Città del Vaticano - C’è un tratto che dovrebbe distinguere ogni Maestro delle Cerimonie Liturgiche degno di questo incarico: la capacità di scomparire. Sì, scomparire. Non nel senso dell’inefficienza, ma del vero servizio liturgico: essere invisibili affinché risplenda il Mistero, non l’ego.
Ma a quanto pare, nella Basilica di San Pietro, questo principio è ormai considerato obsoleto, una reliquia da museo preconciliare. L’ennesima conferma è arrivata durante la veglia eucaristica per il Giubileo degli influencer e dei missionari digitali. Una celebrazione che avrebbe dovuto essere solenne e centrata sull’Eucaristia… e che invece ha offerto uno spettacolo tragicomico.
Ragazzini in camice, telefonini e incompetenza
Sull’altare, i protagonisti erano i soliti ragazzini con amitto e camice, chiamati a fare “servizio” liturgico. Il tutto è frutto della gestione sciagurata di Mauro Gambetti, che ha favorito il proliferare di gruppetti di adolescenti in cerca di selfie da condividere e magari qualche “sponsorizzazione monsignorile”. La Basilica, da luogo sacro, è diventata il palcoscenico perfetto per chi vuole “vivere di apparenze” e accedere allo Stato della Città del Vaticano perché “fa figo”.
Purtroppo, peraltro, c’è chi non ha capito ancor oggi che l’amicizia e le altre esigenze non dovrebbero influenzare le scelte di nomine e incarichi.
E pensare che, fino a poco tempo fa, esisteva in Vaticano il Preseminario San Pio X, l’unica realtà vocazionale dentro lo Stato della Città del Vaticano. Ragazzi che si formavano, discernendo una possibile vocazione, e al contempo offrivano un servizio liturgico essenziale e competente nella Basilica. Ma Papa Francesco, il quale aveva già l’orticaria nel vedere ragazzini con mani giunte e talarina, col pretesto delle polemiche montate ad arte, ha colto l’occasione per cacciarli, chiudendo così l’unico spazio educativo vero nel cuore del cattolicesimo. Il risultato? Prima sbattuti fuori a Roma, poi rimandati a Como, da dove l’opera di Don Fulci è partita. Un atto che parla da solo.
Canonici e cerimonieri: l’era del pressapochismo e dell’amicizia
Nel frattempo, anche i canonici di San Pietro sono diventati un’altra pedina del nuovo corso gambettiano: figure che nulla hanno a che fare con l'idea del canonico degli anni passati, ovvero sacerdoti che avevano servito le loro diocesi o il Vaticano per una vita e trovavano nella Basilica un luogo di riconoscimento e quiete spirituale. Oggi invece, come sempre più spesso accade, vengono scelti per amicizie e legami personali, mica per merito o esperienza.
Mentre Papa Francesco tuonava contro gli arrampicatori, il suo pontificato ha visto proprio in Vaticano il terreno più fertile per il proliferare di quel sistema che a parole condannava. Un caso su tutti: don Crocifisso Tanzarella, il quale è giunto in Basilica a fare il Canonico con paonazza d’eccezione a quarant’anni. Quando non ci sono appuntamenti in Piazza Navona, Tanzarella ama rivestire il ruolo di Cerimoniere.
Durante la veglia di lunedì, don Crocefisso ha deciso di fare da cerimoniere all’arcivescovo di Madrid, José Cobo Cano. Il problema? Lo stesso di molti suoi “colleghi” improvvisati cerimonieri: non sanno stare al loro posto. E peggio ancora: non vogliono. Molti confondono l’amore per i pizzi e i merletti con la capacità liturgica. Ma non è affatto così. Ci sono diocesi dove ci sono celebrazioni con diciotto cerimonieri sull'altare e cinque concelebranti, se va bene.
Per anni si è criticato Mons. Guido Marini perché “non era un liturgista”. Ma Marini rappresentava l’essenza del cerimoniere: discrezione, precisione, invisibilità. Oggi invece il modello dominante è quello dei cerimonieri tracagnotti, paonazzi, sudati e ansiosi di visibilità.
E infatti, durante la celebrazione, Tanzarella — dopo aver ingaggiato i suoi soliti ragazzetti “non certo per competenza liturgica” — si è trovato a fare i conti con la loro disorganizzazione imbarazzante. Dovevano indicare il posto da occupare ai sacerdoti presenti: non lo hanno fatto. E così lui ha mollato l’arcivescovo ai piedi dell’altare, e ha cominciato a saltellare nervosamente per indicare ai preti dove sedersi. Scena surreale: il cardinale fermo da solo, Tanzarella che si agita come un sacrestano in panico.
“Sparire” è impossibile… anche per costituzione
Durante l’adorazione eucaristica, Tanzarella guardava in giro spaesato. E al momento dell’esposizione del Santissimo? Si è trasformato in diacono. Sì, proprio così: da cerimoniere a diacono, come se fosse una recita di fine anno. L’arcivescovo? Ancora lasciato solo come un fermaporta. Il problema non è solo di ordine estetico o organizzativo. La presenza di cerimonieri-factotum, che arrivano perfino a concelebrare, rivela una questione ben più profonda e inquietante. Il ruolo liturgico si è trasformato in performance, la formazione in improvvisazione, il servizio in protagonismo. E tutto questo accade anche nella chiesa madre della cattolicità, sotto gli occhi di chi dovrebbe custodirne la dignità.
La solitudine: un problema da affrontare
Forse è davvero giunto il momento di interrogarsi sulle dinamiche psicologiche di chi ambisce con insistenza a certi ambienti che, in realtà, non offrono alcuna vera soddisfazione pastorale o ministeriale. Luoghi in cui l’unico capitale è quello delle connessioni (non sono certo relazioni), o meglio, strumentale. Perché le connessioni che lì si coltivano non nascono da stima reciproca o da affetto sincero, ma da un mero calcolo: sono utili, finché servono. Basti pensare a chi da anni è noto per la sua abilità nel condurre in Cappella Sistina personaggi che si fingono amici solo per ottenere l’accesso a visite “esclusive”, da esibire poi con orgoglio sui social. Senza nemmeno accorgersene, finiscono per circondarsi di personaggi che, appena girato l’angolo, li deridono in diretta su TikTok, li diffamano parlando di loro al femminile e li calunniano con soprannomi grotteschi e umilianti. Alla fine, però, restano soli, perché quelle relazioni sono fittizie, fondate non su merito, competenza o affetto sincero, ma solo sulla capacità di spalancare una porta riservata. E quando quel ruolo viene meno, anche il “legame” svanisce.
d.L.E.
Silere non possum