Molti rammenteranno le secolari contese di potere che, soprattutto nel corso del Medioevo, accesero i contrasti tra il clero secolare e quello regolare. Nella struttura della Chiesa, al clero secolare è da sempre affidata la cura delle diocesi e delle parrocchie, incarnando un'autorità che sovente si è estesa in ambito politico e sociale.

Il clero regolare, al contrario, affonda le sue radici nell’ispirazione di luminose figure quali Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi, che indicarono una via alternativa verso la salvezza, fondata sulla preghiera, sull’austerità e sul distacco dai beni terreni.
Il legame tra questi due "polmoni" della Chiesa non è mai stato privo di tensioni. Non di rado, i vescovi guardarono con sospetto il potere degli abati, specie quando i monasteri esercitavano giurisdizione su porzioni di popolazione, rivendicando così un'influenza che minacciava l’autorità episcopale. Di fronte a tali pressioni, i monaci cercarono rifugio in una più salda autonomia, dando origine ai monasteri sui iuris, sottoposti unicamente all’autorità pontificia. Tale legame diretto con la Sede Apostolica garantiva loro stabilità e indipendenza, sottraendoli ai mutevoli equilibri locali e alle pretese dei singoli ordinari. 

Negli ultimi tempi, poi, fra Concilio e Sinodo, i vescovi più moderni e francescani hanno iniziato a guardare con stizza "gli abati, in modo particolare quelli che portano lo zucchetto paonazzo ma non hanno il terzo grado dell'ordine". Le contraddizioni sono sempre di più, mentre si parla di laici impegnati e sinodalità, ci si accanisce contro chi può togliere "qualche pezzetto di potere". 

Eppure, se mutano i costumi e le forme esteriori, l’essenza delle passioni umane rimane immutata. Così, se un tempo i vescovi nutrivano invidia per le ricchezze monastiche, frutto di lasciti e donazioni di persone conquistate dalla fedeltà alla regola con cui operavano i monaci, ancor oggi si rinnovano analoghe tensioni. Paradossalmente, a tradire la tradizione monastica non è più soltanto il singolo vescovo, ma proprio colui che per secoli fu baluardo e rifugio per i monaci: il successore di Pietro.

Nel corso di questi dodici anni di pontificato
, il numero delle realtà monastiche e non che Papa Francesco ha sottoposto a commissariamento o condotto alla chiusura è divenuto ormai incalcolabile. La vita monastica, con la sua profondità contemplativa, sembra rimanere estranea alla sensibilità di un gesuita, e il Pontefice, giunto "dalla fine del mondo", lo ha dimostrato chiaramente. In questo lungo arco di tempo, l'azione di Bergoglio ha seguito una direzione univoca: chiudere, chiudere e ancora chiudere. Analoga sorte è toccata anche a diverse diocesi che sono state “unite”.

È innegabile che la crisi vocazionale abbia svuotato i seminari e che, come recentemente osservato anche dal nunzio apostolico in Italia, i vescovi diocesani esitino ormai a segnalare nuovi candidati all'episcopato. Tuttavia, è altrettanto vero che questo pontificato non si è distinto per iniziative volte a favorire le vocazioni. Dodici anni di incessanti invettive contro il clero — spesso tacciato di “frociaggine”, "clericalismo", di essere "arrampicatori", di "carrierismo", di seguire la "mondanità" e persino di "abusi" — non hanno certo reso attrattive le vie del sacerdozio per le nuove generazioni, dissuadendole dal varcare le soglie di monasteri e seminari.

