Abbiamo appena terminato un incontro del clero. Un confratello si avvicina a me e con un sorriso amaro afferma: «Ogni volta che ci parlano, sembra di essere tornati in seminario: sempre sotto esame, sempre bambini da correggere». È un’impressione diffusa: spesso la Chiesa parla ai suoi preti con un tono che sa più di rimprovero che di fiducia. Sono stati in particolare gli ultimi dodici anni che ci hanno fatto respirare questo paradosso. Leone XIV ha cambiato del tutto stile ed ha iniziato a puntare lo sguardo sugli aspetti positivi e se c’è qualche consiglio da offrire lo fa sempre con modalità paterne e non paternalistiche.

Ciò che mi chiedevo in questi giorni, però, è questo: davvero l’unico linguaggio possibile per qualcuno è solo quello paternalistico?

Il pericolo della voce dall’alto

Nell’epoca dei social media e della comunicazione onnipresente, la tentazione di apparire irreprensibili è fortissima. Articoli e post dipingono chi scrive come immune da errori, mentre il giudizio sugli altri diventa immediato e senza appello. Quando questa logica si insinua nella vita ecclesiale, gli effetti sono ancora più corrosivi: il sacerdote viene trattato come oggetto di scrutinio costante, e chi si rivolge a lui assume i tratti di un modello senza macchia. Non si tratta solo di critiche provenienti dal laicato, ma anche di atteggiamenti che nascono dentro la stessa gerarchia, da vescovi e confratelli incaricati della formazione, i quali finiscono spesso per parlare ai preti dall’alto di una presunta perfezione.

Eppure, la tradizione cristiana è attraversata da una consapevolezza opposta. Sant’Agostino, parlando al suo popolo, diceva: “Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo” (Serm. 340,1). L’atteggiamento del santo vescovo era proprio quello che sta caratterizzando Leone XIV. Egli non si poneva sopra, ma accanto: condivideva la stessa fragilità e la stessa necessità di grazia. Questo atteggiamento impedisce di cadere nel paternalismo: il vescovo non è il pedagogo di anime infantili, ma il fratello maggiore che, pur investito di una responsabilità, non smette di essere uomo.

Psicologia e pastorale: la consapevolezza della propria fragilità

La psicologia contemporanea ha insegnato che l’efficacia di una relazione – sia essa terapeutica, educativa o pastorale – dipende non dal porsi come maestri infallibili, ma dal riconoscere e comunicare la propria fallibilità. Carl Rogers, fondatore dell’approccio centrato sulla persona, sottolineava il valore dell’autenticità: non esiste cura senza che il terapeuta si presenti come realmente è, un essere umano vulnerabile, capace però di ascolto e comprensione.

Donald Winnicott, a sua volta, parlava del “sufficientemente buono”, ricordando che l’ideale di perfezione è non solo irraggiungibile, ma dannoso. Il terapeuta che pretende di essere impeccabile soffoca l’altro, lo infantilizza. Allo stesso modo, un sacerdote che riceve soltanto rimproveri interiorizza un senso di colpa che paralizza, invece di aprirsi alla fiducia. La psicologia, insomma, dimostra che la consapevolezza della propria umanità non indebolisce l’autorità: al contrario, la rende credibile. È questa consapevolezza a generare fiducia: chi si sente accolto nella propria fragilità trova più facilmente la forza di confidarsi e di affidarsi.

Tra giudizio e misericordia: la tentazione farisaica

Se si osserva con attenzione, l’atteggiamento paternalistico di alcune figure ecclesiali verso i suoi sacerdoti richiama da vicino quello dei farisei nei Vangeli: parlavano da una posizione di superiorità morale, incapaci di riconoscere la propria necessità di perdono. Gesù, invece, rovescia la logica: non teme di sedersi con i peccatori, non si pone come maestro distante, ma come colui che “ha avuto compassione” (Mt 9,36).

