Qualche mattina fa ho perso il treno per due minuti. Mi trovavo a Siviglia e sono rimasto in stazione perché non avevo voglia di fare altro: né camminare, né telefonare, né fingere che non mi desse fastidio aver sbagliato i tempi. Mi sono seduto su una panchina e ho lasciato che il freddo mi entrasse nelle mani. Mentre aspettavo, ho notato un uomo, di fianco a me, che guardava il tabellone come si guarda un punto fisso per non lasciarsi cadere. Il telefono gli vibrava nella tasca, ma lui non rispondeva. A tre metri da lui, una donna con tre borse della spesa sembrava impegnata a non occupare spazio. Dopo qualche minuto si è alzata, ha preso due caffè dalla macchinetta e gliene ha offerto uno. Nessuna parola. Non so perché mi abbia colpito così tanto. Ma in quel gesto minuscolo c’era tutto: il bisogno di essere visti, il sollievo di non essere più invisibili, la possibilità che qualcuno - anche uno sconosciuto - ti rimetta a fuoco.

Il bisogno elementare di uno sguardo

Ho pensato alle pagine di Il tempo di tornare a casa, un libro di Matteo Bussola che ho letto tempo fa. L’autore restituisce con rara finezza ciò che segretamente sostiene la vita degli uomini: «Attendono che qualcuno finalmente le veda». È una frase apparentemente piccola, ma racchiude una verità antropologica gigantesca: gli uomini e le donne possono resistere quasi a tutto, tranne all’indifferenza. LaMarta - uno dei personaggi più luminosi del libro - lo vive sulla propria pelle: «Invisibile, anche lì» , dice Bussola, parlando del gruppo WhatsApp dove nessuno nota che lei non manda mai le immagini di fiori. Nella scena che ho visto in stazione c’era la stessa nudità: un uomo che non voleva farsi vedere, una donna che si era abituata a non essere vista. E poi un gesto gratuito che spezza la solitudine di entrambi.

Bussola non fa moralismi: si limita a mostrare. I suoi personaggi non devono imparare lezioni, devono essere guardati.

L’io che nasce da uno sguardo: la prospettiva di Giussani

Questa dinamica l’ho ritrovata in Don Luigi Giussani, il quale l’ha delineata nel libro Il rischio educativo quando scrive: «L’io fiorisce quando si sente preso sul serio». Non è un’affermazione psicologica, ma antropologica: l’identità non si costruisce per introspezione, ma per risonanza. Qualcuno ci riconosce e noi, per la prima volta, ci riconosciamo. Sempre Giussani, ne Il senso religioso, va ancora più a fondo: «Il cuore dell’uomo è un grido» e trova consistenza solo se incontrato da una presenza che lo desti e lo sostenga. Le storie di Matteo Bussola sono la versione narrativa di questa intuizione: donne e uomini che vivono sospesi, “nel guado”, come lui stesso scrive, finché qualcosa o qualcuno li chiama fuori dalla loro invisibilità. Il treno perso, l’attacco di panico, la sala d’attesa, una tazza di caffè: momenti minimi che rivelano l’essenziale.

La sorpresa del riconoscimento

Quella scena in stazione mi ha insegnato, più di molti discorsi, che l’identità è un fenomeno fragile. È sufficiente poco per perdere la percezione di sé. È sufficiente poco per ritrovarla. Bussola lo dice con chiarezza quando racconta del giorno in cui, tremante sul ciglio dell’autostrada, la sua compagna gli disse: «Stai lì, vengo a prenderti io». In quella frase c’è la definizione più concreta e non sentimentale di “essere amati”. Don Giussani direbbe che l’uomo cresce “per attrazione”, non per imposizione: «La libertà diviene» solo dentro un rapporto che ti riconosce e ti accompagna. E allora capisci perché una persona che offre un caffè a un estraneo possa cambiare tutto: perché uno sguardo - quando è vero - disinnesca la paura, rimette insieme i pezzi, restituisce consistenza all’io.

Nessuno si salva da solo

Non conosco il nome dell’uomo che quella mattina tremava davanti al tabellone. Non conosco la storia della donna con le borse della spesa. So soltanto che si sono riconosciuti, anche solo per un minuto. E ho capito che ciò che tiene in piedi le persone non è la forza del carattere, né la capacità di pianificare, né la resilienza tanto celebrata. È la presenza di qualcuno che ti vede. È questo che Bussola racconta con delicatezza. Nessuno si ricostruisce senza uno sguardo. Nessuno torna a casa da solo.

d.G.R.
Silere non possum