Il cardinale Matteo Maria Zuppi, lunedì 20 gennaio 2025, ha aperto la sessione invernale dei lavori del Consiglio Episcopale Permanente della Conferenza Episcopale italiana che si terrà nell'Urbe dal 20 al 22 gennaio 2025.
Discorso del Cardinale Zuppi
Cari Confratelli,
ci ritroviamo, pellegrini di speranza, all’inizio del 2025, “anno giubilare”, tempo davvero opportuno per capire la “Lectio” che sono i segni dei tempi e trasformarli in segni di speranza. È un Giubileo ordinario che tuttavia assume per noi un valore speciale per via di una serie di congiunture storiche della nostra Chiesa e della società. È una provvidenza. Il suono dello Jobel (cfr. Lev 25), il corno di ariete, segnava l’inizio di una celebrazione religiosa, come appunto l’anno giubilare. A noi, pastori e sentinelle del gregge, spetta il compito di suonare oggi idealmente questo strumento per richiamare l’attenzione sui segni di speranza già presenti nelle nostre comunità e che attendono di essere ulteriormente custoditi e sviluppati.
Nella notte di Natale, dopo aver aperto la Porta Santa nella Basilica di San Pietro, Papa Francesco ha pronunciato nell’omelia parole toccanti e impegnative: “Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre. Non dimenticatevi questo, che è un modo di capire la speranza nel Signore” (Omelia, 24 dicembre 2024).
Quanto è importante fissare un nuovo “oggi”! Come dice la Lettera agli Ebrei, citando il Salmo 94: “Per questo, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nel giorno della ribellione, il giorno della tentazione nel deserto” (3,7-8). E un capitolo dopo si legge: “Dio fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!” (4,7). Invece, come dice Giovanni Crisostomo: “Questo rinviare è l’inizio della negligenza”. E l’oggi si manifesta come un giorno diverso dagli altri, opportuno, che dobbiamo sapere contemplare per cambiare. Oggi!
La scelta, davvero provvidenziale, del Giubileo, del tema giubilare e le parole del Papa, hanno colto – mi pare – una sete diffusa tra tante persone, che non trovano o non sanno come cercare risposte. È vero che facilmente vince la rassegnazione, ma in realtà, lo sappiamo, in ogni uomo c’è una speranza e non può vivere senza risposta. Come ha scritto saggiamente un nostro Vescovo: “Finché c’è speranza, c’è vita!”. È uno dei cardini del Giubileo: “Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza” (Spes non confundit 1).
Confrontandomi con alcuni di voi, ho avuto la chiara percezione che molta gente, più del consueto e delle nostre stesse aspettative, sia stata attratta dalla liturgia dell’apertura della Porta Santa, seguita con attenzione e partecipazione, bisogno evidente di sentire personalmente quel che ha detto il Papa, eco della Parola di Dio: “C’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi”.
Le porte delle nostre chiese sono sempre aperte a tutti, ma l’oggi del Giubileo ha creato un’occasione opportuna. Ci sono segni che hanno una grande capacità di comunicare e rompono il muro dell’indifferenza, del fatalismo, della rassegnazione che genera paura della vita. La vita sociale e la temibile logica del consumismo offrono tanti segni, spesso effimeri e ingannevoli perché facili e senza prezzo. La speranza ha sempre un prezzo di pazienza e di sacrificio. La Chiesa, nei forzieri della sua tradizione e della sua preghiera, conserva tanti segni eloquenti, che non sono logori o d’altri tempi. In essi si esprime un messaggio forte, di cui essere gioiosamente consapevoli e che il Giubileo e il Sinodo ci stimolano a riscoprire.
