Città del Vaticano - Questa mattina, nella luce tersa di una Piazza San Pietro che sembrava respirare con il cuore della Chiesa intera, Leone XIV ha cominciato il suo ministero petrino. I gesti che hanno caratterizzato questa liturgia hanno commosso il Papa e tutti i cattolici del mondo.
Un’omelia semplice, densa, evangelica, ha accompagnato la solenne liturgia. Il nuovo Pontefice ha voluto iniziare citando le prime righe delle Confessioni di Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te». Una citazione che avevamo pubblicato sui nostri social appena il proto-diacono ha pronunciato il nome del neo eletto. Una scelta come chiave di lettura per comprendere il compito del successore di Pietro: radunare i dispersi, custodire il gregge, guidarlo verso Dio. Si tratta di un mandato spirituale. E lo ha detto con parole di limpida umiltà: «Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia».
Fin dalla sua elezione, Leone XIV ha ricordato in molti la figura di San Paolo VI. Non solo per una somiglianza nelle forme esteriori, ma per quell’insieme di gesti misurati, di sguardi profondi, di pudore e delicatezza che trasmettono la stessa intensità spirituale di Giovanni Battista Montini. In Leone XIV si intravede anche la dolce bontà e la riservatezza che furono tratti distintivi di Benedetto XVI: due papi segnati dalla stessa vocazione al martirio per la Verità.
Ed è proprio per questo che nasce una preoccupazione seria: che Leone XIV venga lasciato solo, come fu lasciato solo Paolo VI, come fu lasciato solo Benedetto XVI. È una lezione della storia che non dovremmo ignorare e che abbiamo analizzato, per quanto riguarda l’operato di chi dovrebbe lavorare per il Papa, in questo articolo.
La solitudine di Paolo VI
Papa Montini fu eletto nel 1963, nel pieno del Concilio Ecumenico Vaticano II, e ne divenne il traghettatore. Fu l’uomo del dialogo, della mediazione, della sofferenza per l’unità. E proprio per questo, fu attaccato da entrambe le parti.
Da un lato, fu osteggiato dai tradizionalisti, che lo accusavano di aver ceduto alla modernità, di aver “svenduto” la liturgia con la riforma del Messale (1969), e di aver allentato il rigore dottrinale. L’immagine stereotipata di un Montini troppo debole, incerto, succube della teologia progressista ha circolato a lungo nei circoli conservatori. Il celebre gesto di deporre la tiara (1964), letto come un atto di umiltà evangelica, fu per alcuni un gesto scandaloso, quasi un abbandono simbolico della regalità petrina. Dall’altro lato, i modernisti lo attaccarono con la stessa intensità ma da direzioni opposte: lo accusarono di immobilismo, di non essere stato all’altezza delle attese rivoluzionarie del Concilio, e soprattutto di aver tradito le aperture conciliari con l’enciclica Humanae Vitae (1968), che riaffermava la condanna della contraccezione artificiale. Quella decisione provocò uno scisma silenzioso, con interi episcopati e teologi che si allontanarono, e un’ondata di disobbedienza ecclesiale che colpì duramente la sua figura.
Quel clima, esacerbato dagli anni e dalle decisioni polarizzanti anche adottate in questi ultimi tempi, è quello che oggi si ritrova come eredità anche Leone XIV, il quale ha raccolto fin da subito l’invito pressante delle Congregazioni generali: “Questo, fratelli e sorelle, vorrei che fosse il nostro primo grande desiderio: una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato”. In mezzo a queste due polarità, Paolo VI restò solo. E questa solitudine, spirituale e istituzionale, traspariva chiaramente nel suo volto scavato, nei suoi ultimi discorsi, nel suo testamento umano e spirituale. È celebre la sua frase: “da qualche fessura sembra essere entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. Non era retorica: era un grido sofferto.
Una lezione per oggi
Guardando Leone XIV, viene spontaneo pregare che non tocchi anche a lui questa solitudine del pastore. Il suo stile mite e sobrio, la sua attenzione all’umanità di chi gli giunge innanzi, quello sguardo dolce, la sua scelta di non gridare per imporsi ma di restare fermo nella verità, potrebbero essere un obiettivo di quella lobby mediatica che ha lavorato per anni al fine di distruggere Benedetto XVI.
Non possiamo permettere che accada di nuovo. Non possiamo lasciare il Papa solo proprio quando il gregge ha più che mai bisogno di una guida capace di coniugare verità e carità, dottrina e misericordia, tradizione e discernimento. L’elezione di Leone XIV ha ridato respiro a molti cuori nella Chiesa: dopo anni di sofferenza, tanti tornano a guardare al Papa con speranza. Eppure – come già evidenziato più volte su queste pagine – chi osa dire la verità nel torbido mondo para vaticano diventa subito scomodo. Anche se si tratta del Papa.
Vi sono infatti personaggi – introdotti sotto il pontificato di Francesco, secondo il solito schema del familismo amorale – legati alla lobby diplomatica che tanto si adoperò per l’elezione di Bergoglio, i quali hanno già dato avvio a una lotta sotterranea contro il nuovo Pontefice. Non si tratta più soltanto di contrastare chi per anni ha avuto il coraggio di denunciare gli abusi del potere. Ora l’unico obiettivo è mantenere il controllo, restare sul carro a ogni costo. E quando si rendono conto che questo potere vacilla, ricorrono al fango: estrapolano frasi, diffondono veline, costruiscono ad arte ambiguità per colpire il Papa e minare la sua autorevolezza.
Con Pietro, sempre
Leone XIV cammina oggi nel solco dei grandi testimoni della fede del Novecento. Ma perché il suo pontificato possa portare frutto, ha bisogno di essere accolto, accompagnato, sostenuto. Non idolatrato, né contestato a priori. Ma seguito, come si segue un pastore buono. Perché, come ricordava Paolo VI nel 1975, “il mondo ha bisogno di testimoni più che di maestri”. E Leone XIV, in questo inizio di ministero, sembra proprio questo: un testimone mite, deciso, luminoso. Che non va lasciato solo.
p.L.S.
Silere non possum