Molti immaginano che entrare in un monastero significhi compiere un salto indietro nei secoli. Altri credono che dietro le grate della clausura vivano donne e uomini immersi in una preghiera ininterrotta. In realtà, dietro le mura di pietra e il silenzio che avvolge certi chiostri, non si cela un’esistenza sospesa fuori dal tempo, ma un modo diverso – radicale – di abitare il tempo presente.
E allora, la domanda che spesso sorge è inevitabile: come vivono davvero monaci e monache? E, soprattutto, come riescono a mantenersi e a sopravvivere economicamente? Sono “pagati dal Vaticano”?
Una regola antica che ancora orienta
La maggior parte dei monasteri cattolici segue la Regola di san Benedetto, scritta nel VI secolo. In poche parole, Benedetto proponeva una vita fatta di preghiera, lavoro e comunità: “Ora et labora” – prega e lavora. Non si tratta di un motto estetico, ma di una vera organizzazione di vita.
La giornata è scandita dalla Liturgia delle Ore (i salmi cantati in coro più volte al giorno) e dal lavoro manuale o intellettuale. È questo equilibrio che permette alla comunità di non vivere nell’ozio, ma anche di non trasformarsi in un’azienda: il lavoro serve per sostenere la vita, non per arricchirsi.
Da dove arrivano i soldi?
Molti pensano che i monasteri si reggano unicamente sulle offerte, o addirittura che ricevano fondi direttamente dal Vaticano. In realtà, se da un lato esistono benefattori che scelgono di sostenere la vita di monaci e monache, dall’altro è bene chiarire che non è il Vaticano a finanziare né i monasteri, né le diocesi, né tantomeno le parrocchie sparse nel mondo.
Storicamente, i monasteri hanno sempre puntato sull’autosufficienza. Lo facevano coltivando la terra, allevando animali, producendo vino, olio, miele, birra. Ancora oggi alcuni monasteri sono famosi per questi prodotti. L’abbazia trappista di Westvleteren, in Belgio, è nota per una delle birre più apprezzate al mondo; i certosini hanno creato il liquore Chartreuse; molti benedettini vendono marmellate, tisane o cosmetici naturali.
Altri monasteri si mantengono grazie a ospitalità e foresterie: accolgono ospiti che cercano silenzio e ritiro, chiedendo un contributo per il soggiorno. Alcuni, come i camaldolesi o i cistercensi, organizzano anche ritiri spirituali o settimane di lavoro volontario. Infine, in tempi più recenti, alcune comunità hanno sviluppato forme di lavoro moderno: case editrici, laboratori artigianali, corsi online di spiritualità o musica liturgica.
Uno stile di vita sobrio
Non bisogna però pensare che i monaci vivano “come tutti”, con stipendi e spese simili a una famiglia media. La povertà evangelica è un punto fermo. Questo non significa miseria, ma sobrietà. Le spese sono condivise, i beni personali non esistono: ogni monaco o monaca mette a disposizione della comunità quello che ha e quello che guadagna.
Il cibo è semplice, spesso legato al ritmo delle stagioni. In molti monasteri si continua a seguire l’antica tradizione dell’astinenza dalla carne. L’abbigliamento è quello della comunità (l’abito monastico), e la vita non è orientata al consumo ma alla durata: si ripara, si riutilizza, si ricicla.
Una testimonianza
La vita monastica non è pensata per accumulare, ma per essere segno. Il fatto stesso che, in un mondo fondato sulla produttività e sul guadagno, esistano comunità che scelgono di vivere con l’essenziale, diventa una provocazione anche culturale. Il monaco e la monaca non vivono di “progetti” o di business plan, ma di fiducia reciproca e nella Provvidenza. Le fonti storiche lo mostrano chiaramente: i monasteri hanno attraversato guerre, carestie e rivoluzioni, ma hanno sempre trovato un modo per rigenerarsi.
Oggi, quando qualcuno varca la soglia di un chiostro e chiede: “Ma come fate a vivere?”, la risposta potrebbe essere semplice: con preghiera, lavoro e condivisione. Ed è proprio questa semplicità che continua ad attirare uomini e donne di ogni età, persino nel XXI secolo.