Ci sono santi che parlano con i gesti, altri che predicano con la parola, e poi ci sono quelli che restano in silenzio, ma la loro vita diventa un grido che attraversa i secoli. San Paolo della Croce appartiene a quest’ultima categoria. Non cercò mai la notorietà, né l’approvazione; cercò Dio, e nel farlo scoprì che Dio si lascia trovare soltanto lì dove l’uomo di solito non vuole sostare: nella sofferenza che redime, nel silenzio che purifica, nella croce che illumina.
Celebrarlo oggi significa tornare a quella sorgente che non smette di interrogare la Chiesa: da dove nasce la fede? Non dal fervore emotivo, ma da un amore che sa abbandonarsi. Paolo comprese che la perfezione cristiana non consiste in uno sforzo titanico per conquistare Dio, ma nel lasciarsi prendere da Lui, nel consentire che la propria volontà si immerga nella sua. «Abbandonarsi» non è rinuncia, è atto di libertà: la decisione di fidarsi quando non si vede nulla, di restare fermi nel bene anche quando il bene costa tutto. Solo in questo atto, che è come un precipizio d’amore, il cuore trova finalmente pace.
Questa fiducia radicale nasce da una convinzione che attraversa ogni pagina della sua spiritualità: la Passione di Cristo è la via più breve e più certa per arrivare a Dio. Non una meditazione astratta, ma una realtà viva, quotidiana, che scolpisce la vita di chi la contempla. Per Paolo, la Croce non è un simbolo da onorare, ma un luogo da abitare. È lì che l’uomo conosce sé stesso, lì che si libera dall’illusione di potersi salvare da solo. Nelle piaghe di Cristo egli vede non il fallimento, ma la sorgente della gioia. Il dolore non è idolatrato, è trasfigurato: si fa linguaggio di un amore che non si difende, ma si dona fino all’estremo.
Nelle sue lettere Paolo invita spesso a “dimorare nel costato di Gesù”. È un’immagine ardita, ma potentissima: rientrare nel cuore di Cristo per imparare a leggere ogni cosa con i suoi occhi. Nel mondo che cambia, nel lavoro, nelle fatiche, nella preghiera arida, ogni evento diventa allora una parola pronunciata da Dio. Chi impara a leggere così, non si agita più: accetta ogni cosa come proveniente direttamente dalla mano del Padre. Non è rassegnazione, ma una forma di amore che riposa nella fiducia. È il vertice di quella “rassegnazione filiale” che non cancella la lotta, ma la trasfigura in pace.
Nel cammino interiore, Paolo insegna a diffidare delle consolazioni sensibili. La fede, quando è matura, diventa nuda: non cerca appigli, non ha bisogno di luci né di emozioni. È un atto semplice e puro che, proprio nell’oscurità, riconosce la presenza di Dio più reale che mai. Questa “notte” non è un castigo, ma un dono: è lo spazio in cui la creatura smette di misurare Dio con le proprie categorie e finalmente Lo lascia essere Dio. Chi entra in questa notte sperimenta anche una gioia segreta: la gioia della compiacenza, quella che nasce dal sapere che Dio è, e che basta così. È un amore sobrio, fatto di silenzio e gratitudine. Non urla, non pretende. È il riflesso del Cristo che tace sulla croce e, tacendo, redime.
Per questo, l’orazione di Paolo è un ritorno all’essenziale. Non moltiplicare parole, ma stare. Pregare “in spirito e verità” significa posarsi in Dio come un bambino nel grembo della madre: senza immagini, senza concetti, in un silenzio che non è vuoto, ma pienezza. In quel silenzio l’uomo scopre che non deve più fare nulla per meritare l’amore, ma solo accoglierlo. E da quel silenzio nasce la carità attiva, la forza di servire gli altri con libertà, senza ansie di successo o di riconoscimento.
Questo atteggiamento di libertà attraversa ogni gesto di questo grande santo. Egli sapeva che l’attaccamento, anche alle cose buone, diventa una prigione. Per questo predicava il distacco, non come disprezzo del mondo, ma come custodia del cuore. Solo un cuore libero può amare veramente. Il distacco non è fuga, ma “astrazione”: la capacità di restare interiormente in Dio anche quando il mondo chiede tutto. È una disciplina del cuore che si impara lentamente, lasciando che ogni cosa — anche le più amare — venga ricevuta da Dio e restituita a Lui. Quando l’anima arriva a questo punto, dice Paolo, non vive più per sé stessa, ma “si perde” in Dio. È il mistero dell’abisso: l’uomo che si lascia cadere nel Tutto e, perdendosi, si ritrova. Come una fiamma che si consuma nella luce, la creatura diventa ciò che contempla. Non si dissolve, si compie.
Eppure, in questa ascesa mistica, Paolo non dimentica mai il mondo. La sua ricerca di Dio non lo allontana dalla realtà, lo rende più capace di amarla. Le creature non sono ostacoli, ma specchi della Bellezza. Un fiore, una montagna, un tramonto: tutto parla di Dio. Tutto diventa invito a lodarlo. È la contemplazione che non scappa dal mondo, ma lo ascolta fino a sentirvi il palpito del Creatore. Celebrando oggi la sua solennità, la domanda che ci lascia è semplice e terribile insieme: abbiamo ancora il coraggio di credere che Dio si lasci trovare nella Croce? In un tempo che fugge la fatica, la prova e il silenzio, Paolo della Croce ci chiede di tornare lì, al punto sorgivo dove l’amore non si misura e la fede non si spiega. Cercare Dio, per lui, non è cercare emozioni, ma accettare di essere cercati da Dio nel dolore che salva. E forse è proprio questo il miracolo che ci serve oggi: riscoprire che la Croce non toglie la gioia, la fonda. San Paolo della Croce lo sapeva bene: solo chi si lascia crocifiggere con Cristo può risorgere con Lui.
p.G.A.
Silere non possum