Como – «La Fraternità è responsabile della guida di tutto il Movimento». La frase, rilanciata in questi giorni come una semplice “riprecisazione”, è diventata invece la chiave con cui leggere una stagione nuova di Comunione e Liberazione: una stagione in cui, da tempo, gli interventi pubblici promossi o amplificati dalla nuova governance sembrano parlare sempre meno di fede, di don Giussani, di Gesù Cristo, e sempre più di assetti, procedure, statuti e legittimazioni.

È in questo quadro che va collocata l’intervista del 19 dicembre 2025 a don Andrea D’Auria, presentato come figura-chiave del lavoro che ha portato al nuovo Statuto della Fraternità, approvato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita l’8 settembre 2025 ed entrato in vigore il 15 ottobre 2025.

Un copione che si ripete

La scena è nota, e non soltanto a CL. In più realtà ecclesiali, negli ultimi anni, le riforme “con approvazione” sono state accompagnate da un copione ricorrente: prima una campagna di delegittimazione (talvolta anche diffamatoria) contro i responsabili precedenti e contro chi veniva ritenuto loro vicino; poi l’imposizione o l’installazione di nuovi vertici; infine una stagione di comunicazione interna orientata a far percepire la nuova architettura come inevitabile, bella, persino necessaria per la “salvezza” della comunità. Dentro CL, mentre Silere non possum sta ricostruendo documenti, passaggi e fratture degli ultimi anni - e il moltiplicarsi di interessi e giochi di potere - l’intervista a don D’Auria appare come un tassello di questa pedagogia: non una spiegazione neutra, ma una narrazione che chiede adesione, non discernimento.

Chi parla e perché adesso

Don D’Auria non è un osservatore esterno chiamato a commentare “da canonista”. Nell’intervista è presentato come coordinatore della commissione che ha lavorato alla revisione dello Statuto “in dialogo con il Dicastero”. La sua, quindi, non è semplicemente una voce presentata come “autorevole”: è una voce interna al processo che oggi viene proposto come svolta e che, proprio per questo, chiede di essere valutato anche per le figure che lo hanno costruito e accompagnato. Dentro questo percorso non va dimenticato il ruolo del cardinale Gianfranco Ghirlanda, che durante il pontificato di Francesco - nonostante l’età - è stato ripetutamente chiamato a intervenire sulla riscrittura degli statuti di realtà complesse. Il punto, però, non è la sua presenza in sé: è il metodo. Ghirlanda ha mostrato negli anni un’impostazione più ideologica che strettamente canonistica, con posizioni maturate e riproposte nel tempo.

Lo si è visto nel caso dell’Opus Dei, oggetto da decenni di sue critiche anche in ambito accademico, quando contestava la configurazione della Prelatura personale come problematica. Lo si è visto nel dibattito attorno a Praedicate Evangelium, dove si è alimentata – senza alcun dibattito teologico e sacramentale - l’idea che i laici possano esercitare una potestà di giurisdizione in senso proprio: una tesi contraria al Codice di diritto canonico e che ricalca convinzioni già sostenute da Ghirlanda nelle aule della Gregoriana. Lo si è visto, ancora, nella vicenda della comunità di Bose, dove Roma ha sempre cercato di ottenerne il controllo, ma ha sempre trovato la ferma resistenza del fondatore Enzo Bianchi, il quale ha sempre spiegato che, essendo una comunità ecumenica, non doveva essere sotto il controllo esclusivo di Roma e non ha mai voluto che gli appartenenti alla comunità perdessero la loro peculiare vocazione. Quando Bianchi si è dimesso come priore, Roma ha subito colto l’occasione per entrare a gamba tesa in quella realtà e, quando ha visto che il fondatore poteva rappresentare ancora un elemento di resistenza, non ha esitato ad avvallare una campagna diffamatoria con l’ausilio di coloro che, da dentro, erano assetati di potere e scontenti per dinamiche interne.