Non posso non pensare all’inaugurazione della Basilica di Notre Dame a Parigi dopo il terribile incendio: questa ha analogamente rappresentato un segno, rivelando che si è attratti dalla bellezza della liturgia, dalla profondità della storia, da parole che vanno al di là della banalità di tanti scenari esistenziali di ogni giorno e che scendono nel profondo del nostro presente e nell’interiorità della persona. C’è una forza attrattiva della bellezza della vita e della preghiera della Chiesa che chiede semplicemente di essere regalata, trasmessa, spiegata. Le Chiese dell’ex Unione Sovietica hanno resistito in decenni di terribile persecuzione antireligiosa e di dittatura comunista (con tanti martiri), solo celebrando la liturgia nello spazio delle chiese rimaste aperte. Padre Tavrion, un monaco russo che aveva passato tanti anni nel gulag sovietico ma che ha potuto finire la sua vita in monastero, ha espresso un segreto della liturgia conservato nella tradizione delle Chiese ortodosse: “Se noi non mostriamo la bellezza, la gente non verrà da noi”. Certo, bisogna essere amministratori consapevoli della ricchezza e della bellezza del messaggio della fede e di come questo si comunica al di là del nostro protagonismo. Non bisogna pensare che abbiamo poco da dare o da dire, talvolta finendo per celebrare con sciatteria o ricercando modalità da spettacolo, credendo che quel che diamo e diciamo alla fine interessa poco. Ci si è riproposta la domanda di speranza, di qualcosa di nuovo in un mondo e in una vita vecchia; di pensarsi insieme, di essere perdonati e non sommersi da banali parole di benessere; di trovare una porta aperta che faccia entrare nella luce uscendo da un buio insopportabile e drammatico come quello della guerra, della solitudine, della violenza, dell’ombra di morte che avvolge l’anima. Nel deserto c’è più sete di senso e di Dio. Certo, potremmo immediatamente minimizzare (a volte siamo ipercritici; ma, se senza amore e con poca speranza, finiamo per non cogliere i segni e non indicare il cammino a pellegrini che soffrono terribilmente per strade davvero impervie), pensando alla saltuarietà e alle contraddizioni. Si rivela evidente, però, la sete di spirito e di speranza nascosta nella vita delle persone. “Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza” (Evangelii gaudium 86; Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di apertura dell’Anno della fede, 11 ottobre 2012).
Scriveva Romano Guardini ne I santi segni, testo di assoluta attualità: “Noi viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduta la realtà da essi significata”. La forza attrattiva dei segni della Chiesa non è – continuava – “qualche occulto significato”, ma ha “nella forma corporea l’elemento interiore: nel corpo l’anima, nel processo materiale la recondita forza spirituale”. Guardiamo, allora, con larghezza e benevolenza la domanda che ci è rivolta e non importa se l’attrazione verso questi segni non è accompagnata immediatamente dalla continuità. Speranza e pazienza valgono per tutti!
Talvolta la ricerca di risposte prende strade di insidiosa idolatria. Lo stesso gioco d’azzardo, in periodi difficili dell’esistenza, tra le fasce più fragili della popolazione, diventa una vera dipendenza con drammatiche conseguenze sulla vita delle persone, nell’illusione, purtroppo coltivata e perfino incentivata, di star meglio, di essere felici o di essere vincenti. Nel 2023 sono stati spesi quasi 150 miliardi nel gioco d’azzardo ed è una cifra sempre in crescita. Occorre una forte azione educativa per liberare da quella che facilmente diviene una vera dipendenza: per questo, serve il coinvolgimento delle aziende dell’azzardo e anche lo Stato deve mettere sempre al primo posto la salute dei cittadini. La campagna “Mettiamoci in Gioco” e la Consulta Nazionale Antiusura ricordano che è possibile affrancare da quello che non è un gioco, ma una schiavitù.
Pur con tutto il necessario rispetto delle scelte dei singoli, di fronte a risposte adulterate e ingannevoli faccio miei i sentimenti dell’apostolo Paolo che scrive: “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta” (2 Cor 11,2). È la “gelosia divina” un sentimento o una passione che ci risveglia, un amore forte che ci rende consapevoli dei tesori della fede e ci stimola a essere creativi.