Ogni volta che assumiamo i toni di chi “sa tutto” e parliamo a chi “non sa nulla”, scivoliamo in una retorica moralisticache mortifica più che edificare. La vera autorità spirituale nasce dalla testimonianza, non dal giudizio: “Non perché io sia perfetto – dovrebbe dire il vescovo al suo presbiterio – ma perché insieme camminiamo verso la stessa meta”.

La complessità della vita sacerdotale

La vita di un prete non è mai riducibile a schemi semplicistici. È fatta di gioie, risultati, contraddizioni, fatiche, ferite: solitudine, rapporti pastorali difficili, conflitti interiori, errori e ripartenze. Trattare un presbitero come un eterno seminarista significa negargli la dignità della sua esperienza. È un po’ come rivolgersi a un genitore come se fosse un adolescente: non solo è inadeguato, ma persino offensivo.

Dostoevskij, nei suoi romanzi, non tratteggia mai personaggi perfettamente buoni o cattivi: l’uomo è un mistero ambivalente, fragile e grande insieme. Parlare ai preti come a bambini da raddrizzare è tradire questa complessità.

Dalla pedagogia al dialogo

Quello che più spesso manca in alcune relazioni ecclesiali è la capacità di un dialogo maturo. Le correzioni calate dall’alto e le ammonizioni paternalistiche non bastano: ciò che serve è un ascolto reale, capace di partire dalle esperienze concrete, di riconoscere le ferite e di dare spazio ai dubbi.

Un buon terapeuta non inizia mai una seduta elencando ciò che il paziente deve cambiare; piuttosto lo accompagna a esplorare ombre e risorse, senza giudicare. Così dovrebbe accadere anche nella Chiesa. Il prete non ha bisogno di sentirsi dire sempre che “è troppo legato ai pizzi”, che “non è abbastanza pastorale”, che “non si dedica abbastanza alla gente” o che “è poco docile alle richieste dei superiori”. Ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a scoprire che, dentro le sue fatiche, brilla ancora la grazia. È il passaggio dalla giudicante pedagogia del dovere alla relazione di fiducia.

Inoltre, il rapporto tra superiori e sacerdote non può ridursi esclusivamente al rimprovero o alla correzione. Come accade tra genitori e figli, c’è bisogno anche di momenti di gratitudine, di dialogo autentico. È necessario anche il “confronto fra pari. Oggi, invece, sembra che se in curia ci si dimentica di te sia considerato un segno positivo, perché almeno non crei problemi. Ma questa non è vera fraternità.

Una via possibile: umiltà e corresponsabilità

Come immaginare un nuovo stile nella formazione presbiterale? Forse con due parole: umiltà e corresponsabilità. Umiltà da parte di chi parla, che deve ricordare che la sua voce non è quella di un maestro impeccabile, ma di un fratello in cammino. Corresponsabilità, perché il clero cresce solo quando si sente parte attiva, non destinatario passivo di esortazioni sterili e paternalistiche. Il filosofo Paul Ricoeur ricordava che l’identità si costruisce nella tensione fra promessa e caduta, fedeltà e tradimento. Il sacerdote non sfugge a questa condizione. Il compito della Chiesa non è giudicarla, ma abbracciarla e accompagnarla.

Una Chiesa meno giudicante, più umana

La Chiesa è madre e maestra. Una madre sana, però, non infantilizza i figli adulti: li accompagna, li sostiene, li consola quando cadono, li incoraggia quando sono stanchi. Se diventa giudice, il rischio è di creare frustrazione e sfiducia. Forse è tempo di imparare quella lezione che psicologia, cultura e Scrittura ci hanno consegnato: solo chi riconosce la propria fragilità può aiutare gli altri a crescere. Parlare ai preti non come a bambini da rieducare, ma come a uomini adulti da sostenere, non è solo rispetto: è condizione necessaria perché il Vangelo diventi vita vissuta.

p.D.A. e F.P.
Silere non possum