C’è una frattura nel sistema giudiziario italiano che pochi hanno il coraggio di nominare: le procure non rispettano più la logica della legge, ma quella della convenienza. È un mondo in cui il diritto si piega agli equilibri interni, dove l’amicizia diventa un lasciapassare e la distanza un ostacolo insormontabile. Una struttura che dovrebbe essere il presidio della legalità ha finito per trasformarsi in un luogo dove le regole non sono uguali per tutti, e dove ciò che dovrebbe essere un obbligo costituzionale è trattato come una facoltà privata.
Qualcuno potrebbe dire: “È l’Italia, di che ti meravigli?”. Eppure, mi meraviglia ancora.
Il patto opaco tra Procure e stampa
In Italia, il rapporto fra magistratura requirente e stampa è diventato un territorio poroso, ambiguo, dove gli atti riservati circolano con una velocità che ha poco a che fare con la legalità e molto con gli equilibri interni del potere. I documenti secretati finiscono sui giornali prima che nelle mani degli avvocati. Le intercettazioni – perfino quelle di conversazioni private con i propri legali, dunque coperte dal segreto professionale – vengono lanciate in prima serata come se fossero materiale d’intrattenimento. I conduttori sorridono e dicono: «Non sono utili alle indagini, ma fanno capire». Fanno capire cosa, esattamente? Che siamo entrati in una forma aggiornata di dittatura giudiziaria? Se una conversazione non è utilizzabile in aula, non dovrebbe circolare nelle redazioni. Non dovrebbe essere discussa nei talk show. Non dovrebbe nemmeno esistere. La legge è chiara: ciò che non è rilevante per il procedimento va distrutto, non spettacolarizzato per alimentare il voyeurismo televisivo.
Le strategie investigative vengono pilotate attraverso i media, che diventano megafoni di ciò che le procure vogliono far trapelare. Non è un’opinione, sono fatti che osserviamo ogni giorno sui giornali, nelle aule di giustizia e nelle televisioni dello Stato. Ma in Italia l’idea che la giustizia si regga su rapporti non trasparenti non scandalizza più nessuno. Si è smarrita persino la percezione del problema.
La giustizia dell’appartenenza
È qui che l’Italia sembra precipitare dentro Il Processo. Kafka apre il romanzo con una frase che è diventata un simbolo della colpa presunta e dell’arbitrio: «Qualcuno doveva averlo calunniato, perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina Josef K. fu arrestato.» Nelle procure italiane accade qualcosa di simile: non la calunnia, ma l’appartenenza decide il destino dei fascicoli. Se sei amico si firma il provvedimento; se non lo sei, il fascicolo viene accantonato. Se frequenti determinati ambienti politici, si “dimenticano” le querele nei cassetti. Se non hai protettori ti inquisiscono anche per ciò che non hai fatto.
È noto che alcuni magistrati a Roma, i quali insegnano persino in istituzioni accademiche ecclesiastiche, firmano atti inconsulti, privi di fondamento giuridico, solo perché utili all’amica che denuncia. E chi denuncia, troppo spesso, è si è accompagnata con colleghi amici del potere politico nazionale.
Il risultato è una selezione degli interventi che ricorda la logica kafkiana delle “autorità superiori”: «Non posso neppure dirle che è accusato… forse le guardie hanno discorso di qualche altra cosa, ma si tratta solo di chiacchiere.» Un sistema che non spiega, non giustifica, non motiva. Decide. E pretende che tu accetti. «Poi, magari, dimostreranno che è innocente, nel frattempo sta in carcere», si sente dire.

L’obbligo costituzionale calpestato
La Costituzione non lascia margini: il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Non una facoltà. Non una scelta. Non un privilegio da esercitare quando conviene. Eppure, molte procure italiane agiscono come se la Carta fosse solo una raccomandazione. Nel circondario della Corte d’Appello di Roma ci sono procure con magistrati che non lavorano, non svolgono indagini e addirittura sono incapaci di digitare sul computer degli URL. Reati gravissimi vengono denunciati – violenze, minacce, estorsioni – ma tutto resta fermo se gli indagati appartengono alla cerchia di chi, evidentemente, ha rapporti con alcuni PM, con gruppi politici, con ambienti di influenza locale. Da Trento a Roma, ci sono procure che arrivano perfino a impedire alla parte offesa di esercitare i suoi diritti di legge: non trasmettono gli atti al giudice competente, non notificano alle parti, ritardano, creano ostacoli procedurali per impedire ogni forma di esercizio dei propri diritti. La colpa, poi, viene data al “fascicolo telematico”. In un momento storico in cui si parla di responsabilità penale anche in merito all’AI, abbiamo magistrati che danno la colpa della loro inerzia (colpevole) al “portale”. Una dinamica talmente assurda da richiamare ancora quanto scrive Kafka, quando Josef K. osserva la natura paradossale del sistema che lo opprime: «Del resto, esiste soltanto nelle loro teste.»
Così funziona oggi l’azione penale in molte procure italiane: non secondo la legge, ma secondo ciò che, nella testa di qualcuno, “conviene” fare. Il dramma, però, è che nella testa di qualcuno c’è poco, molto poco.

Il silenzio del Ministro della Giustizia
Di fronte a tutto questo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio non ritiene di dover intervenire. Quando si tratta di discutere di riforma delle carriere, di equilibri interni alla magistratura o di schermaglie politiche tra toghe e governo, Nordio è puntuale, presente, loquace. Ma quando occorre vigilare, mandare ispettori nelle procure, fermare violazioni che a Bruxelles fanno venire la pelle d’oca, allora il ministro scompare. Nessun richiamo. Nessuna ispezione. Nessuna presa di posizione. Nessuna risposta alle parti offese, agli avvocati, alle vittime. Un silenzio che pesa come una forma di legittimazione. Un silenzio che permette a pratiche illegali di diventare routine. Un silenzio che mette a nudo la fragilità del controllo democratico sulle procure.
La democrazia ferita
Il punto non è più il malfunzionamento, ma il cortocircuito strutturale. Una giustizia che procede per convenienze, che accoglie le istanze degli amici e abbandona le vittime, che decide senza trasparenza, non è una giustizia: è un organismo che si autoassolve.
Kafka lo aveva intuito con lucidità feroce quando metteva in bocca al pittore la frase più terribile dell’intero romanzo: «Non conosco nessuna assoluzione reale, ma so di molte influenze esercitate». In Italia accade lo stesso: ciò che dovrebbe essere un diritto diventa un privilegio, ciò che dovrebbe essere accessibile diventa opaco, ciò che dovrebbe essere deciso secondo la legge viene manovrato da rapporti, simpatie, convenienze (o connivenze). Ne Il Processo, le sentenze non si vedono mai:
«Le sentenze finali del tribunale non vengono pubblicate, non sono accessibili neppure ai giudici». Una dinamica che oggi trova inquietanti somiglianze nei labirinti delle nostre procure. Il parallelo con Kafka non è una figura retorica: è un richiamo necessario. Perché quando un Paese permette che l’arbitrio diventi prassi, il risultato non è solo una giustizia inefficiente, ma una democrazia svuotata del proprio senso. E allora la domanda torna, inevitabile, come un’eco della vicenda di Josef K.: cosa resta della legalità, quando chi è chiamato a garantirla vive fuori dalla legge? Non è una questione tecnica. È la ferita più delicata della nostra civiltà giuridica. E finché continueremo a fingere che non sia così, continueremo a camminare in quel mondo dove — come accade nel romanzo — le colpe si decidono in stanze opache, e l’innocenza non è un diritto, ma una concessione.
M.P.
Silere non possum