Sento la responsabilità di creare o rafforzare percorsi che portino all’incontro con la Parola di Dio e con il Vangelo, favorendo l’ascolto e la lettura personale. Quando Papa Francesco istituì la Domenica della Parola di Dio, nel 2019, dette un segno importante che non sempre è stato capito, tanto che in vari luoghi non la si celebra con la convinzione e la solennità richieste. Il Concilio Vaticano II ha restituito la centralità della Parola, Verbum Domini, al Popolo di Dio e ne ha raccomandato la lettura e il culto. Non dimentichiamo che pur in maniera molto diversa, ma con significative analogie, questa domenica ricorda la solennità del Corpus Domini, tanto decisiva per la devozione all’Eucaristia. Suonare idealmente lo Jobel in questo Anno Santo significa anche lasciarsi spronare e guidare dalla Sacra Scrittura. In questo senso, il Sussidio per la celebrazione della Domenica della Parola di Dio, frutto del lavoro sinergico di quattro Uffici della CEI[1], che cadrà proprio domenica prossima (26 gennaio 2025), offre spunti interessanti. Si deve diffondere la devozione alla sacra pagina del Vangelo e della Scrittura, in maniera larga, popolare, non elitaria. Non si tratta, infatti, di circoli ristretti, ma di dare la Bibbia al popolo e guidarlo alla sua lettura. Questo è alla base di un rinnovamento della spiritualità, di quella spiritualità di cui c’è la sete che ci pare di aver colto. Una spiritualità che, senza perdere il suo carattere popolare, non deve essere solo devozionale ma biblica. Questo comporta anche accompagnare nella ricerca di risposte sulla preghiera.
Tante volte sentiamo dire dalle persone, talvolta in momenti di difficoltà nella loro vita, “io non so come pregare”, “vorrei pregare, ma proprio non so farlo”. La fretta della vita quotidiana, la distrazione continua, l’assenza di spazi spesso annullano questa ricerca di come pregare. Risuona ancora quell’“insegnaci a pregare” che i discepoli rivolgono a Gesù. Forse si ripete di generazione in generazione e nella nostra ci appare così evidente. Bisogna accompagnare nella via della preghiera, insegnando come il Vangelo, i Salmi, la Bibbia siano essi stessi una grande scuola di preghiera. Questo vuol dire anche trovare nelle nostre parrocchie non solo sacerdoti, ma ministri come i Lettori, donne e uomini spirituali che aiutino in questa scuola di preghiera, e pure gli spazi necessari. Significa, almeno un po’, santuarizzare le nostre parrocchie, non solo come centri di attività e luoghi di liturgia, ma anche come spazi di silenzio, di devozione e di preghiera. È una dimensione attiva della speranza. Di più: San Tommaso ricorda che la preghiera è l’autentica lingua e la credibile interpretazione della speranza. In questi giorni avremo modo di vivere questa verità, in comunione con le Chiese cristiane, nel corso della Settimana di preghiera per l’unità che quest’anno ha per tema: “Credi tu questo?” (Gv 11,26). In quest’ambito, domani, a Napoli, si terrà la celebrazione ecumenica nazionale con i responsabili delle Chiese cristiane in Italia.
Negli ultimi decenni abbiamo parlato con insistenza di evangelizzazione e missione, discutendo sugli attori di questo impegno, sulle modalità, sulle prospettive. Non sempre i risultati sono stati consolanti. C’è stata, al contrario, una tendenza a rintanarci tra noi, negli ambienti, nella parrocchia, nella comunità. Papa Francesco, con l’Evangelii gaudium, nel novembre 2013, più di dieci anni fa, ci diede un orientamento deciso e prioritario. Questo testo resta il manifesto di riferimento per le nostre Chiese. Indica l’estroversione come una dimensione possibile e decisiva dell’essere Chiesa nella storia dei nostri giorni. Essere una Chiesa profetica vuol dire essere una Chiesa che parla, comunica, ascolta, interroga e risponde. Sono sessant’anni che Paolo VI ha pubblicato la sua prima enciclica, che in qualche modo apre la stagione conciliare che dura sino ai nostri giorni: l’Ecclesiam suam (6 agosto 1964). Una Chiesa profetica è una Chiesa che dialoga. Ma gli attori di questo dialogo sono tutti i credenti nella loro vita personale, relazionale, lavorativa, sono le istituzioni ecclesiali, le parrocchie, i movimenti. Parlare con tutti delle grandi e piccole tematiche della vita quotidiana e della dimensione sociale e nazionale: in queste parole e nella relazione circolano anche le parole della fede. Paolo VI scrive: “La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (Ecclesiam suam 67). Così descrive l’estroversione che egli auspica in un cattolicesimo che, allora, era forte, ma piuttosto arroccato nelle sue istituzioni. Il sogno di Montini è che il messaggio cristiano ritorni nella circolazione del discorso degli uomini e delle donne del proprio tempo, che inquieti le coscienze, che tocchi i cuori, che non sia emarginato dal quotidiano o dalla cultura. Così auspica una coscienza per partecipare consapevoli a questa conversazione con tutti: “Suppone pertanto il dialogo uno stato d’animo in noi, che intendiamo introdurre e alimentare con quanti ci circondano: lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell’umano discorso” (Ecclesiam suam 82).
