Diocesi di Ivrea

Sabato 15 febbraio 2025 S.E.R. Mons. Daniele Salera ha fatto il suo ingresso e la presa di possesso canonico della diocesi di Ivrea. Alla cerimonia hanno preso parte, oltre ai molti presbiteri, anche gli Eminentissimi Signori Cardinali Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo metropolita di Siena-Colle di Val d'Elsa-Montalcino e vescovo di Montepulciano-Chiusi-Pienza; Baldassare Reina, vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma; Fabio Baggio, C.S., sottosegretario del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale; Arrigo Miglio, arcivescovo emerito di Cagliari e Roberto Repole, arcivescovo metropolita di Torino. Alla celebrazione hanno preso parte anche i vescovi della regione ecclesiastica Piemonte. 

Da Roma, oltre al cardinale vicario, hanno accompagnato Mons. Salera ed hanno con lui condiviso questo momento importante per la sua vita di uomo e di vescovo, S.E.R. Mons. Paolo Ricciardi, vescovo eletto di Jesi; S.E.R. Mons. Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma; S.E.R. Mons. Dario Gervasi, segretario aggiunto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita e S.E.R. Mons. Michele Di Tolve, vescovo ausiliare di Roma. La presenza di questi cardinali e vescovi è un segno dei legami che Mons. Salera ha curato durante gli anni del suo ministero a servizio della Chiesa di Roma, prima come presbitero e poi come vescovo ausiliare. Mentre Renato Tarantelli era impegnato a calunniare i propri confratelli e ad ambire a titoli, cariche e incarichi, questi vescovi hanno tentato in ogni modo di creare un clima di fraternità all'interno di un consiglio episcopale che era chiaramente fratturato per la presenza di personaggi come l'attuale vicegerente, il quale per fortuna non ha preso parte a questo celebrazione. Il fatto che un vescovo ausiliare come Ambarus abbia preso parte ad una celebrazione a 700 km di distanza da Roma e non ha voluto partecipare ad una celebrazione nella propria cattedrale un motivo c'è. 

S.E.R. Mons. Edoardo Cerrato, amministratore apostolico di Ivrea, ha detto: «Io Le consegno il “pastorale” – simbolo della Sua missione di Pastore – ma nella certezza che è Gesù Cristo, Signore e Sposo della Chiesa, a consegnarLe questa «porzione del popolo di Dio affidata alle [sue] cure pastorali».

Le auguro, Eccellenza, un ministero fervido e lieto, benedetto da Dio e fortificato dalla materna protezione della Vergine Assunta e dei nostri Santi; Le assicuro la mia preghiera quotidiana per Lei e per questa Chiesa alla quale rimango spiritualmente legato per la comunione nel cammino di fede e nell’amore fraterno. E Le assicuro il mio filiale affetto nel più profondo rispetto della Sua missione».


Nella sua omelia, Monsignor Salera ha ricordato: «Consideriamo inoltre che il ministero del vescovo, per quanto debba necessariamente mettere in conto la solitudine e l’incomprensione, per sua natura non ha radici in esse, il ministero del vescovo ha bisogno della comunione con il Santo Padre, con il Collegio dei Vescovi, con la Chiesa locale che gli è affidata e – in particolare – con il suo presbiterio e la comunità dei diaconi. In questa comunione ha il suo stato naturale. Essa non si costruisce sulla simpatia umana o sulle affinità naturali, ma sul sacramento dell’Ordine, sul comune ascolto della Parola, sull’intercessione reciproca, sulla celebrazione eucaristica; fra i riti che la compongono in particolare vorrei menzionare l’immixtio, il momento in cui chi presiede mette nel calice che raccoglie il Sangue di Cristo, un frammento del suo Corpo».
Ed ha concluso: «Tutto ciò che questa Liturgia ci fa vedere, ora siamo invitati a viverlo per rimanere discepoli e non protagonisti, per ricordarci che quest’opera non è iniziata e non finirà con noi, per contemplare con i nostri occhi cosa fa la grazia quando la si lascia agire nella nostra storia».

