Sabato 28 settembre 2024, durante il suo 46° Viaggio Internazionale, Papa Francesco ha lasciato il campus dell’«Université Catholique de Louvain» per arrivare, intorno alle 18,15, al «Collège Saint-Michel», un istituto scolastico cattolico gestito dalla Compagnia di Gesù, situato a Etterbeek, Bruxelles. Qui ha avuto luogo un incontro con circa 150 membri della Compagnia di Gesù, residenti in Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Con loro c’erano il provinciale della Provincia dell’Europa occidentale francofona, Rev.do p. Thierry Dobbelstein, e il superiore della Regione indipendente dei Paesi Bassi, Rev.do p. Marc Desmet. Era presente anche il cardinale gesuita Michael Czerny, prefetto del Dicastero per lo sviluppo umano integrale

Buonasera a tutti! Sono stato qui in questo luogo altre due volte in passato e mi fa piacere tornarvi. Devo dirvi la verità: una volta qui ho commesso un furto. Andavo a celebrare la Messa, e ho visto un plico di fogli che mi ha incuriosito. Erano dispense di lezioni sul libro di Giobbe. Quell’anno in Argentina dovevo fare lezioni proprio su Giobbe. Ho sfogliato le pagine e mi hanno colpito. Alla fine, quegli appunti me li sono presi!

Papa Francesco, siamo molto felici che lei sia qui in Belgio. Lei è molto, molto benvenuto. Le porremo delle domande, che speriamo siano interessanti e intelligenti. Qui ci sono il provinciale della Provincia dell’Europa occidentale francofona e il superiore della regione indipendente dei Paesi Bassi. Questa terra è un vero e proprio crocevia, e anche i gesuiti che si trovano qui sono molto diversi tra loro: alcuni vengono dalla Conferenza dei provinciali europei dei gesuiti, poi ci sono i francofoni e i fiamminghi. Lei sa che quando va a trovare una comunità di gesuiti, non si trova mai davanti a fotocopie! Ecco, qui non lo siamo affatto. E parliamo pure lingue diverse. Il 13 marzo 2013 è iniziata una bella avventura di speranza e di rinnovamento nella Chiesa. Vogliamo che sia un momento informale e conviviale. In Olanda abbiamo una parola tipica per questo: «gezellig». È difficile da tradurre: può essere tradotta come «convivialità», «atmosfera accogliente» o anche «buon umore», a seconda del contesto. Ecco: è la parola giusta per noi in questo momento. E per questo vogliamo cantare insieme il canto «En todo amar y servir».

Santo Padre, qual è la missione specifica dei gesuiti in Belgio?

Guarda, non conosco bene la vostra situazione, e quindi non so dire quale debba essere la vostra missione in questo contesto specifico. Ma posso dirti una cosa: il gesuita non deve spaventarsi di nulla. È un uomo in tensione tra due forme di coraggio: coraggio di cercare Dio nella preghiera e coraggio di andare alle frontiere. Questa è davvero la «contemplatività» nell’azione. Credo che sia proprio questa la missione principale dei gesuiti: immergersi nei problemi del mondo e lottare con Dio nella preghiera. C’è una bella allocuzione di san Paolo VI ai gesuiti all’inizio della Congregazione Generale XXXII: nei crocevia delle situazioni complesse c’è sempre un gesuita, diceva. Quella allocuzione è un capolavoro e dice chiaramente ciò che la Chiesa vuole dalla Compagnia. Vi chiedo di leggere quel testo. Lì troverete la vostra missione. 

Vivo ad Amsterdam, una delle città più secolarizzate del mondo. Il padre Generale Adolfo Nicolás disse una volta che sognava di dare gli Esercizi spirituali agli atei. Nel nostro Paese l’ateismo è la norma più che l’eccezione. Ma vogliamo dare la ricchezza della nostra vita spirituale a tutto il nostro prossimo, davvero a tutti, come lei dice: «Todos, todos, todos». Come possiamo arrivare a questo livello profondo di inculturazione?

Il limite dell’inculturazione lo troviamo studiando gli inizi della Compagnia. I vostri maestri siano p. Matteo Ricci, p. Roberto De Nobili, e gli altri grandi missionari che pure hanno spaventato alcuni nella Chiesa per la loro azione coraggiosa. Questi nostri maestri hanno tracciato il limite dell’inculturazione. Inculturazione della fede ed evangelizzazione della cultura vanno sempre insieme. Dunque, qual è il limite? Non c’è un limite fisso! Lo si deve cercare nel discernimento. E si discerne pregando. Mi colpisce, e lo ripeto sempre: nel suo ultimo discorso p. Arrupe diceva di lavorare sulle frontiere e insieme di non dimenticare mai la preghiera. E la preghiera del gesuita si sviluppa nelle situazioni limite, difficili. Questa è la cosa bella della nostra spiritualità: rischiare.

Nell’Europa occidentale conosciamo bene la secolarizzazione. Le nostre società sembrano lontane da Dio. Che fare?