I giovani, in particolare, con la loro domanda spirituale e di senso, con le sofferenze ma anche con l’ansia di futuro, devono poter incontrare la bellezza del sogno evangelico. “Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!” (Spes non confundit 12).
Questo non è un piano pastorale, ma è qualcosa di più: la creazione di “uno stato d’animo”, di una coscienza decisiva: non è possibile separare la propria salvezza dalla ricerca di quella degli altri. Di fronte a tanta terribile sofferenza del mondo, alle guerre e alla povertà, al ripiegamento individualistico, sentiamo il motivo del mandato missionario, la sua necessità e urgenza. È il nostro oggi! È la ragione del nostro Cammino sinodale! Per questo, ci si preoccupa di far circolare, nei modi opportuni e possibili, sempre con tanta umanità e amabilità, senza proselitismo, il messaggio cristiano nell’umano discorso tra tutti. Questo interpella soprattutto i laici nella vita quotidiana, nell’amicizia con ognuno, nel relazionarsi quotidiano. Coinvolge la Chiesa a intervenire nelle diverse occasioni di dibattito e di incontro. Tanta gente che cerca senso e risposte – una realtà grande che non va sottovalutata – ha bisogno di trovare interlocutori. E questi sono i laici nella vita quotidiana. È il loro grande compito. Il discorso di fede circola tra le parole e gli incontri della vita quotidiana. Benedetto XVI ce lo ha insegnato: “La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per ‘attrazione’: come Cristo ‘attira tutti a sé’ con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce…”, disse nel 2007 sulla Spianata del Santuario dell’Aparecida, parlando ai Vescovi dell’America Latina, dove è forte invece il proselitismo religioso o d’altro genere.
A questo vorrei aggiungere la testimonianza eloquente dei poveri. Papa Francesco ha tante volte insistito sulla responsabilità di non sfuggire i poveri, di toccarli; ciò vuol dire parlare con loro e anche costruire, nell’aiuto e nella solidarietà con loro, uno scambio e un’amicizia. Non sono una categoria. Sono il nostro prossimo e noi lo siamo per loro. Troppo spesso abbiamo istituzionalizzato il servizio ai poveri (che certamente richiede un livello di organizzazione e professionalità), ma troppo poco ci siamo avvicinati fisicamente e umanamente ai poveri. Non basta contribuire economicamente alle istituzioni preposte. Tutti siamo chiamati a essere amici dei poveri e anche i nostri percorsi di catechesi non possono non educare all’amore per i poveri. L’amore per loro, la Lectio Pauperum, chiede di diventare cultura, modo per interpretare i fenomeni e la storia. “La speranza dei poveri non sarà mai delusa” (Sal 9,19). Il povero è Cristo stesso che parla a chi si avvicina e lo soccorre. Il povero evangelizza chi gli si avvicina, trasmettendogli un senso della condizione umana, che ne svela la precarietà e la follia di vivere per sé stessi. I poveri attraggono verso un altro tipo di vita, verso un Vangelo vissuto, come accadde per San Francesco. La carità dà frutti di fede e di amore in chi la vive. Insegna Giovanni Crisostomo: “Non guardare che il povero si avvicina a te sporco e sudicio, ma pensa che Cristo, tramite lui, entra nella tua casa e smetti di essere crudele e di pronunciare parole aspre, con cui sempre rimproveri quelli che si accostano a te…”. Ed aggiunge: “La povertà diventa la maschera di Dio. Dio si nasconde nella povertà; è il povero che tende le mani, ma è Dio che riceve”. È il “sacramento del povero” con cui condividere il pane della terra, dopo avere condiviso quello del cielo. Sono l’altro lato dello stesso altare eucaristico.
