Nel contesto ecclesiale siamo sempre più tentati da quel terribile cancro che è la lamentela. Chierici e laici, nessuno ne è immune. Anzi, proprio il peso delle responsabilità pastorali, le fatiche quotidiane, la solitudine o l’incomprensione possono creare il terreno per un atteggiamento costante di lamentela, che però non porta né guarigione né cambiamento.
Esiste un tipo di lamentela che non è propositiva, non cerca soluzioni e non invoca conversione né in sé né negli altri. È una lamentela che ripete sempre gli stessi discorsi: “La gente non partecipa più, i giovani sono lontani, la parrocchia è ferma, i superiori non mi capiscono, nessuno mi aiuta…”.
Diverse tipologie di lamentela
Nel libro dell’Esodo, il popolo ebraico, appena liberato dalla schiavitù in Egitto, inizia a lamentarsi nel deserto: manca l’acqua, manca il cibo, le condizioni sono difficili. In Esodo 16, 2-3, leggiamo: “Tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne nel deserto.”
Dio ascolta, ma mette in guardia: la lamentela continua è il segno di un cuore che non si fida più del Suo progetto. È un atteggiamento che blocca la benedizione, alimenta la paura e distoglie dallo scopo.
Tuttavia, la Bibbia non censura il dolore. I Salmi di lamento (come il Salmo 13 o il Salmo 22) mostrano che si può piangere davanti a Dio, si può gridare, chiedere, lamentarsi… ma sempre con un cuore aperto alla fiducia, che alla fine riconosce la presenza di Dio anche nel dolore.
Una tentazione spirituale
Molte volte le nostre lamentele sono considerazioni che raccontano una verità, ma rischiano di farci ripiegare su noi stessi se non ci portano oltre l’ostacolo. I padri del deserto ci insegnano a fuggire chi si lamenta sempre, perchè rischia di appesantire anche chi ascolta la lamentela sterile.
“Che Dio ci liberi dalle persone malinconiche: sono un peso per sé e per gli altri”, diceva Santa Teresa, perché la lamentela continua rischia di minare anche le relazioni. La lamentela, inoltre, rischia di essere anche uno stile spirituale difensivo: mi protegge dal rischio di cambiare, di rimettermi in gioco, di farmi ferire ancora. E qui sta il punto: non tutto ciò che ci solleva dal lamento ci piace davvero. Perché lamentarsi, per quanto doloroso, è più facile che esporsi al cambiamento, all’ascolto, all’azione. La lamentela diventa una zona di comfort tossica.
Il pericolo del lamento sterile nel ministero
Quando la lamentela prende spazio nel cuore del presbitero, soffoca la voce della profezia. Invece di illuminare la realtà con la luce della Parola, si adotta uno sguardo umano, chiuso e pessimista. La creatività pastorale si spegne: ogni proposta appare inutile o irrealizzabile. Si trasmette stanchezza, scoraggiamento, che inevitabilmente contagia fedeli e confratelli. E si perde il senso della gratitudine: si dimentica la bellezza della chiamata ricevuta e si smette di riconoscere il bene che ancora esiste e opera.
Uscire dal lamento: atto di fede e libertà
Lamentarsi può sembrare più semplice che agire, ma non cambia nulla. È solo un suono che si consuma nel vuoto. Invece, scegliere di interrompere il lamento è un atto di fede, di fiducia nel Signore. È utile chiedersi: Sto parlando di questo problema per cercare una soluzione, o solo per giustificare la mia rinuncia? Quale parte di me si sente confortata dal lamentarsi? Cosa succederebbe se smettessi di lamentarmi e iniziassi a fare il primo passo? Il Vangelo non è un manuale di lamentele, ma un annuncio di Resurrezione. E questo vale anche per i momenti di crisi o fallimento. Se Gesù fosse rimasto a lamentarsi della durezza dei cuori o dell’incomprensione dei suoi discepoli, non ci sarebbe stata salvezza. Allora, anche nel ministero sacerdotale, nella vita comunitaria o nella quotidianità più semplice, scegliere di smettere di lamentarsi è un atto di Resurrezione: un “no” alla morte sterile della ripetizione, e un “sì” alla possibilità che qualcosa, in noi e attorno a noi, possa tornare a vivere. Smetterla di lamentarsi è un atto di fiducia verso Dio.
d.P.A.
Silere non possum