La secolarizzazione è un fenomeno complesso. Io percepisco che a volte dobbiamo confrontarci con forme di paganesimo. Non c’è bisogno della statua di un dio pagano per parlare di paganesimo: l’ambiente stesso, l’aria che respiriamo è un dio pagano gassoso! E noi dobbiamo predicare a questa cultura con la testimonianza, il servizio e la fede. E da dentro lo dobbiamo fare con la preghiera. Non c’è bisogno di pensare a cose molto sofisticate. Pensate san Paolo ad Atene: gli è andata male, perché ha percorso una via che non era la sua in quel momento. Io la vedo così. Noi dobbiamo essere aperti, dialogare, e nel dialogo aiutare con semplicità. E ciò che rende il dialogo fruttuoso è il servizio. Purtroppo, io trovo spesso nella Chiesa un forte clericalismo, che impedisce questo dialogo fruttuoso. E, soprattutto, dove c’è clericalismo non c’è il servizio. E, per carità, non confondete mai evangelizzazione con proselitismo!

È della spiritualità e della teologia dei gesuiti dare spazio al cuore: il Verbo si è fatto carne! Ma spesso, purtroppo, non diamo lo spazio giusto al cuore. Questa carenza, a mio avviso, è una delle cose che poi produce forme di abuso. E poi vorrei farle una domanda circa la difficoltà di dare alla donna nella Chiesa un posto più giusto e adeguato.

Ripeto spesso che la Chiesa è donna. Vedo la donna nel cammino dei carismi, e non voglio limitare il discorso del ruolo della donna nella Chiesa al tema del ministero. Poi, in generale, maschilismo e femminismo sono logiche di «mercato». In questo tempo sto cercando sempre di più di far entrare le donne in Vaticano con ruoli di responsabilità sempre più alta. E le cose stanno cambiando: lo si vede e lo si sente. La vicegovernatrice dello Stato è una donna. Poi il Dicastero per lo sviluppo umano integrale ha anch’esso come vice una donna. Nell’«équipe» per la nomina dei vescovi ci sono tre donne, e da quando ci sono loro che selezionano i candidati, le cose vanno molto meglio: sono acute nei loro giudizi. Nel Dicastero per i religiosi la vice è una donna. La vice del Dicastero per l’economia è una donna. Le donne, insomma, entrano in Vaticano con ruoli di alta responsabilità: proseguiremo su questa strada. Le cose funzionano meglio di prima. Una volta ho incontrato la presidente Ursula von der Leyen. Parlavamo di un problema specifico, e io le chiesi: «Ma lei come fa a gestire questo genere di problemi?». Lei mi rispose: «Così come facciamo tutte noi madri». La sua risposta mi ha fatto molto riflettere…

Nella nostra società così secolarizzata è difficile trovare ministri. Come vede il futuro delle comunità parrocchiali senza preti?

La comunità è più importante del prete. Il prete è un servitore della comunità. In alcune situazioni che conosco in varie parti del mondo si cerca dentro la comunità chi possa svolgere un ruolo di guida. Ma, ad esempio, ci sono anche religiose che si assumono questo impegno. Sto pensando a una Congregazione peruviana di suore che hanno una loro missione specifica: quella di andare in quelle situazioni dove non c’è il prete. Loro fanno tutto: predicano, battezzano… Se alla fine viene inviato un prete, allora se ne vanno da un’altra parte.

È il 600° anniversario dell’Università di Lovanio. Ci sono alcuni gesuiti che vi lavorano e ci sono studenti gesuiti che studiano lì e vengono dal mondo intero. Qual è il suo messaggio per i giovani gesuiti che sono destinati all’apostolato intellettuale al servizio della Chiesa e del mondo?

L’apostolato intellettuale è importante ed è parte della nostra vocazione di gesuiti, che devono essere presenti nel mondo accademico, nella ricerca e anche nella comunicazione. Sia chiaro: quando le Congregazioni Generali della Compagnia di Gesù dicono di inserirsi nel popolo e nella storia non significa «fare il carnevale», ma inserirsi nei contesti anche più istituzionali, vorrei dire, con qualche «rigidità», nel buon senso della parola. Non bisogna cercare sempre l’informalità. Grazie per questa domanda, perché lo so che a volte c’è la tentazione di non andare per questa via. Un campo molto importante di riflessione è quello della teologia morale. In questo campo oggi ci sono tanti gesuiti che studiano, aprendo cammini nell’interpretazione e ponendo nuove sfide. Non è facile, lo so. Ma esorto i gesuiti ad andare avanti. Sto seguendo un gruppo di gesuiti moralisti, e vedo che fanno molto bene. E poi mi raccomando le pubblicazioni! Le riviste sono molto importanti: quelle come Stimmen der Zeit, La Civiltà Cattolica, Nouvelle Revue Théologique

Mi chiedo a che punto sia il processo di canonizzazione di Henri De Lubac e di Pedro Arrupe.

La causa di Arrupe è aperta. Il problema è la revisione dei suoi scritti: lui ha scritto tanto, e l’analisi dei suoi testi richiede tempo. De Lubac è un grande gesuita! Io lo leggo spesso. Non so, però, se la sua causa sia stata introdotta. Ne approfitto per dirvi che sarà introdotta la causa del re Baldovino, e l’ho fatto io direttamente, perché mi sembra che qui ci si muova in questo senso.