Al termine della Santa Messa il vescovo Daniele ha citato il cardinale Henri-Marie de Lubac: «Dio non ci ha creati “perché dimorassimo nei confini della natura”, né perché vivessimo una vicenda solitaria; ci ha creati per essere introdotti insieme in seno alla sua Vita trinitaria». 

A Monsignor Salera e alla Chiesa di Dio che è in Ivrea auguriamo un cammino fecondo e sereno. 


Saluto di S.E.R. Mons. Edoardo Aldo Cerrato C.O. 

Saluto cordialmente tutti i presenti: gli Eminentissimi Signori Cardinali, gli Eccellentissimi Arcivescovi e Vescovi, il Clero, le Autorità civili, militari e di Pubblica Sicurezza, e tutto il caro Popolo di Dio! Un saluto particolarmente affettuoso e riverente rivolgo però al nostro nuovo Vescovo.

Eccellenza Reverendissima e carissima,

la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica che è in Ivrea La accoglie con gioia come suo Pastore ringraziando innanzitutto il Signore, datore di «ogni buon regalo e di ogni dono perfetto» (Giac, 1,17), e il Romano Pontefice che a noi La invia.

Il momento che stiamo vivendo è grande e bello, anche umanamente, ma lo viviamo consapevoli che esso affonda le radici in un mistero di grazia che viviamo nella fede.

«Cristo Signore, Figlio di Dio vivo – insegna il Concilio Vaticano II nel Decreto Christus Dominus – è venuto per salvare il suo popolo dai peccati e per santificare tutti gli uomini; com’egli era stato mandato dal Padre, così mandò i suoi apostoli e li santificò dando loro lo Spirito Santo, affinché, a loro volta, glorificassero il Padre sopra la terra e salvassero gli uomini. […] In questa Chiesa di Cristo […] i vescovi, posti dallo Spirito Santo, succedono agli apostoli come pastori delle anime e, insieme col sommo Pontefice e sotto la sua autorità, hanno la missione di perpetuare l’opera di Cristo, pastore eterno. […] Perciò i vescovi, per virtù dello Spirito Santo che è stato loro dato, sono divenuti veri ed autentici maestri della fede, pontefici e pastori».

È questo, Eccellenza, ciò che più profondamente ci tocca in questo momento! Io Le consegno il “pastorale” – simbolo della Sua missione di Pastore – ma nella certezza che è Gesù Cristo, Signore e Sposo della Chiesa, a consegnarLe questa «porzione del popolo di Dio affidata alle [sue] cure pastorali».

Le auguro, Eccellenza, un ministero fervido e lieto, benedetto da Dio e fortificato dalla materna protezione della Vergine Assunta e dei nostri Santi; Le assicuro la mia preghiera quotidiana per Lei e per questa Chiesa alla quale rimango spiritualmente legato per la comunione nel cammino di fede e nell’amore fraterno. E Le assicuro il mio filiale affetto nel più profondo rispetto della Sua missione.

Mi benedica e ci benedica!


Omelia di S.E.R. Mons. Daniele Salera

Quando con il Vescovo Edoardo abbiamo definito la data per l’ingresso in Diocesi, non eravamo a conoscenza dei testi che ci avrebbe offerto la Liturgia di questa domenica. Li accogliamo ora, nella loro bellezza ma anche nella chiarezza con cui ci parlano. Riconosco come un dono che in questa celebrazione, inizio del ministero episcopale nella Diocesi di Ivrea, il Signore metta davanti al mio cammino un testo come quello di Geremia: è un segnale chiaro per me, decifrabile.

Su queste parole si plasma un credo, un atteggiamento, una visione, uno stile, una scelta, una disciplina del pensare e dell’agire.  La Scrittura più volte mostra come il popolo credente e coloro a cui il Signore ha affidato una missione siano stati invitati a fidarsi. Pensiamo ad Abramo, accetta di lasciare tutto fidandosi delle promesse di Dio, pensiamo a Mosè che non dovrà dar peso alla sua balbuzie e al ricordo del crimine commesso per dire il suo sì al Signore, ma anche a Isaia domenica scorsa: si fiderà di più del tizzone ardente che ha purificato le sue labbra che della consapevolezza di essere un uomo dalle labbra impure. E ancora Giosuè: demolirà le mura di Gerico con un rito che assomiglia più ad una liturgia che ad un assalto; Gedeone dovrà ridimensionare in modo impressionante il suo esercito prima di vincere la battaglia. Il tutto perchè ogni chiamato sia consapevole che non sarà la sua forza a procurargli la vittoria o a permettergli di raggiungere gli obiettivi della missione che il Signore gli affida, ma solo il suo pieno abbandono in Dio.