Quanto sto finora dicendo sono realtà semplici, basilari per il nostro pensarci cristiani e, quindi, per il Cammino sinodale, ma decisive nell’oggi della vita della Chiesa e del cristiano: la liturgia, i santi segni, il dialogo con tutti, la circolazione della Parola nelle parole del dialogo, l’incontro affettivo con il povero. Sono porte che si aprono e che aprono le porte del cuore. Sono parole che si dischiudono. Sono mani che si tendono. E sono tante le strade attraverso cui il Signore si fa presente e bussa alla porta della vita del nostro tempo. Essere creativi non vuol dire inventare formule o chissà che, ma aver semplice e umile fiducia nei doni che il Signore ha messo nelle nostre mani, nei pochi pani che abbiamo, capaci però di sfamare tanta gente per la benedizione di Gesù. Se la percezione che abbiamo avuto, all’apertura del Giubileo o in altre occasioni, ha un qualche fondamento, l’anno giubilare può essere un momento opportuno per rinnovare il rapporto con quella che alcuni sociologi definiscono l’area grigia: un’estroversione non occasionale delle nostre comunità. Non si tratta di mirare a piccoli risultati, ma di riprendere con tutti e con speranza paziente il filo grande di un discorso parzialmente interrotto. La speranza è attraente e qualifica il nostro parlare, mentre la rassegnazione o lo scetticismo lo svuotano di tanto. Come mi piacerebbe dire alla fine di questo Giubileo quello che scrive Guardini ne Il senso della Chiesa: “Si è iniziato un processo di incalcolabile portata: il risveglio della Chiesa nelle anime”. Questa è la nostra speranza! Non si tratta di esplosioni effimere, ma di un inizio che è in controtendenza con il senso del declino. L’inizio è speranza. E il risveglio della Chiesa nelle anime è qualcosa di sottile e silenzioso, che mostra come si diffonda nel popolo un senso spirituale più profondo della vita. Credo che questo sia anche trascinante. Il risveglio non è certo la pienezza, ma è una riscoperta che va curata e fatta crescere.
A qualcuno sembra che si metta in discussione la verità. Lo chiedeva sessant’anni fa Jean Guitton a Paolo VI: “Ci sembra che la Chiesa dubiti di possedere l’Assoluto, che essa sia preoccupata più della vita che della verità, che voglia adattarsi al mondo, parlare il linguaggio del mondo, che abbia paura della solitudine che viene dal possesso della verità, quella verità che molti uomini d’oggi rifiutano, che vada nel senso della storia mutevole”. Paolo VI rispose: “Non si deve separare ciò che si deve distinguere. Carità e verità non si troveranno mai in contrasto nella dottrina della Chiesa perché, quando la carità è spinta all’estremo, alla sua dimensione sublime, diviene carità-amore della verità. Il Concilio si preoccupa di rendere questa verità più accessibile, più assimilabile agli uomini di questo tempo, così facendola anche più vera, perché quanto più è amata più la verità si rivela efficace”. E aggiungeva con sapienza, liberando da ossessioni pericolose: “L’ordine del cristianesimo non è statico. È un ordine di sviluppo, una promozione al meglio, un equilibrio nel movimento. Il cristianesimo non è una religione puritana, astensionista, conservatrice isolata dalle realtà che travagliano l’uomo. Esso è fatto per l’umanità. È la religione dell’umanità. Ha il genio della riforma e del nuovo, ma anche quello della tradizione della fedeltà. È per natura insoddisfatto: ma è ottimista. È possibile che l’uomo ricco preferisca la ricchezza dell’amore all’amore della ricchezza!”.
