Negli ultimi decenni sono nate diverse comunità religiose che, pur presentandosi come luoghi di intensa spiritualità e devozione, celano al loro interno profonde problematiche strutturali. Se non affrontate, queste criticità possono degenerare in veri e propri abusi. Tra gli aspetti più preoccupanti emergono l’assenza di una regolamentazione adeguata dell’autorità, una formazione teologica insufficiente e una concezione distorta della vocazione e dell’obbedienza. Realtà spesso fondate su un forte carisma iniziale e su un sincero desiderio di seguire Cristo in modo radicale rischiano di sviluppare dinamiche di chiusura, isolamento e controllo, favorendo così forme di abuso spirituale, psicologico e di coscienza.
Il caso dell’ex gesuita Marko Ivan Rupnik, ad esempio, ha portato alla luce come, dietro un’apparente esperienza di intensa spiritualità e creatività artistica, possano nascondersi forme di manipolazione e abuso di coscienza. Questi problemi, tuttavia, non sono esclusivamente riconducibili a singoli individui devianti, ma spesso derivano da un’interpretazione errata della teologia e dell’ecclesiologia, che giustifica il potere incontrollato di alcuni leader e promuove una sottomissione assoluta da parte dei membri della comunità. Papa Francesco, nel suo messaggio per la 62ª Giornata Mondiale per le Vocazioni, ha ricordato: «La scoperta della propria vocazione avviene attraverso un cammino di discernimento. Questo percorso non è mai solitario, ma si sviluppa all’interno della comunità cristiana e insieme ad essa». Troppe volte, invece, si incontrano mentalità distorte secondo cui il vescovo può approvare, ordinare o fondare comunità senza dover rendere conto a nessuno. Queste visioni, oltre a essere superate, sono profondamente contrarie allo spirito evangelico. Nella Chiesa nessuno cammina da solo: ogni membro ha un ruolo specifico, anche nel discernimento delle vocazioni al sacerdozio o alla vita religiosa. Persino coloro che ricevono una chiamata eremitica non agiscono in totale autonomia, ma si affidano al discernimento ecclesiale.
Un esempio significativo di questo processo è il rito di ordinazione presbiterale, in cui il vescovo chiede: «Sei certo che ne sia degno?». La risposta potrebbe sembrare ovvia: «No, chi può essere degno di un mistero così grande?» Eppure, la Chiesa, dopo un’attenta valutazione, afferma: «Dalle informazioni raccolte presso il popolo cristiano e secondo il giudizio di coloro che ne hanno curato la formazione, posso attestare che ne è degno». È un discernimento comunitario, non una decisione arbitraria. Tanto è vero che il Rettore del seminario non domanda: «Chiedo che venga ordinato» ma afferma: «Reverendissimo Padre, la Santa Madre Chiesa chiede che questo nostro fratello sia ordinato presbitero».
Lo stesso principio dovrebbe valere per la fondazione di nuove comunità religiose, che non possono essere approvate con superficialità né affidate a presbiteri privi di una solida preparazione. Non basta il giudizio del “rettore madonnaro” o del Vicario per la Vita Consacrata che ha combinato diversi danni nelle varie parrocchie della diocesi ove è stato mandato ed ora è stato piazzato in un ufficio di curia per non creare ulteriori problemi.
La formazione è una cosa seria e prima di concedere un’approvazione, formale o informale che sia, ad una realtà religiosa è bene che si vagli con attenzione il carisma che queste religiose affermano di voler seguire. La scelta di vita non può ridursi a una mera devozione, a un’attenzione esclusiva alla liturgia o a una distorta immagine della lotta contro il demonio, quando spesso i problemi sono di natura psicologica. Il Concilio Vaticano II, nel decreto sul rinnovamento della vita religiosa, afferma chiaramente: «L'aggiornamento degli istituti dipende in massima parte dalla formazionedei loro membri». Per questo, i religiosi, prima di essere destinati all’apostolato, devono ricevere una preparazione adeguata, prolungata nel tempo e sviluppata in ambienti idonei. Inoltre, il Concilio sottolinea la necessità di una formazione permanente e di una selezione accurata dei formatori spirituali, per garantire un percorso autentico e consapevole di fede, libero da derive misticheggianti.
Infine, Perfectae Caritatis ribadisce che la fondazione di nuovi istituti deve avvenire con prudenza, valutandone la reale necessità, la sostenibilità e la capacità di sviluppo. È fondamentale promuovere forme di vita religiosa che tengano conto della cultura, delle tradizioni e delle condizioni di vita delle comunità locali, evitando la proliferazione di istituti privi di solidità.
Punti critici sui quali vigilare
- Autorità carismatica incontrollata – Molte di queste comunità ruotano attorno a una figura centrale, il fondatore o la fondatrice, il cui carisma diventa il punto di riferimento assoluto. Questo porta a una gestione poco trasparente del potere e alla difficoltà di mettere in discussione eventuali abusi.
- Devozionismo eccessivo – L’enfasi sulla preghiera e sulla vita spirituale può scadere in un fideismo privo di ragione, che porta i membri a giustificare comportamenti dannosi in nome della fede.
- Isolamento dalla Chiesa e dal mondo – Spesso queste comunità si pongono in una posizione di superiorità rispetto alla Chiesa stessa, ritenendosi un’alternativa più pura e radicale. Questo isolamento impedisce ai membri di trovare aiuto all’esterno.
- Svalutazione dell’individualità – L’ideale di obbedienza viene interpretato in modo rigido, con la richiesta di annullare la propria volontà per aderire completamente alle direttive della comunità.
- Mancanza di una formazione teologica solida – L’assenza di un’adeguata preparazione ecclesiologica e teologica porta a interpretazioni distorte della fede, giustificando pratiche coercitive e autoritarie.