Roma – Nelle ultime ore, la gestione mediatica della vicenda che coinvolge Alfonso Signorini, rilanciata e impacchettata da Fabrizio Corona in video pubblicati su YouTube, pone un problema che va ben oltre il gossip: è un tema di metodo, di responsabilità pubblica e di tenuta dello Stato di diritto. Quando materiale sensibileviene esibito come trofeo e trasformato in munizione per umiliare e dileggiare, non siamo davanti a un’inchiesta: siamo davanti a un dispositivo di gogna, costruito per monetizzare l’attenzione e alimentare un’onda di derisione collettiva.
Corona continua a presentare i suoi contenuti come “programma”, talvolta persino come “vera informazione”. Ma la cifra non è la verifica, non è la contestualizzazione, non è la tutela dei soggetti coinvolti: è l’esposizione del privato, la promessa di “altro materiale”, l’uso di frammenti e allusioni come clava narrativa. È un modello che non produce verità, produce paura e ricattabilità: perché il messaggio implicito è sempre lo stesso, “oggi tocca a lui, domani può toccare a chiunque”.
È un copione che non nasce oggi ed è tipico di molti che addirittura millantano il titolo di giornalista. Anche nel panorama para vaticano non mancano figure, chierici e laici, che si autodefiniscono “giornalisti” senza esserlo davvero: trovano spazio su alcune testate, talvolta si costruiscono “riviste” personali, ma ciò che producono non è informazione, tantomeno approfondimento teologico o pastorale. La loro traiettoria, spesso, parla da sé: processi penali, procedimenti canonici, anni trascorsi nel nascondimento o ai margini, e un rapporto irrisolto con la verità e con le regole. Eppure, sono proprio questi soggetti ad assumere il tono di chi pretende di fare la morale agli altri, pur avendo da nascondere spesso molto più di quanto abbiano le persone che prendono di mira.
Il tratto comune, Corona incluso, è l’uso strumentale della comunicazione per regolare i conti. Corona è noto per il suo passato; altri lo sono meno al grande pubblico, ma lo diventano in fretta per lo stile: rancore, allusioni, insinuazioni, e una cifra che scivola con facilità nella diffamazione aggravata. In questi casi, non è difficile riconoscere che non si tratta di giornalismo, ma di personaggi problematici che usano una maschera “professionale” per dare legittimità alle proprie “uscite”.
Lo schema è quasi sempre identico. In Italia, inoltre, questi ambienti tendono a organizzarsi in piccole criccheche, appena vengono smascherate, passano immediatamente alla retorica della persecuzione. È un meccanismo familistico amorale, tipico di chi ha qualcosa da nascondere: si costruisce un gruppo, si opera nel sotterfugio cercando sponde e contatti, poi si registra, si incamera, si custodisce e, al momento opportuno, si “sputa” tutto per sputtanare.
Il giornalismo non è questo. Il giornalista cerca la verità, sempre, ma non la persegue mediante la distruzione gratuita delle persone e non trasforma il privato in una clava. Con Silere non possum lo abbiamo mostrato più volte, portando alla luce gli “altarini” di chi arriva persino a usare la vita privata dei preti come leva di ricatto, esponendoli al pubblico ludibrio. Salvare chat, fare screenshot, registrare audio, archiviare materiale e poi usarlo per ricattare, denigrare o minacciare non è informazione: è una prassi che, in molti casi, sconfina in condotte illecite e può integrare veri e propri reati. Lo abbiamo visto a Francofonte, a Cassino, a Roma, ecc…
Il caso Signorini trasformato in circo: le “vittime” ridicolizzate e vendute al pubblico
Se la questione di fondo fosse davvero l’abuso di potere e l’asimmetria nelle relazioni (tema serio, che meriterebbe rigore), la prima regola sarebbe la protezione dei soggetti più esposti: nomi, chat, immagini, dettagli intimi andrebbero maneggiati con estrema cautela. Invece la dinamica si rovescia: la presunta denuncia del “sistema” diventa la punizione pubblica dei più vulnerabili, con un effetto di vittimizzazione secondaria che passa attraverso meme, parodie, commenti sessuali e contenuti generati per umiliare.
Nel racconto costruito da Corona, le chat diventano materiale per deridere, l’intonazione è quella della caricatura, la lettura è impostata per disgustare e far ridere, mentre la reputazione delle persone viene sepolta in diretta. E quando si arriva a promettere, come contenuto “a pagamento”, la circolazione di materiale sessuale attribuito a uno dei nomi tirati in ballo, il punto non è più lo scandalo: è la mercificazione dell’umiliazione.
Qui il quadro è ancora più grave perché, secondo quanto viene riferito, emergerebbero episodi in cui alcune persone sarebbero state indotte o costrette a compiere atti contro la propria volontà. Uomini eterosessuali che, per poter ottenere un lavoro o conservarlo, sarebbero stati spinti a fare qualcosa con persone con cui non volevano, anche in ambito omosessuale. Se questi fatti fossero confermati, saremmo davanti a una dinamica di abuso e ricatto che non ammette attenuanti. Ed è un punto essenziale: la gravità non cambia in base al genere o all’orientamento sessuale. È gravissimo se un uomo lo pretende da una donna, se un uomo lo pretende da un uomo, se una donna lo pretende da un uomo, o se una donna lo pretende da un’altra donna. Non esiste un “contesto” che renda accettabile la coercizione, né un orientamento che possa essere usato come scudo. La sfera affettiva e sessuale è una questione seria e la violenza - esplicita o implicita - non può passare impunita. Proprio per questo, se le circostanze dovessero risultare vere, sarebbe ancora più intollerabile che tutto venga trasformato in uno show: perché significa usare vittime come materiale di intrattenimento, invece di pretendere una ricostruzione rigorosa e una trattazione all’altezza della gravità dei fatti.