Mi piacerebbe che l’anno giubilare costituisse il tempo in cui riflettiamo e maturiamo insieme non la volontà di essere una “minoranza” triste, ma il coraggio di diventare “minori” felici, nel senso in cui la spiritualità francescana ci ha spiegato questa idea. Diventare “minori”, cioè piccoli, è la via evangelica per guardare il mondo come i piccoli, per riconoscere e legittimare i piccoli, per far crescere i piccoli per compiere le “grandi cose” degli umili. Penso a una Chiesa che sia con gioia “minore” come minore è stato Giovanni Battista, che dava testimonianza di un Altro più grande di lui e diceva di voler diminuire perché Lui crescesse (cfr. Gv 3,26-36). Penso, quindi, al Giubileo come a un tempo in cui individuare i piccoli delle nostre Diocesi e metterci al loro servizio, perché cresca in loro la speranza e si prepari così anche il Regno di Dio. Penso alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Penso alle vittime di abusi, la cui sofferenza portiamo nel cuore e ci impegna con rigore nel contrasto e nella prevenzione. Penso ai carcerati. Ringraziando il presidente Mattarella per il messaggio di fine anno, abbiamo ribadito la necessità di “assicurare condizioni dignitose a quanti vengono privati della libertà” e di “offrire percorsi adeguati perché la detenzione sia un’occasione di rieducazione e redenzione”, sottolineando la possibilità di “misure alternative che, oltre a prevenire la reiterazione di un reato, salvaguardano l’umanità e favoriscono il reinserimento nella società” (Nota della Presidenza CEI, 1° gennaio 2025).
Mi piacerebbe che il Giubileo ci spronasse a fare programmi creativi e stabili per quanti vivono difficoltà, anche in collaborazione con quanti condividono la nostra stessa sensibilità.
È in questo senso che guardiamo con simpatia agli sforzi per una rinnovata presenza dei cristiani nella vita politica del Paese e, mi auguro, dell’Europa, a partire dalla Settimana Sociale di Trieste. È importante che ciò avvenga nel tracciato della Dottrina sociale della Chiesa, nella pur legittima pluralità di espressioni politiche. Il Giubileo coincide con l’ottantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, dalla cui tragedia nacque la scelta di immaginare la pace costruendo l’Europa i cui principi fondativi vanno difesi e rilanciati. La pace è pensarsi insieme e lo scandalo della guerra e della guerra in Europa deve impegnarci tutti a cercare le vie, possibili, del dialogo, per una pace giusta e duratura. Invito la Caritas e quanti desiderano aiutare il popolo ucraino a garantire anche quest’anno, come nel 2024, accoglienza ai bambini orfani o colpiti dalla guerra durante le vacanze estive.
Il 2025 è l’anno che vedrà la conclusione della fase profetica del Cammino sinodale e l’inizio del tempo della sua recezione ecclesiale. Lo scorso novembre abbiamo vissuto la Prima Assemblea sinodale (Roma, 15-17 novembre 2024): è stata un’esperienza innovativa per le Chiese che sono in Italia, i cui delegati hanno lavorato con impegno encomiabile. Abbiamo pregato, riflettuto, discusso insieme in stile sinodale. Ne è scaturito, tra l’altro, il testo dello Strumento di lavoro, che è stato approvato dal Consiglio Permanente il 9 dicembre 2024 e subito dopo rimandato alle Diocesi per un lavoro di approfondimento nelle singole realtà locali. Guardiamo adesso alla Seconda Assemblea sinodale (31 marzo – 3 aprile 2025), da cui scaturirà la bozza delle Proposizioni, che saranno discusse nella prossima Assemblea generale della CEI (26-29 maggio 2025).
Dietro queste tappe, con i loro appuntamenti e documenti, ci sono anzitutto le nostre Chiese locali, i desideri e i sogni, insieme con le fatiche e le resistenze, di tante persone impegnate a vario titolo nel Cammino sinodale, che ringraziamo di cuore per il loro impegno e passione ecclesiali. Come Vescovi e, in particolare, come componenti del Consiglio Permanente, vedo due compiti che ci aspettano, tra di loro strettamente connessi.