Nel Nuovo Testamento questo “riporre la propria fiducia nel Signore” è passato, prima dai rimproveri che Gesù ha rivolto agli apostoli, poi dai patimenti cui la Provvidenza divina li ha sottoposti. Sono stati chiamati – lo abbiamo ascoltato proprio domenica scorsa – fidandosi della Sua Parola e abbandonando tutto. Questo doppio movimento ci provoca ad una conversione dell’intelletto e della volontà che si compone di due passaggi congiunti: riporre la nostra fiducia in ciò che Dio dice a noi, significherà anzitutto divenire via via più capaci di comprendere la  Parola (con l’intelletto appunto ma direi soprattutto con l’arte del discernimento dei segni con cui Egli comunica a noi il suo volere) ed in secondo luogo (e qui entra in gioco la volontà), sceglierla come àncora per non farsi portar via dalle correnti, luce per affrontare anche la tenebra più oscura, traccia per un sentiero che porta alla vetta! A questo punto – se abbiamo ben capito quanto centrale sia questo passaggio – la Parola (o più generalmente la modalità con cui il Signore ci sta parlando) può divenire la mia roccia, il mio scudo, e dunque posso sceglierla come unico segnale da seguire, addirittura credendo che essa mi offra “una verità molto più vera” di quelle verità che la mia mente, i miei affetti, i miei ricordi e i miei schemi mi hanno offerto finora. Così ripongo la mia fiducia in Dio e non più in me, come gli apostoli che si sono fidati e hanno lasciato tutto (tutte le modalità con cui finora avevano interpretato la vita) per seguirlo (per seguire ciò che la sua Parola nello specifico gli aveva comunicato).

Ma come dicevamo, per riporre in Dio la fiducia alla maniera degli apostoli vi è anche un’altra strada da seguire (non alternativa alla prima): quella della frantumazione dell’io attraverso le prove che conducono all’umiltà. È qui che la nostra sequela diviene sempre più “cristiforme”, poiché siamo stati sottratti al dominio del Male da Colui che pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che ha patito, e attraverso questa via ci ha redenti. Fratelli, sorelle, la nostra partecipazione all’opera redentiva del Cristo ha bisogno che si “depotenzi la nostra potenza” perché effettivamente possiamo – come i Vangeli ci rammentano – andare dietro a Lui e non stargli davanti. Noi torneremo a porre in noi stessi o nei surrogati delle nostre certezze la nostra fiducia se non accettassimo di avere, non una volta ma stabilmente “un tesoro in vasi di creta” (2Cor 4,7): accettare pian piano – ma liberamente – di diventare piccoli, di abbandonare il desiderio di onnipotenza, attraverso tutto ciò che nella vita ci destabilizza.

Ricevere questa Parola, in questa particolare celebrazione, significherà accettare liberamente che questo servizio episcopale e il cammino che compiremo insieme sia benedetto dalla confidenza in Dio perchè il Signore è – e vogliamo che sia – nostra fiducia. Accettare liberamente di attraversare tutto ciò che è debolezza perché si manifesti in noi la Sua potenza poiché: “la parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18).

Consideriamo inoltre che il ministero del vescovo, per quanto debba necessariamente mettere in conto la solitudine e l’incomprensione, per sua natura non ha radici in esse, il ministero del vescovo ha bisogno della comunione con il Santo Padre, con il Collegio dei Vescovi, con la Chiesa locale che gli è affidata e – in particolare – con il suo presbiterio e la comunità dei diaconi. In questa comunione ha il suo stato naturale. Essa non si costruisce sulla simpatia umana o sulle affinità naturali, ma sul sacramento dell’Ordine, sul comune ascolto della Parola, sull’intercessione reciproca, sulla celebrazione eucaristica; fra i riti che la compongono in particolare vorrei menzionare l’immixtio, il momento in cui chi presiede mette nel calice che raccoglie il Sangue di Cristo, un frammento del suo Corpo.

