Roma - Se qualcuno nutrisse ancora dubbi sulla necessità di una riforma profonda della magistratura italiana, gli basterebbe trascorrere qualche giorno nelle procure del Paese — e in particolare in quella di Roma — per rendersene conto. Troppo spesso, infatti, i magistrati sembrano muoversi non secondo le regole del codice di procedura penale, ma seguendo logiche di amicizie, relazioni o convenienze personali. Ci sono fascicoli dimenticati sulle scrivanie, procedimenti che non avanzano, cancellieri che evadono le richieste dopo mesi, e una burocrazia caotica che confonde tutto: chiedi le copie di un fascicolo e ti inviano quelle di un altro, telefoni e nessuno risponde, presenti una denuncia e puoi solo sperare che il pubblico ministero non sia amico del querelato.
Un sistema che assomiglia sempre più a un circo giudiziario. Nel frattempo, le vittime di violenza attendono giustizia, mentre chi non appartiene ai circuiti giusti subisce pressioni e intimidazioni. Un copione ormai consueto: la solita storia all’italiana, dove la legge vale, ma non per tutti.
Per chi non avesse tutto questo tempo da perdere, è sufficiente accendere la televisione. Un Procuratore della Repubblica, in diretta televisiva, legge un post pescato dai social e lo spaccia per un’intervista autentica di Giovanni Falcone. L’episodio, accaduto durante una trasmissione italiana, è di per sé eloquente: il Procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, noto per la quantità di procedimenti avviati e per le sue frequenti incursioni nel dibattito politico più che giuridico, ha citato una frase che Falcone non ha mai pronunciato. “Una separazione delle carriere può andar bene se resta garantita l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero. Ma temo che si voglia, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all'esecutivo. Questo è inaccettabile”.
Gratteri afferma che si tratti di un passo di un’intervista del
25 gennaio 1992. Peccato che quell’intervista
non esista. Nessuna traccia negli archivi dei giornali, nessun riscontro nelle interviste note, nessuna testimonianza dei collaboratori di Falcone. E, soprattutto, nessuna coerenza con il suo stile:
Falcone non parlava mai per slogan, non semplificava concetti complessi in frasi da manifesto.
Il vero Falcone: la complessità come metodo
Basta aprire gli archivi per ritrovare il pensiero autentico del magistrato palermitano. In una lunga intervista concessa a Giuseppe D’Avanzo e pubblicata su la Repubblica il 26 settembre 1990, Falcone rispondeva con disarmante chiarezza a una domanda oggi considerata blasfema: “Sta sostenendo che il pm deve essere non più dipendente dal Giudiziario ma ricadere nella sfera dell’Esecutivo?”
La replica di Falcone è sorprendente per lucidità e coraggio: “So che questa è un'accusa. Bene, di per sé non mi scandalizzerebbe un PM dipendente dall'esecutivo. Non stiamo discutendo di categorie immutabili, ma di scelte di politica legislativa. Ciò che va bene in un paese può non andare bene in un altro e l'Italia è uno dei pochissimi paesi dove la pubblica accusa non è dipendente dall'esecutivo. Tuttavia, ciò non è servito un granché nella lotta contro la criminalità organizzata. Anch'io, comunque, sono convinto che, nell'attuale momento storico, l'indipendenza del PM vada salvaguardata e protetta. Ma l'indipendenza non è un privilegio di casta.”
Immaginiamo oggi un magistrato che, in pubblico, dichiari che “non si scandalizzerebbe” per un pubblico ministero dipendente dall’esecutivo: verrebbe crocifisso dai colleghi, soprattutto da ANM. Eppure, Falcone osava pensare. Ragionava senza timori, senza inginocchiarsi davanti ai dogmi corporativi, senza la preoccupazione di piacere alla platea.
Un processo nuovo, carriere da ridefinire
Alla fine degli anni Ottanta, l’Italia cambiava il proprio processo penale. La riforma Vassalli introduceva il modello accusatorio: il pubblico ministero diventava una “parte” e non più un giudice tra i giudici. Di conseguenza, il giudice doveva restare neutrale, non contaminato da una cultura comune o da carriere intrecciate. Falcone aveva ben chiaro il punto. Nel 1991, sempre su la Repubblica, spiegava: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice.”
E aggiungeva: “Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri.” Già nel 1988, appena varato il nuovo codice, Falcone aveva ammonito: “In un codice che accentua vistosamente le caratteristiche di parte del pm, è impossibile pensare che le carriere dei magistrati del pubblico ministero e quelle dei giudici potranno rimanere ancora a lungo indifferenziate.”
Era una presa di posizione limpida: se il processo cambia, anche la struttura della magistratura deve cambiare. Altrimenti il sistema resta ibrido e incoerente.
Gli argomenti che oggi nessuno osa toccare
Falcone non si fermava alla separazione delle carriere. In un intervento pubblico del 1990 aveva elencato, con precisione chirurgica, tutto ciò che andava rimesso in discussione: “Io credo che bisognerà ridiscutere ed approfondire tutti i vecchi problemi di sempre: i criteri di addestramento e aggiornamento professionale del pm, la stessa unicità delle carriere con quella dei giudici, i criteri di valutazione e di progressione in carriera, il conferimento degli incarichi direttivi, la eventuale temporaneità degli stessi; la personalizzazione o meno degli Uffici del pm; i controlli istituzionali e le correlative responsabilità dei magistrati. Non possono esistere argomenti-tabù e difese quasi sacrali di istituti, come ad esempio quello dell'obbligatorietà dell'azione penale.”
Parole che oggi suonerebbero eretiche. Falcone non voleva zone franche, non accettava dogmi di casta. Riteneva che ogni istituto giuridico dovesse essere oggetto di riflessione, non di culto. Falcone non faceva ideologia. Aveva la concretezza di chi sapeva che un sistema giudiziario credibile si costruisce con regole chiare, non con le mitologie.
Mistificare Falcone: l'errore più grave
La frase letta da Gratteri serve a un fine preciso: dipingere Falcone come paladino dell’attuale sistema, contrario alla separazione delle carriere per paura di un controllo politico. Ma la verità è opposta. Falcone non aveva paura del confronto, né del cambiamento. Non si scandalizzava di ipotesi scomode, non brandiva la toga come scudo corporativo. Aveva un’idea alta della magistratura, ma non la considerava una casta. Quando diceva che “l’indipendenza non è un privilegio di casta”, ricordava ai colleghi che il potere di indagare e giudicare deve essere bilanciato da responsabilità, non da autoreferenzialità. Chi oggi gli mette in bocca frasi mai dette, chi inventa interviste inesistenti, chi trasforma il suo pensiero in una bandiera per difendere l’immobilismo, non lo celebra: lo tradisce. Falcone non voleva essere un’icona di comodo. Voleva che si leggessero le sue parole, che si studiassero le sue proposte, che si ragionasse sui suoi dubbi.
Il vero rispetto
Le parole autentiche di Falcone sono tutte lì: negli archivi, nei verbali dei convegni, nelle interviste firmate. Non servono ricostruzioni creative né citazioni da social. Serve onestà intellettuale. E sorge anche una domanda, scomoda ma inevitabile: se Nicola Gratteri conduce le sue inchieste con la stessa cura con cui verifica le fonti prima di leggere in diretta nazionale una falsa intervista di un eroe dello Stato, si spiegano molte cose sullo stato della giustizia in Italia.
I.A.
Silere non possum