Occorre, anzitutto, differenziare le Proposizioni che scaturiranno dalla Seconda Assemblea sinodale. Ci saranno, infatti, testi più generici, che tratteranno del senso dell’intero Cammino sinodale e delle sue tematiche generali; ci saranno poi auspici, che solleciteranno l’adesione volontaria e un’ulteriore riflessione delle Chiese locali; ci saranno, infine, orientamenti e indicazioni più stringenti, alle quali tutti dovremo sentirci vincolati come parte di una Chiesa che vuole restare unita e camminare insieme. Occorrerà anche determinare a quale livello si collocano le singole Proposizioni: diocesano, regionale o nazionale. Infine, bisognerà decidere quale procedura seguire nella discussione, votazione e approvazione delle Proposizioni.
In secondo luogo, dobbiamo riflettere insieme e poi esplicitare chiaramente il ruolo che noi Vescovi ci riserviamo durante l’Assemblea generale, quando saremo chiamati a discutere il Documento finale emerso dalla Seconda Assemblea sinodale. Tutti noi abbiamo presenti i due atteggiamenti estremi che saranno da evitare: da una parte, la pretesa di elaborare un testo ex novo, come se potessimo trascurare il lavoro svolto in questi quattro anni dai vari attori del Cammino sinodale; dall’altra, un ruolo meramente notarile, tralasciando la fatica di studiare, verificare e garantire quel Documento finaleche sarà poi offerto alla recezione delle Chiese.
Il Cammino sinodale si è già rivelato nel suo svolgersi un segno di vitalità delle Chiese che sono in Italia. Adesso spetta a noi tutti portare a compimento questo processo, fornendo indicazioni chiare per poi accompagnare la fase della recezione, sostenendo in primis i nostri presbiteri.
Il Giubileo può diventare una occasione per tornare a bussare alla porta dei Paesi ricchi, compresa l’Italia, perché rimettano i debiti dei Paesi poveri, che non hanno modo di ripagarli. Qui vivono milioni di persone in condizioni di vita prive di dignità. Si badi che i debiti degli Stati sono talora contratti con privati: la Chiesa non può non far sentire la sua voce perché si stabilisca una equità sociale e i pochi straricchi non profittino della loro posizione di vantaggio per influenzare la politica per i propri interessi. Senza dimenticare, come ha recentemente ricordato Papa Francesco, che c’è “una nuova forma di iniquità di cui oggi siamo sempre più consapevoli: il “debito ecologico”, in particolare tra il Nord e il Sud. Anche in funzione del debito ecologico, è importante individuare modalità efficaci per convertire il debito estero dei Paesi poveri in politiche e programmi efficaci, creativi e responsabili di sviluppo umano integrale” (Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2025).
Strettamente intrecciato al tema dell’economia è quello della pace. Uno dei segni dei tempi più drammatico è infatti quello della guerra. La Chiesa italiana innalza a Dio la preghiera perché il Giubileo offra l’opportunità per raggiungere i tanti attesi e indispensabili negoziati che trovino soluzioni giuste e durature, con una forte ripresa della presenza della comunità internazionale e del multilateralismo e degli strumenti necessari per garantire il diritto e non il ricorso alle armi per risolvere i conflitti. La tregua raggiunta in Terra Santa ci auguriamo che rafforzi la pace e avvii un nuovo processo che porti ad un futuro concreto.
La Chiesa in Italia è vicina a Israele perché possa riabbracciare finalmente i propri cari rapiti, avere la sicurezza necessaria e continuare a lottare contro l’antisemitismo che si manifesta dentro forme subdole e ambigue. La recente Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei ha avuto come tema proprio il Giubileo, nella consapevolezza che solo l’amicizia e il dialogo continueranno a rendere saldo il nostro rapporto per quanto ci riguarda costante e affatto indebolito. Già in passato sono intervenuto con chiarezza condannando fenomeni di risorgente antisemitismo, mai accettabili.
La Chiesa in Italia è vicina ai palestinesi e alla loro sofferenza perché si possa finalmente avviare un percorso che permetta a questo popolo di essere riconosciuto nella sua piena dignità e libertà.
