Nella Chiesa cattolica, l'incardinazione è il legame giuridico e pastorale che unisce un chierico a una Chiesa particolare o a un'istituzione ecclesiastica. Questo principio assicura che ogni sacerdote abbia una chiara appartenenza e una guida spirituale e disciplinare. Il Vescovo diocesano, in quanto pastore della sua Chiesa particolare, ha infatti il compito di governare il clero con saggezza, accompagnando i presbiteri nella loro missione e vigilando sulla loro condotta. 
Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che i Vescovi diocesani sono tenuti a reggere le Chiese particolari loro affidate come vicari e legati di Cristo «col consiglio, la persuasione, l’esempio ma anche con l’autorità e la sacra potestà».

I Chierici Acefali

Il Codice del 1917 stabiliva che, attraverso la tonsura, il chierico venisse incardinato in una Diocesi o in un Istituto religioso. Questo principio era sancito dal can. 111 §2: “Per receptionem primae tonsurae clericus adscribitur seu, ut aiunt, incardinatur diocesi pro cuius servitio promotus fuit”.
L’incardinazione era strettamente connessa al titolo canonico di ordinazione, che garantiva il sostegno economico del chierico. In tal modo, lo scopo dell’incardinazione nel CIC del 1917 era principalmente quello di tutelare e disciplinare il clero. Il vincolo con la Diocesi, assunto mediante giuramento, era permanente; tuttavia, era possibile ottenere l’escardinazione nel caso in cui si ricevesse un beneficio residenziale in un’altra Diocesi. Ciononostante, il trasferimento da una Diocesi all’altra era sconsigliato e l’ordinario non poteva incardinare un chierico proveniente da un’altra Diocesi senza una dichiarazione esplicita di quest’ultimo riguardo alla sua volontà di legarsi stabilmente alla nuova realtà ecclesiastica.

Nel Codice del 1983, riformato da Papa Francesco, si afferma: “Ogni chierico deve essere incardinato o in una Chiesa particolare, o in una Prelatura personale, oppure in un istituto di vita consacrata o in una società che ne abbia la facoltà, o anche in un’Associazione pubblica clericale che abbia ottenuto tale facoltà dalla Sede Apostolica, in modo che non siano assolutamente ammessi chierici acefali o girovaghi” (Can. 265 CJC).
L’incardinazione avviene con l’ordinazione diaconale e disciplina: l’obbligo di servizio presso una Chiesa particolare o un’altra struttura prevista dal diritto canonico; il diritto a un adeguato sostentamento; la tutela della disciplina ecclesiastica. L’attuale normativa sull’incardinazione mira, dunque, a impedire la presenza di chierici privi di riferimento o vaganti all’interno della Chiesa.

Il legame dei presbiteri con la diocesi

I presbiteri, per mezzo del sacramento dell’Ordine, vengono consacrati per annunciare il Vangelo, guidare il popolo di Dio e celebrare il culto divino, in quanto veri sacerdoti del Nuovo Testamento. Essi partecipano, secondo il grado proprio del loro ministero, alla missione dell’unico mediatore, Cristo. Ogni presbitero deve essere incardinato in una Chiesa particolare, in una prelatura personale, in un istituto di vita consacrata, in una società di vita apostolica che ne abbia la facoltà o in un’Associazione pubblica clericale autorizzata dalla Sede Apostolica (cfr. can. 265). Tra il Vescovo diocesano e i suoi presbiteri esiste una communio sacramentalis, fondata sul sacerdozio ministeriale o gerarchico, che rappresenta una partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo.

Il rapporto di subordinazione del presbitero al Vescovo diocesano si basa sul sacramento dell’Ordine e sull’incardinazione nella diocesi, non limitandosi al solo dovere di obbedienza richiesto ai chierici nei confronti del proprio Ordinario (cfr. can. 273) o alla funzione di vigilanza esercitata dal Vescovo (cfr. can. 384).

Negli anni passati, nella Chiesa si sono verificati numerosi abusi in questo ambito. Alcuni vescovi, convinti di poter governare la Chiesa secondo le proprie idee e convinzioni personali, hanno ordinato sacerdoti uomini che non appartenevano alla loro diocesi, senza che questi avessero mai frequentato neppure un giorno di seminario. Spesso queste persone vagavano da una diocesi all’altra, finché non venivano accolte dal “vescovo benevolo e comprensivo”, il quale le inseriva nel presbiterio senza che avessero alcun legame, né affettivo né giuridico, con quella Chiesa particolare.

