Nell’ultimo periodo si sono moltiplicati, anche sui social, coloro che parlano di fede a seguito – così la definiscono – di una “forte conversione”. Conversioni che, però, spesso non hanno la trasparenza del Vangelo né la pazienza del cammino: affiorano da un vissuto personale complesso, talora irrisolto, e non di rado si consumano senza un serio lavoro di chiarificazione interiore. Non c’è ricorso a un aiuto competente per attraversare ferite, nodi, fragilità; c’è, invece, uno slancio che finisce per riversarsi sulla religione con la stessa logica con cui ci si potrebbe gettare nella militanza politica: adesione totalizzante, appartenenza identitaria, bisogno di schieramento. Sono sempre stato diffidente verso chi vive la fede come una bandiera da esibire. Non appartengo a quelli che sostengono che la fede debba essere una faccenda privata, da nascondere; ma non accetto che venga brandita contro gli altri, trasformata in un’arma retorica con cui misurare, giudicare, squalificare. Il Vangelo chiede prossimità, non trincee; chiede di farsi compagni di strada, non sentinelle armate di slogan.

E infatti, quasi sempre, questi “divulgatori” - che arrivano persino a fare prediche ai preti - scelgono temi che sul piano sociale garantiscono visibilità e consenso: omosessualità, diritti, famiglia, donne, e via elencando. Le posizioni, ovviamente, sono quelle che sono: nette, semplificate, calibrate per accendere reazioni più che per illuminare coscienze. Il meccanismo ricorda quello di certi politici che compaiono sui social a Natale e non esitano a strumentalizzare persino Gesù Bambino pur di raccogliere consensi. Stupisce, semmai, che vi siano ancora cattolici incapaci di cogliere l’evidenza: a questa gente, molto spesso, non interessa nulla se non sé stessa e la propria poltrona.

Il paradosso è che si tratta, non di rado, dei principali propagatori di teorie che non incarnano. Dicono cose omofobe e dietro si cela un’omosessualità repressa, non accolta, convertita in aggressività. Sbandierano la “famiglia tradizionale” mentre vivono storie spezzate, relazioni lacerate, assetti tutt’altro che pacificati. Parlano di donne e poi ripropongono la retorica paternalistica di sempre, sostenendo che le donne “devono essere protette dagli uomini”, come fossero oggetti fragili da custodire, proprietà da difendere, e non persone libere da rispettare. E così via. In nome di Diosi finisce per proclamare principi che non diventano carne; per questo vengono urlati: perché non abitano la vita e cercano, piuttosto, di dominarla.

Il fenomeno si riconosce subito: il convertito che, invece di entrare in una comunione, si costruisce una trincea. Parla di “difesa della fede”, ma il lessico e il tono assomigliano a un conflitto permanente: ogni interlocutore diventa un avversario, ogni differenza una minaccia, ogni domanda un’insidia. È un modo di vivere il cristianesimo che produce adrenalina e identità, ma col tempo corrode la persona e avvelena la Chiesa. Lo si vede con chiarezza dalla grammatica dei contenuti: “reazione a…”, “Tizio ha detto ma io vi dico…”, “contro…”. Senza qualcuno da attaccare, molti di questi profili non esisterebbero. Il nemico non è un incidente; diventa la condizione per esistere anche sul social.

Don Luigi Giussani metteva in guardia da una deriva sottile e pericolosa: la parola “ragionamento” può scivolare fino a diventare “dialettica in funzione di una ideologia”. È il segno di un tempo in cui, più che “imparare dalla realtà”, si pretende di “manipolare la realtà secondo le coerenze di uno schema fabbricato dall’intelletto”. In sostanza, il “piccolo talebano” smette di ascoltare l’esistenza e la trasforma in un terreno di scontro, utile soltanto a confermare una griglia mentale già pronta. In questo modo la fede perde la qualità dell’incontro e si riduce a una procedura di identificazione del nemico: si seleziona ciò che convalida, si espelle ciò che inquieta, si censura ciò che contraddice.

Giussani spiegava anche che la maturazione cristiana procede per un metodo concreto, non per escalation polemica. “Non è il ragionamento astratto che fa crescere… ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta”, scriveva, indicando “l’esperienza dell’incontro con la sua umanità” come via che conduce a riconoscere Cristo. Quando il convertito vive di dispute, la fede resta bloccata a una fase immatura: produce giudizi rapidi, ma non produce un io più vero. E quando l’io non cresce, cresce la durezza: è il segnale che non ci si sta realmente “attaccando a Cristo”, ma a un sistema di protezioni.

In Introduzione al cristianesimo, Joseph Ratzinger osservava che credere e comprendere stanno insieme “se [la fede] non viene degradata in fanatismo, settarismo”. Ratzinger sapeva che il fanatismo non coincide con un temperamento: nasce quando la fede si stacca dall’intelligenza del reale e dalla pazienza del comprendere. Quando la fede smette di comprendere, compensa con l’aggressività; quando non regge il confronto con la complessità, cerca salvezza nella semplificazione violenta. E a quel punto la testimonianza si traveste da crociata, la verità diventa una clava, la conversione una identità da difendere.

M.P.
Silere non possum