Le pongo la mia domanda nell’idioma di Mafalda. Lei ha un programma molto intenso: appena finisce la sua visita in Belgio, inizierà il Sinodo. Lei presiederà una celebrazione di riconciliazione all’inizio. Così animerà la Chiesa e la sua missione di riconciliazione nel nostro tormentato mondo, come lo chiede san Paolo ai Corinzi. Ma la stessa comunità ecclesiale chiede di essere riconciliata in sé stessa per essere ambasciatrice di riconciliazione nel mondo. Noi stessi abbiamo bisogno di relazioni sinodali, di un discernimento riconciliatore. Quali passi dobbiamo fare?

È molto importante la sinodalità. Occorre che la costruzione non sia dall’alto al basso, ma dal basso all’alto. Non è facile la sinodalità, no, e a volte perché ci sono figure di autorità che non fanno emergere il dialogo. Un parroco può prendere da solo le decisioni, ma può prenderle con il suo consiglio. E così un vescovo, e anche il papa. È davvero importante capire che cos’è la sinodalità. Paolo VI, dopo il Concilio, ha creato la Segreteria del Sinodo per i vescovi. Gli orientali non hanno perso la sinodalità, noi l’abbiamo persa. Così, per impulso di Paolo VI, siamo andati avanti fino al 50° anniversario che abbiamo celebrato. E adesso siamo arrivati al Sinodo sulla sinodalità, dove le cose saranno chiarite proprio col metodo sinodale. È una grazia la sinodalità nella Chiesa! L’autorità si fa nella sinodalità. La riconciliazione passa per la sinodalità e il suo metodo. E, d’altra parte, non possiamo essere davvero Chiesa sinodale senza riconciliazione.

Sono impegnato nel «Jesuit Refugee Service». Stiamo seguendo due tensioni forti. La prima è la guerra in Ucraina. I nostri ragazzi mi hanno dato per lei una lettera e un quadro di san Giorgio. L’altra tensione è nel Mediterraneo, dove vediamo che molta politica parla di frontiera, di sicurezza. Che consiglio vuol dare al «Jesuit Refugee Service» e alla Compagnia?

Il problema della migrazione deve essere affrontato e studiato bene, e questo è vostro compito. Il migrante deve essere ricevuto, accompagnato, promosso e integrato. Non deve mancare nessuna di queste quattro azioni, altrimenti è un problema serio. Un migrante che non è integrato finisce male, ma finisce male anche la società nella quale si ritrova. Pensate, ad esempio, a quel che è accaduto a Zaventem, qui in Belgio: quella tragedia è anche frutto di una mancata integrazione. E questo lo dice la Bibbia: bisogna prendersi cura della vedova, del povero e dello straniero. La Chiesa deve prendere sul serio il lavoro con i migranti. Io conosco il lavoro di «Open Arms», ad esempio. Nel 2013 sono stato a Lampedusa per fare luce sul dramma migratorio. Ma aggiungo una cosa che mi sta a cuore e che sto ripetendo spesso: l’Europa non ha più figli, sta invecchiando. Ha bisogno dei migranti perché si rinnovi la vita. È diventata ormai una questione di sopravvivenza.

Santo Padre, quali sono le sue prime impressioni del suo viaggio in Belgio e Lussemburgo?

Sono stato solo un giorno in Lussemburgo, e ovviamente non si può capire un Paese in un solo giorno! Ma è stata per me una bella esperienza. In Belgio ero stato altre volte, come vi ho detto. Ma, alla fine di questo incontro, vi chiedo, per favore, di non perdere la forza evangelizzatrice in questo Paese. Dietro la lunga storia cristiana, oggi si può nascondere una certa atmosfera «pagana», diciamo così. Non vorrei essere frainteso, ma il rischio oggi è che la cultura qui sia un po’ pagana. La vostra forza è nelle piccole comunità cattoliche, che non sono affatto fiacche: io le vedo missionarie, e vanno aiutate.

Il Papa ha lasciato la sala dell’incontro dopo un’ora di conversazione. Prima di uscire, ha recitato un’«Ave Maria» con tutti e poi ha dato la sua benedizione. Alla fine, ha fatto una foto di gruppo. Successivamente, sullo stesso piano della sala dell’incontro, ha visitato la prestigiosa biblioteca della Società dei Bollandisti, la cui missione è quella di ricercare, pubblicare nello stato originale e commentare tutti i documenti che riguardano la vita e il culto dei santi. Ideata nel 1607 dal gesuita Héribert Rosweyde (1569-1629) e fondata ad Anversa dal padre Jean Bolland (1596-1665), è portata avanti ancora oggi da alcuni gesuiti belgi. Francesco ha dato la sua benedizione e ha scritto sul libro d’onore le seguenti parole: «Que el Señor los siga acompañando en la tarea de hacer conocer la historia de la Iglesia y de sus Santos. Con mi bendición. Fraternalmente, Francisco» («Che il Signore continui ad accompagnarvi nel compito di far conoscere la storia della Chiesa e dei suoi Santi. Con la mia benedizione. Fraternamente, Francesco»).