Anche i santi ci ricordano della necessità di questa comunione, e quando vi penso mi rendo conto che è veramente un bene sommo e necessario, da desiderare intensamente, da cercare come un tesoro che è nostra eredità, ma che va dissotterrato in continuazione dalla coltre delle abitudini, delle delusioni, delle disillusioni, delle idealizzazioni e della via mondana per raggiungerlo, quella della simpatia e delle affinità. Così scriveva il martire Ignazio di Antiochia ai Magnesii:

VII,1. Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno, né da solo né con gli apostoli, così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri. Né cercate che appaia lodevole qualche cosa per parte vostra, ma solo per la cosa stessa: una sola preghiera, una sola supplica, una sola mente, una sola speranza nella carità, […].

E ancora agli Efesini:

1. […] Dalla vostra unità e dal vostro amore concorde si canti a Gesù Cristo. […] È necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere sempre partecipi di Dio.

Su questo argomento negli anni del servizio in Seminario, amavo meditare un passaggio della Pastores Dabo Vobis 12:

[…] Il presbitero, in forza della consacrazione che riceve con il sacramento dell’Ordine, è mandato dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo, al quale come Capo e Pastore del suo popolo è configurato in modo speciale, per vivere e operare nella forza dello Spirito Santo a servizio della Chiesa e per la salvezza del mondo. Si può così comprendere la connotazione essenzialmente « relazionale » dell’identità del presbitero: mediante il sacerdozio, che scaturisce dalle profondità dell’ineffabile mistero di Dio, ossia dall’amore del Padre, dalla grazia di Gesù Cristo e dal dono dell’unità dello Spirito Santo, il presbitero è inserito sacramentalmente nella comunione con il Vescovo e con gli altri presbiteri, per servire il Popolo di Dio che è la Chiesa e attrarre tutti a Cristo […]. Non si può allora definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.

Dànno ristoro allo spirito le parole “unità” e “comunione” le ha usate il martire Ignazio, le si ritrova nell’esortazione di Giovanni Paolo II, le si vede qui in quest’eucaristia che ci ispira a desiderarle, le si nota nella presenza del Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, in quella del Metropolita, nei vescovi che prima di me hanno offerto se stessi per questa Diocesi, nei fratelli della Conferenza Episcopale di Piemonte e Valle d’Aosta. Tutto ciò che questa Liturgia ci fa vedere, ora siamo invitati a viverlo per rimanere discepoli e non protagonisti, per ricordarci che quest’opera non è iniziata e non finirà con noi, per contemplare con i nostri occhi cosa fa la grazia quando la si lascia agire nella nostra storia.



Saluto di S.E.R. Mons. Daniele Salera 
a conclusione della Santa Messa

Prima d’ impartire la benedizione, vorrei ringraziare tutti voi qui presenti: i signori Cardinali, i fratelli vescovi, i sacerdoti e i diaconi della Diocesi ma anche tutti i presbiteri e i diaconi che sono venuti da Roma o dalle altre Chiese d’Italia. Vorrei ringraziare i consacrati e le consacrate, i laici, le associazioni e i movimenti ma anche tutti coloro che sono qui a titolo personale. Saluto e ringrazio per la loro presenza i rappresentanti delle altre confessioni cristiane: che il cammino verso l’unità e la comunione trovi in questa nostra Chiesa locale un terreno lavorato e fertile.

Saluto e ancora ringrazio il sindaco di Ivrea per la sua accoglienza e per quanto mi ha donato; con lui tutti i rappresentati delle Istituzioni civili e militari: grazie per quanto mettete di voi stessi anche oltre il dovuto, perché coloro che vi sono affidati siano al sicuro e vivano dignitosamente.

Una menzione ed un grazie particolare a tutti coloro che dal giorno della nomina e fino a stasera, hanno donato il proprio tempo, la propria passione, la loro salute, le ore diurne e notturne perchè tutto ciò potesse essere così come è stato e sarà: bellissimo!