Ecco perché è preoccupante vedere il dibattito scivolare verso la caricatura social (“la parodia di questo”, “la battuta su quello”, “l’audio usato per reel e tik tok”): quando temi delicati vengono convertiti in tormentoni, la società perde la capacità di distinguere tra responsabilità e spettacolo. Il risultato è una macchina che non chiarisce, non cura, non protegge: macina.
Il sistema che legittima: radio, tv, giornali, piattaforme
C’è poi un livello ulteriore, spesso rimosso dal dibattito: ciò che rende questo metodo così efficace non è soltanto chi lo mette in atto, ma chi lo legittima e lo normalizza. Non si tratta solo dei social, ormai ridotti a un circo permanente, ma anche di una parte del circuito mediatico che offre a Corona una sponda, trattandolo come un semplice “personaggio”da invitare, applaudire, intrattenere. Il messaggio che passa è devastante: se chi possiede audience e autorevolezza ride, allora tutto diventa lecito. È lo stesso schema che, da anni, alimenta una degenerazione sistemica: si rilanciano le violazioni della vita intimaaltrui con titoli ammiccanti, si macinano clic, si conferisce legittimità a format privi dei requisiti minimi di verifica e responsabilità. E mentre questo accade, si finge di ignorare il punto centrale: non è “informazione alternativa”, ma un ecosistema che trasforma la reputazione in merce.
Ordine dei Giornalisti, mediocrità e danno reputazionale del Paese
In Italia c’è chi fa giornalismo molto bene e non è neppure iscritto all’Ordine; poi ci sono iscritti che sono sciacalli e avvoltoi, marchettari dell’informazione; infine, ci sono soggetti che non solo non sono iscritti, ma fanno comunque i giornalisti e infangano chi lavora con serietà. È anche per questo che, all’estero, il giornalismo italiano viene spesso guardato con diffidenza e molti bravi giornalisti non vogliono essere associati a un sistema percepito come corporativo, opaco e incapace di distinguere tra informazione e predazione come quello dell’ordine italiano.
Il silenzio dell’Ordine, quando esplodono casi del genere, completa il quadro: un’istituzione che dovrebbe garantire qualità e argini appare irrilevante proprio mentre la professione viene screditata dalla sua caricatura più tossica.
Il precedente Garlasco: intrusioni, documenti esibiti, culto disturbato
Chi oggi minimizza, dovrebbe guardare a ciò che è accaduto nel caso Garlasco. Lì Corona ha replicato lo stesso copione in forma ancora più brutale: accessi senza autorizzazione in spazi riservati di una comunità religiosa femminile, fino alle camere private di suore e sacerdoti anziani, con la trasformazione di beni e documenti personali in materiale da video e in pretesto per una narrazione scandalistica. Non è “cronaca”: è un elenco di illeciti che si muove dentro norme precise, dalla violazione di domicilio alle interferenze illecite nella vita privata, fino alla diffusione illecita di immagini/notizie e alla diffamazione aggravata. E non basta: in quel contesto si parla anche di ingresso durante una celebrazione eucaristica, con disturbo del rito e turbamento dei presenti, richiamando un profilo che il codice penale considera reato (art. 405 c.p.). In un Paese in cui la legge funziona ed è rispettata, la risposta istituzionale è immediata. In Italia, invece, la percezione è l’opposto: si può fare, si può continuare, e chi denuncia deve mettere in conto anni – se non decenni – prima di ottenere una tutela minima. È così che il diritto diventa un orizzonte remoto e l’impunità un rumore di fondo.
Quando la gogna tocca la sfera sessuale: la deriva più pericolosa
Qui non si parla di schermaglie. Quando si tocca la sfera intima e sessuale, gli effetti possono diventare devastanti: angoscia, stigma, isolamento, distruzione sociale. E in questo quadro è ancora più grave che si trasformino contenuti sessuali in “episodi” da vendere, o che si usi l’outing come leva di potere, perché è un’arma che colpisce la persona nel punto più vulnerabile. Non dimentichiamo che, nei mesi scorsi, Fabrizio Corona si è spinto fino a fare outing su alcuni calciatori senza che vi fosse alcuna giustificazione di interesse pubblico. In sostanza, cambiano i tempi e cambiano i mezzi, ma il copione resta identico: se prima colpiva con le foto, oggi lo fa con i video.
Il doppio standard: la Chiesa come bersaglio facile, il potere vero intoccabile
C’è infine una distorsione che merita di essere gridata. Quando queste cose avvengono ad opera di un ecclesiastico o in ambienti legati alla Chiesa cattolica, si scatena lo scandalo e si prende di mira il soggetto di turno, spesso senza alcun senso della proporzione e senza ricordare che dinamiche simili esistono in ogni luogo di potere. Eppure, se un prete può essere potente nel suo microcosmo, nel sistema grande è l’ultimo considerato: è il bersaglio perfetto, facile da demolire. Al contrario, figure inserite in circuiti più ampi e protetti vengono trattate con cautela o non vengono toccate affatto. Sulla questione, infatti, nei luoghi del potere è calato il silenzio. Il caso Signorini, consegnato al pubblico attraverso un metodo che vive di dileggio, ha fatto saltare ogni priorità: invece di affrontare seriamente i temi - potere, confini, responsabilità, tutela delle persone - si è scelta la scorciatoia della gogna. E quando la gogna diventa format, il danno non colpisce solo chi finisce nel tritacarne: colpisce il giornalismo, le istituzioni, e la possibilità stessa di parlare di questioni gravi con serietà, senza trasformarle in una farsa.
d.C.V.
Silere non possum