L’assetto dato a Bose da Ghirlanda oggi sarebbe stato impensabile negli anni scorsi: oggi Bose è un monastero sui iuris. Resta così una domanda che, dentro e fuori Bose, continua a pesare: perché elogiare per decenni un’esperienza come modello e poi procedere con un intervento così radicale da trasformarne in profondità l’identità?

In questa vicenda che riguarda Comunione e Liberazione vi è stato un primo intervento del cardinale Gianfranco Ghirlanda, ma anche di altri. A coordinare l’intero processo è stato don Andrea D’Auria, membro della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo. Ora, Silere non possum, nell’inchiesta La verità su CL, sta ricostruendo con dovizia di particolari i legami e i giochi di potere che hanno segnato gli anni scorsi.

L'onnipresente Massimo Camisasca

Abbiamo già accennato a quanto avviene all’interno della Fraternità San Carlo, dove ancora vi è una preoccupante influenza di S.E.R. Mons. Massimo Camisasca, il quale, dagli anni 2000, ha edificato un vero e proprio fronte contro don Julián Carrón e, soprattutto, ha impostato la formazione presbiterale all’interno della Fraternità secondo modalità abusanti, con gravi commistioni fra foro interno e foro esterno. Silere non possum ne parlerà in modo dettagliato in una puntata apposita dell’inchiesta. A conferma di quanto Silere non possum ha già raccontato nelle cinque puntate pubblicate, vi è proprio il fatto che a guidare la riforma dello Statuto sia stato posto un uomo di don Massimo Camisasca. Il fondatore della Fraternità San Carlo ha sempre odiato don Giacomo Tantardini; eppure, grazie ai figli di Tantardini e poi con l’intervento di tutti coloro che sono stati citati nella quinta puntata dell’inchiesta, Camisasca è tornato a esercitare il suo peso anche su tutto il movimento.

Da un lato con don Andrea D’Auria, dall’altro con don Paolo Prosperi, fratello di Davide Prosperi, il quale è il consigliere più fidato dell’attuale Presidente della Fraternità di CL. La formazione, così come è impostata nella Fraternità San Carlo, risulta particolarmente abusante, orientata a manipolare le coscienze e i suoi appartenenti sono schiacciati psicologicamente sia dal fondatore che dall’attuale superiore, don Paolo Sottopietra. Si tratta di una di quelle realtà, non l’unica certamente, che prevedono una sottomissione totaleed un continuo confrontarsi con il superiore prima di prendere qualunque decisione. Sarebbe impensabile, quindi, che questi presbiteri agissero senza il placet del superiore e del fondatore che ancor oggi continua a esercitare la sua pressione. 

Don Andrea D’Auria, fa parte pienamente di questo sistema. Ad esempio, è stato per diverso tempo padre spirituale dei candidati al sacerdozio in cammino nella Fraternità San Carlo. Eppure, pur occupandosi del foro interno, D’Auria partecipava a momenti in cui i responsabili del foro esterno si confrontavano sui seminaristi. «No, ma io intervengo solo in favore di voi seminaristi», ebbe a dire D’Auria ai ragazzi che si domandavano dell’opportunità di questa partecipazione. E ciò, già di per sé, consente di misurare la conoscenza del Codice di Diritto Canonico di questo presbitero, il quale forse dimentica che tra foro interno e foro esterno non vi può essere alcuna commistione. Eppure, qualcuno fece credere al Papa che la commistione fra foro interno e foro esterno fosse altrove. Ma è uno schema noto: si indica un nemico per evitare che qualcuno guardi su di te.

Il fatto che della riforma si siano occupate proprio queste persone rende l’intero impianto particolarmente critico, anche perché appare evidente come il nuovo Statuto, a differenza del precedente, consenta in modo assai più chiaro il controllo degli organismi da parte di chi intende esercitare il potere. È, del resto, una delle contestazioni avanzate da numerosi membri del Movimento. E quando, inoltre, la riforma viene narrata esclusivamente da figure arruolate nella nuova fase di governo, il rischio è quello di un racconto a senso unico: lo Statuto cessa di essere lo strumento al servizio del carisma e diventa il “testo” incaricato di convincere le coscienze.