Grazie a tutti coloro che hanno organizzato e animato questa celebrazione nei minimi dettagli. Grazie anche a coloro che attraverso i media fanno sì che tanti, anche a distanza, possano seguirci. Un ringraziamento ai tanti volontari provenienti da diversi paesi della Diocesi che hanno offerto e preparato il rinfresco presso il Seminario Minore. Grazie al Vescovo Edoardo e al Cardinale Arrigo per questa Chiesa di Ivrea che ricevo dal loro cuore di pastori. Grazie alla mia famiglia per tutto l’esempio e l’amore con cui mi ha protetto e sostenuto.

Vorrei concludere con un passaggio tratto dalla bellissima Meditazione sulla Chiesa del compianto cardinale De Lubac:

“Ormai non sono più che un filosofo, cioè un uomo solo“, si narra dicesse uno sventurato sacerdote, la sera della sua apostasia, ad un visitatore che era andato a congratularsi con lui. Riflessione amara, ma quanto vera! Egli aveva abbandonato la casa, fuori della quale non ci sarà mai altro per l’uomo che esilio e solitudine. Molti non lo avvertono perché vivono ancora nell’immediato, fuori di se stessi, “barricati al mondo come le alghe sulle rocce del mare” (Clemente Alessandrino). Le preoccupazioni quotidiane li assorbono, “il limbo d’oro dell’apparenza“, stende loro davanti un velo di illusione. Oppure tentano di ingannare la loro sete cercando, per vie diverse, qualche surrogato della Chiesa. Ma chi al fondo del proprio essere sente o anche soltanto intuisce e sospetta l’Appello che l’ha destato, sa con certezza che né nell’amicizia, né nell’amore, né a maggior ragione i raggruppamenti sociali che sorreggono la sua esistenza, potranno mai placare la sua sete di comunione. Ne l’arte, né la riflessione, né la ricerca spirituale indipendente, simboli soltanto, promesse di altro ma simboli deludenti, promesse che non reggono, legami troppo astratti o troppo particolari, troppo superficiali o troppo effimeri, tanto più impotenti oggi quanto più seducenti ieri: nulla di ciò che l’uomo crea o di ciò che rimane sul piano dell’uomo potrà strappare l’uomo alla sua solitudine. La sua solitudine, anzi, si accrescerà sempre più man mano che egli scopre se stesso perché essa non è altro che il contrario della comunione alla quale egli è chiamato, ne ha l’ampiezza e la profondità. Dio non ci ha creati “perché dimorassimo nei confini della natura”, né perché vivessimo una vicenda solitaria; ci ha creati per essere introdotti insieme in seno alla sua Vita trinitaria. Gesù Cristo si è offerto in sacrificio perché noi non formassimo più che una sola cosa in questa unità delle persone divine. Questa deve essere la ricapitolazione, la rigenerazione e la consumazione di tutto; e tutto ciò che ci allontana da questa mèta finale è un richiamo ingannatore. Ora c’è un luogo in cui, fin da quaggiù, incomincia questa riunione di tutti nella Trinità. C’è una “famiglia di Dio”, misteriosa estensione della Trinità nel tempo, che non soltanto ci prepara a questa vita unitiva e ce ne dà la sicura garanzia, ma ce ne fa già partecipi. Unica società pienamente aperta, essa è la sola che sia all’altezza della nostra intima aspirazione e nella quale noi possiamo attingere finalmente tutte le nostre dimensioni. De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata (Cipriano): tale è la Chiesa. Essa è “piena della Trinità” (Origene).

Fratelli, sorelle, la Chiesa che ci ha dato la fede, la comunione e ci ha insegnato a gustare fin da ora la vita eterna, è un dono immenso ma anche fragile che il Signore ha messo nelle nostre mani, abbiamone cura, non pensiamo di poterne fare a meno anche se la mente ci offrisse delle plausibili ragioni per pensarlo. Credetemi, ne abbiamo tutti bisogno, e perché sia sempre bella e feconda, ciascuno di noi, nessuno escluso, è chiamato a fare la sua parte, se così non fosse, tutto il Corpo ne risentirebbe!