Roma - Nelle scorse ore ci sono state reazioni scomposte alle parole del cardinale Matteo Maria Zuppi, soprattutto da quella parte di sedicenti cattolici che passano le loro giornate ad insultare l’uno o l’altro sui social o nelle sagrestie. La grande colpa del cardinale Zuppi sarebbe stata quella di aver detto: «Siamo alla fine della cristianità».

Questo, almeno, è ciò che hanno commentato gli odiatori da tastiera che hanno letto solo il titolo pubblicato da un quotidiano italiano. In realtà Zuppi ha affermato: «Francesco ha affrontato la fine della cristianità. Non ha fatto finta che la cristianità ci fosse. Non ha fatto finta di parlare di una Chiesa che non c’è più. Mi fanno ridere quelli che sostengono la Chiesa sia in crisi: lo scoprite adesso? Francesco ha cercato di rendere la Chiesa un posto accogliente per tutti: non perché mondana ma perché Chiesa. Finita la cristianità, non è però finito il Cristianesimo».

Ora, al di là del fatto che - a mio parere - non è stato Papa Francesco ad affrontare la fine della cristianità, perché da tempo viviamo in questa situazione, non è chiaro su cosa qualcuno si sia scandalizzato. Forse perché spesso, nella Chiesa, si reagisce a seconda di chi dice le cose, e non di che cosa viene detto. Eppure, che ci troviamo alla fine della cristianità, lo aveva detto molto prima Joseph Ratzinger, e prima ancora altri pensatori e pastori che avevano intuito la stessa dinamica: non è la fede a morire, ma la forma storica in cui si era incarnata.

Cristianità e cristianesimo: due realtà diverse

È necessario distinguere - come già faceva Romano Guardini - tra cristianità e cristianesimo. La cristianità è l’insieme delle strutture sociali, culturali e politiche nate dal cristianesimo: un’epoca in cui la fede plasmava le istituzioni, il diritto, l’arte e la vita quotidiana. Il cristianesimo, invece, è la fede stessa, l’incontro personale con Cristo, la sequela del Vangelo, che può vivere anche senza potere, senza consenso, persino senza visibilità. Come osservava Ratzinger in Fede e futuro, la crisi che attraversiamo non è anzitutto religiosa, ma strutturale e culturale: «Il mondo si è chiuso in se stesso… l’ipotesi di Dio non è più necessaria per la comprensione del mondo». E tuttavia, proprio in questa pretesa di autosufficienza, l’uomo finisce per scoprire il proprio vuoto. È la crisi della cristianità, non del cristianesimo: ciò che viene meno è un sistema di valori condiviso, non la verità della fede.

Scriveva ancora: «La fede non è un sistema di verità, ma un affidamento. La fede cristiana è “trovare un Tu che mi sostiene… la promessa di un amore indistruttibile”.» Quando il cristianesimo perde il suo guscio culturale, ritorna alla sua essenza: non una teoria, ma una relazione, un “io credo in Te”.

Il rischio di confondere la fede con il potere

Anche don Luigi Giussani, nel suo Il rischio educativo, osservava che il cristianesimo ha perso la capacità di mostrarsi come esperienza viva. «Viviamo in un’epoca in cui il cristianesimo è impallidito - scrive. Ci si muove su binari ricchi di “tradizione”, ma nello stesso tempo tradizionali, e li si percepisce come restrittivi». Il cristianesimo ridotto a codice morale o a struttura sociale diventa insopportabile, perché non corrisponde più al cuore dell’uomo. Giussani propone allora un ritorno alla esperienza, cioè alla fede come incontro che risponde alle esigenze del cuore: «Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente… non sarebbe una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto dice l’opposto». In questo senso, la fine della cristianità - la fine di un sistema di abitudini religiose, di privilegi, di potere culturale - è anche una purificazione: costringe la fede a ritrovare la sua origine.

Non una perdita, ma un ritorno

Ratzinger lo aveva intuito già nel 1969, in un passaggio che oggi suona quasi profetico: «La Chiesa perderà molto, diventerà piccola e dovrà ricominciare più o meno dagli inizi… ma rinascerà e sarà la Chiesa di Gesù Cristo.» Il futuro della fede - scriveva - non passerà attraverso potenza o numeri, ma attraverso la testimonianza di comunità interiormente rinnovate. In questa prospettiva, la fine della cristianità non è un lutto, ma una grazia: la Chiesa smette di confondere la propria missione con l’influenza sociale, per tornare al Vangelo nudo, al volto umano di Cristo. È una Chiesa più povera, forse più fragile, ma più libera. Una Chiesa che non pretende più di dominare la società, ma di servirla; che non difende più “le mura della cristianità”, ma riporta Cristo al cuore dell’uomo.

La fine che genera inizio

Sì, siamo alla fine della cristianità. Ma non del cristianesimo - e su questo il presidente della CEI, Matteo Zuppi, ha pienamente ragione. Anzi, forse solo ora il cristianesimo può davvero rinascere, liberato dai suoi orpelli culturali e dall’identitarismo di facciata. Non è la fine, ma un nuovo inizio: il passaggio dalla religione sociologica alla fede personale, dall’abitudine alla conversione, dalla forma alla sostanza. È quanto sta accadendo anche in Francia, la cosiddetta “laicissima” Francia, oggi attraversata da una crisi che non è solo strutturale, ma anche esistenziale. Eppure, proprio lì, cresce il numero di coloro che - dopo un cammino consapevole - chiedono di essere battezzati da adulti, segno di una fede ritrovata, non ereditata ma scelta. Come scriveva Ratzinger, «la fede cristiana vive di questo: del fatto che non esiste un’intelligenza pura, ma un’intelligenza che mi conosce e mi ama». È proprio in questa relazione viva che il cristianesimo continuerà a fiorire, anche quando la cristianità sarà soltanto una pagina di storia, consegnata ai manuali e alla memoria del passato.

d.F.A.
Silere non possum