Lo Statuto 2025: più elezioni, ma anche più centro

Il nuovo Statuto introduce elementi che, letti isolatamente, possono suonare “partecipativi”: nasce un’Assemblea Generale, vengono eletti Delegati, e il Presidente è eletto con procedure formalizzate. Ma la questione vera non è quante schede si depositano: è dove finisce il baricentro del potere, e quali anticorpi restano quando la macchina centrale decide di occupare i punti strategici. Nel testo 2025, la Diaconia Centrale “esercita il governo dell’Associazione” e dispone di margini ampi di indirizzo, delega e controllo. In parallelo, compaiono figure come i Referenti territoriali, designabili dalla Diaconia, chiamati a “vigilare sull’osservanza degli Statuti” e mantenuti in funzione “fino a quando la Diaconia ritiene di confermarli”.
È una formula che, in concreto, rende più semplice costruire una rete di fedeltà funzionali: chi controlla conferme e permanenze controlla anche il clima, le carriere interne e la narrativa locale.

A questo si aggiunge la possibilità di cooptazioni nella Diaconia Centrale: cinque membri possono essere inseriti tra gli iscritti alla Fraternità su proposta del Presidente e secondo le procedure previste. Non è un’anomalia in sé: diventa un problema quando la cooptazione si somma a un sistema di designazioni territoriali confermabili dall’alto e a un discorso pubblico che chiede uniformità.

La pluralità ridotta e il legame diocesano indebolito

Nel 2017 la trama locale e diocesana risultava incardinata con maggiore nettezza: lo Statuto prevedeva la figura del Responsabile Diocesano, designato dall’assemblea dei membri residenti in diocesi, con un passaggio esplicito di consultazione del Vescovo diocesano e, persino, con la possibilità che il Vescovo chiedesse la sostituzione del Responsabile. Nel medesimo impianto, anche per l’Assistente ecclesiastico diocesano era previsto un coinvolgimento diretto del Vescovo, a conferma di un legame reale con la Chiesa particolare e con la sua vita concreta. Oggi, invece, muta il lessico e con esso la percezione dell’assetto: la rete territoriale appare più facilmente riconducibile al centro, e la vita locale risulta più dipendente da figure “di fiducia” che vengono confermate dall’alto. In questa configurazione, la pluralità che un tessuto diocesano fisiologicamente garantisce - perché la Chiesa vive e respira nelle diocesi, nelle parrocchie, nel rapporto quotidiano con i Pastori - tende a rarefarsi. E quando la pluralità si assottiglia, la comunione rischia di perdere la sua fisionomia ecclesiale, diventando un’adesione disciplinata a un assetto di governo.

Questo schema, peraltro, stride con l’indicazione che Benedetto XVI consegnò a Comunione e Liberazione in occasione del XXV anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità: egli ricordò che i Movimenti, se sono realmente doni dello Spirito Santo, “devono naturalmente inserirsi nella Comunità ecclesiale e servirla”, perché “nel dialogo paziente con i Pastori” possano essere “elementi edificanti per la Chiesa di oggi e di domani”. E aggiunse, con un equilibrio decisivo, che CL vive “da una parte con una totale fedeltà e comunione con il Successore di Pietro e con i Pastori che assicurano il governo della Chiesa; dall’altra, con una spontaneità e una libertà” capaci di generare opere apostoliche e missionarie. È precisamente in quel dialogo con i Pastori e in quel radicamento nella vita ordinaria delle diocesi che si misura la maturità ecclesiale di un carisma: non nella sua capacità di autosostenersi mediante un apparato, ma nella sua disponibilità a lasciarsi continuamente verificare nella Chiesa reale, là dove essa vive, soffre e genera. Oggi, invece, si è scelto di servirsi di amici sottosegretari nei dicasteri e di preti guidati da chi ha interesse a mantenere un peso politico nel movimento, per poter staccare CL dal tessuto delle diocesi e creare una elitè di governo direttamente collegata con Roma. Leone XIV, però, è molto attento a questi aspetti ed è ben consapevole di ciò che sta accadendo anche nel Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita.