L'abuso di potere

Venuta meno ogni forma di tutela normativa e relegato il Diritto Canonico all’oblio, la strategia prediletta per irrompere con prepotenza è ormai consolidata: l’artificio dell’accusa infondata. Ciò che si palesa, in modo particolare all’interno dei monasteri, è la triste constatazione che, nel corso di questi dodici anni, la Santa Sede ha costantemente trovato terreno fertile nei dissapori interni. Ogni ingerenza, infatti, ha avuto origine dalla voce di qualche animo represso che, tra denunce e lamentele, si è rivolto ai Dicasteri della Curia Romana. Anziché respingere tali istanze al mittente, vi è stato chi, a Santa Marta, ha colto l’occasione per insinuarsi e assumere il controllo della situazione. Eppure, i monasteri godono – e devono continuare a godere – di un’autonomia intrinseca e inviolabile. La Regola di San Benedetto, a differenza di questo pontificato nato neppure dodici anni fa, ha attraversato i secoli, solida e intatta, poiché il santo di Norcia seppe tracciare un cammino chiaro e duraturo, volto a garantire alla comunità la capacità di autogovernarsi. Se qualcosa non funziona si porta in capitolo e se i monaci prendono una decisione diversa da quella che il singolo si aspetta non può ricorrere alla Sede Apostolica, al massimo "alza i tacchi e se ne va".

Quanto accaduto nella comunità di Montecassino è un esempio significativo. Tutto ebbe inizio con accuse mosse contro l’abate Pietro Vittorelli, partite dall’interno e passate ai giornalai sciacalli, successivamente rivelatesi infondate, ma che, nel frattempo, ebbero conseguenze devastanti per la sua vita spirituale, psicologica e fisica. Fu proprio in seguito a queste accuse che la Santa Sede intervenne direttamente, provocando una faida all'interno della comunità monastica che si prestava addirittura ad interviste e chiacchiericci con giornalisti notoriamente anticlericali.

L’intervento del Papa portò alla nomina di Donato Ogliari come abate, una figura che introdusse un periodo di profonda aridità spirituale in questa abbazia, uno dei luoghi più simbolici della cristianità, dove sono custodite le spoglie di san Benedetto. Gli anni dell’abbaziato di Ogliari furono segnati da una crisi vocazionale senza precedenti: nessun giovane novizio fece ingresso nel monastero, mentre lo stesso Ogliari sembrava più concentrato a frequentare i Dicasteri vaticani nella speranza di ottenere la nomina episcopale tanto desiderata. Tale situazione è quella che ha portato recentemente il suo successore all’inevitabile scelta di ricorrere alla nomina di un priore proveniente da un'abbazia esterna.

Nel 2022, quando la comunità monastica elesse autonomamente il proprio abate, come previsto dalla Regola, la scelta cadde su P. Mauritius Wilde OSB. Tuttavia, il Papa respinse questa decisione e nominò invece un monaco non ancora sacerdote, Luca Fallica, designandolo “Abate territoriale di Montecassino”. Tale nomina suscitò non poche perplessità poiché, secondo il Diritto Canonico, per esercitare la funzione di “ordinario” è necessario aver ricevuto l’ordine sacro. Solo successivamente la Santa Sede intervenne per sanare l’irregolarità, predisponendo prima l’ordinazione diaconale e poi quella presbiterale. Molti si chiesero: non ha mai voluto essere ordinato ed ora che il Papa lo mette a capo dell’Abbazia più importante del mondo si fa ordinare? Tutte le belle considerazioni del Concilio Vaticano II sulla formazione e la valutazione dell’idoneità al Sacro Ordine dove sono finite? In pochi mesi Fallica, all’età di sessantaquattro anni ha fatto il discernimento che solitamente un seminarista fa in otto anni? 

Questi eventi hanno segnato profondamente la comunità di Montecassino, la quale si avvia verso la celebrazione dei 1500 anni di fondazione in uno stato veramente preoccupante. 

L’Abbazia di Farfa

L'abbazia di Santa Maria di Farfa, situata nel comune di Fara in Sabina, si è trovata a vivere la medesima dinamica. Un intreccio fra interessi economici e ambizioni personali sta compromettendo irrimediabilmente l’equilibrio di questa antica comunità monastica. A complicare ulteriormente il quadro vi è l'influenza di una figura già coinvolta in gravi scandali e controversie che hanno segnato la Chiesa siciliana.


Articolo a pagamento

L'articolo completo è disponibile solo per gli abbonati a pagamento di Silere non possum

Iscriviti per continuare a leggere