Questa pratica è fortemente sconsigliata e ha richiesto, in diverse occasioni, un intervento deciso da parte della Santa Sede, che in alcuni casi è giunta persino a estromettere i vescovi dal governo della loro diocesi. L’accoglienza indiscriminata di chierici girovaghi rappresenta sempre un grave rischio e deve essere valutata con estrema prudenza, poiché l’esperienza dimostra che tali situazioni hanno spesso causato notevoli difficoltà alle diocesi e ai vescovi. Inoltre, l’ordinazione di presbiteri che non ricevono alcun incarico, né pastorale né spirituale, offre un’immagine distorta del sacerdozio, in netto contrasto con quanto affermato con forza dal Concilio Vaticano II. Il sacerdote, infatti, non è tale per sé stesso, ma per il popolo di Dio che gli viene affidato. Questo principio è stato recentemente ribadito anche da Papa Francesco: “Ogni vocazione, percepita nella profondità del cuore, fa germogliare la risposta come spinta interiore all’amore e al servizio, come sorgente di speranza e di carità e non come ricerca di autoaffermazione.”

Il vescovo e il presbiterio

Il vincolo di subordinazione canonica del presbitero al proprio Vescovo riguarda l’esercizio del ministero e gli atti ad esso connessi, oltre ai doveri generali dello stato clericale. Il Vescovo diocesano ha la responsabilità di seguire i presbiteri con particolare attenzione, ascoltandoli come collaboratori e consiglieri. Deve tutelarne i diritti e assicurarsi che adempiano con fedeltà ai doveri propri del loro stato. Inoltre, è tenuto a garantire che dispongano dei mezzi e delle istituzioni necessarie per il loro sviluppo spirituale e intellettuale, nonché a provvedere al loro sostentamento dignitoso e alla tutela sociale, secondo quanto previsto dal diritto canonico (cfr. can. 384).

Questo dovere di premura e vigilanza si estende a tutti gli aspetti della vita del presbitero. Il Vescovo diocesano ha l’obbligo di conferire a ogni presbitero un incarico o un ministero da svolgere a beneficio della Chiesa particolare in cui è incardinato (cfr. can. 266, § 1).

In questo contesto, il presbitero è tenuto a esercitare l’obbedienza ministeriale nei confronti del proprio Ordinario (cfr. can. 273) e a adempiere fedelmente i doveri legati al proprio ufficio (cfr. can. 274, § 2). Il Vescovo deve vigilare affinché i sacerdoti siano diligenti nell’espletamento delle loro responsabilità ministeriali (cfr. cann. 384 e 392), avvalendosi anche della visita pastorale come strumento di verifica (cfr. cann. 396-397). È chiaro che se al presbitero viene permesso di vivere fuori dal territorio diocesano e non vi è alcuna vigilanza sul suo operato, il vescovo ne è responsabile.

La responsabilità del Vescovo rispetto agli atti dei presbiteri

Il Vescovo diocesano non è giuridicamente responsabile per gli atti di un presbitero che violino le norme canoniche, universali o particolari. Tuttavia, ne risponde nel momento in cui, di fronte a tali trasgressioni, omette di adottare le misure necessarie.

Ciò avviene quando il Vescovo non si attiva per applicare i provvedimenti richiesti dalla normativa canonica (cfr. can. 384) oppure, pur essendo a conoscenza di comportamenti contrari al diritto o addirittura delittuosi da parte di un presbitero, non interviene con adeguati rimedi pastorali (cfr. can. 1341).

Le implicazioni civili e la frode ai danni dello Stato

Nel diritto canonico, il vescovo è tenuto alla verità e alla giustizia nella gestione della propria diocesi. Dichiarare che un presbitero svolge un incarico ministeriale quando ciò non corrisponde al vero può configurare un abuso del proprio ufficio (cfr. cann. 392, 1389). Tale atto costituisce una violazione dei doveri di governo pastorale e può portare a sanzioni canoniche, tra cui l’ammonizione, la sospensione o altre misure disciplinari imposte dalla Santa Sede.

Inoltre, se tale falsa dichiarazione è finalizzata a ottenere vantaggi indebiti per il sacerdote o per la diocesi, il vescovo potrebbe essere ritenuto colpevole di comportamento fraudolento, lesivo del bene comune e della giustizia ecclesiastica. Oltre alla responsabilità canonica, una dichiarazione falsa può configurare una frode ai danni dello Stato quando il presbitero, non avendone diritto, riceve fondi derivanti dall’otto per mille.  Questo contributo, destinato ai sacerdoti impegnati attivamente nel ministero pastorale, rappresenta un sostegno economico pubblico per chi svolge un servizio effettivo. Tuttavia, negli ultimi anni si discute sempre più sulla sua insufficienza, al punto che non riesce più a garantire il sostentamento nemmeno a coloro che esercitano il proprio ministero con dedizione. Se un vescovo certifica falsamente il ministero di un sacerdote, permettendogli di ricevere somme indebite, si configura un caso di indebita percezione di erogazioni pubbliche, un reato previsto dall’articolo 316-ter del Codice Penale italiano. In questo caso, sia il sacerdote che il vescovo potrebbero essere chiamati a rispondere davanti alla giustizia civile per la truffa ai danni dello Stato.

p.M.B.
Silere non possum