Ogni epoca si illude di aver capito la tradizione, ma ben poche possono dire di essere riuscite davvero a viverla. La nostra non fa eccezione: è precipitata nel paradosso di dividersi tra nostalgici del già stato e profeti dell’inedito, senza accorgersi che entrambe le posizioni si fondano sulla stessa distorsione. Chi guarda indietro pretende di custodire ciò che non usa più, come si conservano gli oggetti fragili nelle vetrinette del salotto buono; chi guarda avanti immagina che la tradizione sia solo un ostacolo alla creatività, qualcosa da superare per poter respirare. Nessuno dei due, però, si accorge che il vero dramma non riguarda né il passato né il futuro, ma il presente. Perché la tradizione, quando è davvero tale, non appartiene al passato e non anticipa il futuro: accade. Accade adesso, nell’incontro tra una parola ricevuta e una libertà che risponde.
La confusione nasce dall’aver creduto che la tradizione fosse un oggetto. Si discute della tradizione come si discuterebbe di una dottrina, di una consuetudine, di un insieme di regole: la si difende, la si corregge, la si ripara, la si sposta, la si storicizza. Ma la tradizione non è un mobile antico da sistemare o da rottamare. È un gesto. È un avvenimento che si trasmette. È la continuità vivente di una esperienza che ha attraversato i secoli non perché custodita gelosamente, ma perché vissuta. Ogni volta che la si arresta nel passato, la si svuota; ogni volta che la si trasforma in un pretesto per l’innovazione, la si smarrisce. In entrambi i casi si perde l’essenziale: la tradizione non è un oggetto, ma una relazione.
Nella vita della Chiesa questo fraintendimento ha conseguenze profonde. Quando la tradizione viene trattata come un insieme di forme da preservare, si irrigidisce. Diventa formalismo, diventa rito senza corpo, diventa nostalgia che non si riconosce nostalgica. L’ossessione per il già stato impedisce di vedere ciò che accade adesso, impedisce di giudicare il presente, impedisce di lasciarsi ferire dalle domande che custodiamo e che chiedono risposta. Conservare per conservare non è fedeltà: è paura. E la paura rende immobili. Non genera discernimento, genera soltanto ripetizione. Il tradizionalismo nasce esattamente qui: nel momento in cui la fedeltà viene scambiata per riproduzione meccanica, in cui il passato viene idolatrato perché non si sa più decifrare il presente.
Ma anche la tentazione opposta è figlia dello stesso errore. Quando si immagina che la tradizione sia un peso, che sia responsabile dei ritardi o delle rigidità, che sia la radice delle fatiche attuali, allora si è già rinunciato a comprendere cosa essa realmente sia. Chi pensa che per essere liberi occorra liberarsi della tradizione non si accorge che così facendo scardina proprio ciò che permette alla libertà di avere un criterio. Senza tradizione, la libertà diventa impulso, non giudizio; diventa reazione, non scelta; diventa volatilità, non cammino. La vera cancellazione della tradizione non produce modernità, ma smarrimento. E lo smarrimento, nella vita ecclesiale, si traduce in una comunità che non sa più riconoscere ciò che accade.
La tradizione, invece, è l’ipotesi di lavoro con cui si affronta la realtà. Non per ripetere il passato, ma per verificare se ciò che ci è stato consegnato continua a generare vita. È un deposito solo nel senso in cui un seme è un deposito: non è fatto per essere guardato, ma per essere interrato. Produce frutto solo se viene usato, e usarlo implica rischio, giudizio, libertà. La tradizione è il modo con cui una parola venuta da lontano continua a risuonare adesso. È l’incontro tra memoria e presente, un incontro che non può essere neutralizzato né dalla nostalgia né dalla frenesia del nuovo.
Per questo la vera alternativa non è tra chi difende e chi innova. La vera alternativa è tra ciò che è vivo e ciò che è morto. Tra ciò che è relazione e ciò che è ideologia. Tra ciò che accompagna e ciò che irrigidisce. Il tradizionalismo è l’ombra della tradizione: le assomiglia, la imita, la scimmiotta, la richiama, ma la rende sterile. La tradizione vive solo se continua a generare vita; il tradizionalismo sopravvive solo se continua a difendere forme che non sa più verificare. E mentre la tradizione apre, il tradizionalismo chiude. Mentre la tradizione libera, il tradizionalismo incatena. Mentre la tradizione giudica il tempo, il tradizionalismo si limita a giudicare gli altri.
Stiamo vivendo trasformazioni radicali e la tradizione non può essere il rifugio dei timorosi né la trincea dei conservatori, ma è l’orizzonte in cui il presente può essere riconosciuto. Senza tradizione si perde la continuità, senza libertà si perde la verità. La tradizione è l’unico luogo in cui queste due esigenze non si elidono ma si sostengono reciprocamente. È un cammino, non un recinto. È una promessa che continua a compiersi, non una reliquia da venerare. La sfida oggi non è salvare la tradizione dal mondo moderno, né salvare il mondo moderno dalla tradizione. La sfida è riconoscere ciò che accade, e permettergli di generare ancora. Perché ciò che è vero non teme il tempo: lo attraversa. E ciò che è vivo non chiede di essere protetto: chiede di essere seguito.
d.R.P.
Silere non possum