. L’obiettivo è tutelare i diritti delle persone private della libertà, che ancora oggi vengono esposte a commenti personali del tutto privi di base legale e contrari alle norme vigenti.
La domanda che resta: qual è il limite?
Se si comincia a usare la salute di un detenuto come argomento di discussione pubblica, il limite è già stato superato. Le regole sono chiarissime: la salute è un dato protetto. La dignità della persona non si sospende, non si riduce, non si negozia. Per tutti, senza eccezioni. È su questo terreno – quello dei diritti fondamentali – che si misura il grado di civiltà di una democrazia. Una democrazia che accetta scorciatoie non è più una democrazia. È qualcos’altro. Il caso Garlasco riguarda l’Italia non perché ci ricorda un delitto terribile, ma perché ci mette davanti a una verità che non vogliamo vedere: i diritti servono proprio quando è più difficile rispettarli. Le garanzie non proteggono soltanto coloro che riteniamo “persone per bene”, ma anche chi è indagato, chi suscita ostilità, chi ha già ricevuto una condanna. È sufficiente ricordare quante volte abbiamo etichettato qualcuno sulla base di impressioni superficiali – gli “occhi di ghiaccio”, un’espressione, una fotografia – salvo poi scoprire che la realtà era ben diversa. Le garanzie valgono per tutti, senza eccezioni: se diventano selettive, smettono di essere garanzie e si trasformano in privilegi. La storia giudiziaria di Chiara Poggi continua a interrogarci. Ma oggi, accanto all’omicidio irrisolto, c’è un altro fatto da comprendere: la tutela della dignità umana. Che non è un dettaglio, non è un tecnicismo giuridico, non è un formalismo.
P.A.
Silere non possum