Sono in gioco interessi sempre più elevati nella produzione e nel commercio di armi. Diverse volte il Santo Padre si è fatto promotore di questa denuncia: “Quante risorse vengono sprecate per le spese militari che, a causa della situazione attuale, continuano tristemente ad aumentare! Auspico vivamente che la comunità internazionale comprenda che il disarmo è innanzitutto un dovere: il disarmo è un dovere morale” (Angelus, 3 marzo 2024). La sua proposta per creare un fondo di lotta alla povertà invece di riempire gli arsenali non dovrebbe essere presa seriamente in esame?
Se volgiamo lo sguardo all’Italia, troviamo altre situazioni che minacciano la persona, l’unica preoccupazione che chi ama Gesù mette al centro, soggetto delle nostre scelte e preoccupazioni. Fa riflettere la condizione del lavoro povero e precario, che favorisce peraltro sacche di illegalità, la difficoltà per tanti di arrivare alla fine del mese e di poter immaginare il futuro. Strettamente legata alla famiglia e alla natalità è la questione della casa che richiede certamente uno sforzo straordinario per garantire prezzi d’acquisto accessibili e garanzie adeguate agli affittuari.
Sul fronte dell’immigrazione, nonostante la riduzione degli sbarchi (secondo i dati recenti, nel 2024 sono sbarcati sulle coste italiane 66.317 migranti, il 58% in meno rispetto ai 157.651 arrivati nel 2023), rimane elevato il numero di vittime di naufragio (circa 1.700 morti in mare, 1 ogni 40 arrivi, inferiore ai morti nella rotta del Mediterraneo occidentale che è di 1 ogni 36). È evidente la necessità di non indebolire la cultura dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati, offrendo regole di diritti e doveri sicuri, flussi e canali che permettano l’ingresso dei necessari lavoratori, che non sono mai solo braccia, ma persone che richiedono politiche lungimiranti di integrazione. L’esperienza dei corridoi umanitari e lavorativi è da valorizzare perché garantisce dignità e sicurezza a chi fugge da situazioni drammatiche. Le Diocesi italiane, con il loro impegno, sono un faro di accoglienza per oltre 146.000 persone di origine straniera. Accanto ai corridoi umanitari, lavorativi e universitari sono un esempio concreto di come sia possibile conciliare il diritto a migrare con l’integrazione e lo sviluppo locale. Negli ultimi anni, tra le molteplici esperienze di accoglienza, si è sviluppato un nuovo approccio che tiene insieme la richiesta di sicurezza, il desiderio di solidarietà e l’esigenza di andare incontro ai bisogni delle persone migranti. Insomma: liberi di partire, liberi di restare e liberi di tornare, uscendo finalmente da una logica esclusivamente di sicurezza, questione evidentemente decisiva, per rafforzare la cooperazione, in particolare con l’Africa. Guardare al futuro con speranza non significa, allora, ignorare le difficoltà del presente, ma riconoscere “i fili d’erba nelle crepe”, il bene che può emergere anche nelle situazioni più difficili.
Speranza e pazienza. La speranza non delude. Diceva Mazzolari: “Il contadino quando semina ha negli occhi il fulgore del giugno e va verso quello, mentre la nebbia ottobrina gli vela lo sguardo. La speranza vede la spiga quando i miei occhi di carne non vedono che il seme che marcisce. Sono nostre anche le cose che marciscono, e tanto più care perché marciscono”.
“La speranza non delude” (Rm 5,5). Siamo “pellegrini” che cercano speranza e che trovano in essa la luce per chi è nel buio, il perdono per chi è nel peccato, la gioia per chi è nella tristezza. “Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (Ef 4,4).
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di avermi ascoltato e di quanto vorrete osservare e proporre. Affidiamo queste giornate di lavoro comune all’intercessione della Vergine Maria, Madre della speranza, Donna del terzo giorno, ricolma di Spirito Santo.
[1] Ufficio Catechistico Nazionale (con il suo Settore dell’Apostolato Biblico), Ufficio Liturgico Nazionale, Ufficio Nazionale per i Problemi sociali e il Lavoro e l’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali e l’Edilizia di Culto.