Quando lo Statuto prende il posto del Vangelo

L’intervista di don D’Auria spinge un passo oltre: non si limita a illustrare articoli e procedure, ma introduce una “chiave” spirituale che finisce per caricare lo Statuto di un peso teologico improprio. È un meccanismo che ricorre spesso negli abusi spirituali e negli abusi di coscienza: si ammanta di linguaggio e categorie spirituali ciò che, in sé, è altra cosa, così da renderlo più accettabile e più facilmente inoculabile nella mente delle persone. Nel testo si legge che, “in forza del diritto”, si avrebbe una sorta di certezza della continuità dell’esperienza e, a sostegno di questa tesi, viene proposta un’analogia con il sacramento della confessione, quasi a suggerire che la forma giuridica possa fungere da garanzia della realtà salvifica. Don D’Auria afferma infatti: «quando mi confesso posso essere certo che il sacerdote mi assolve veramente dai miei peccati anche in forza del diritto». Eppure, il Codice di diritto canonico non crea realtà sacramentali, né “produce” la remissione dei peccati: semmai le disciplina. I sacramenti esistono prima e indipendentemente dal Codice, perché sono istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa. La certezza del perdono dei peccati, dunque, non nasce da una norma giuridica, ma dalla promessa di Cristo di rimettere i peccati mediante il ministero apostolico, promessa che la Chiesa ha definito e custodito a livello dottrinale e dogmatico, chiarendo che l’assoluzione sacramentale validamente impartita opera realmente la remissione dei peccati.

Il diritto canonico interviene solo per stabilire chi può assolvere, come e a quali condizioni; ma la certezza del perdono deriva dall’efficacia sacramentale dell’atto, non dal fatto che esso sia regolato da un codice. È un passaggio rivelatore, perché mette a nudo la tentazione propria di questa stagione - una tentazione tutt’altro che inedita nella storia della Chiesa, che riemerge ciclicamente sotto forme diverse -: rimpiazzare la grammatica della fedecon la grammatica della legittimazione. Non si tratta di contestare l’utilità delle norme, né di disprezzare l’ordine giuridico; si tratta di impedire che la norma si trasformi in catechesi, e che la catechesi scivoli, silenziosamente, in propaganda.

“Non rivoluzionario”: eppure cambia tutto

Don D’Auria sostiene che nello Statuto “non ci sono aspetti rivoluzionari”. Ma nella vita di un movimento la rivoluzione non avviene solo quando si cambiano i contenuti del prologo: avviene quando si sposta l’asse del governo, quando si modificano catene di nomina e conferma, quando si riduce il peso delle realtà locali e si costruisce un sistema in cui chi sta al centro può pianificare la continuità della propria linea molto più di ieri. Ed è qui che l’intervista diventa, per molti, illeggibile: perché mentre i membri chiedono parole di fede e di carisma, ricevono un discorso che suona come addestramento alla nuova architettura.

Dove porta tutto questo

La vicenda di Comunione e Liberazione travalica i confini di un dibattito interno: assomiglia piuttosto a un laboratorio che mostra cosa accade quando un carisma viene gestito con le logiche proprie di un apparato. Quando la parola pubblica si assesta sul registro della governance, quando gli interventi “ufficiali” assumono il tono di chi vuole convincere e fare il lavaggio del cervello ai suoi iscritti, quando alle comunità arrivano soprattutto messaggi di conformazione più che di fede, la questione si sposta inevitabilmente: non resta circoscritta alla legittimità formale di una riforma, ma investe la sua anima. Un movimento nato per richiamare alla memoria di Cristo attraversa, anche duramente, passaggi di trasformazione e persino fratture. Ma la sua tenuta si misura su un punto decisivo: ciò che occupa il centro. Quando quel centro viene occupato dalla macchina del potere, da interessi politici, la vita si impoverisce, la coscienza si chiude, e la storia - lentamente ma con esattezza - presenterà il conto.

d.R.S. e M.P.
Silere non possum