Salerno - Nelle scorse ore, Vatican News ha rilanciato con enfasi la notizia che riguarda tre seminaristi che sono stati inviati a fare servizio nel Borgo Laudato Si’: “Con le mani nella terra e il cuore nella missione, sostengono il ‘sogno’ ecologico di Francesco rilanciato da Leone XIV”. Una narrazione logora, ripetitiva, ossessiva. Una narrazione che potremmo definire, senza troppi giri di parole, stucchevole. Quella degli uomini di Jorge Mario Bergoglio è ormai una retorica ingiallita, che fatica a reggere il confronto con il pontificato di Leone XIV. Ma loro restano lì, in trincea, attaccati ai brandelli di un pontificato che vorrebbero eterno.

Nel lavoro quotidiano di questa redazione c’è, potremmo dire, un “indietrismo” — e qui le virgolette si impongono — che suonerebbe ironico persino a Papa Francesco. Non piace il nuovo corso. E non perché manchi chiarezza, ma perché è troppo chiaro per chi ha costruito il proprio potere ecclesiastico sull’ambiguità comunicativa, sull’estetica dell’equivoco e sull’idolatria del cambiamento.

Un esempio grottesco è offerto da Andrea Tornielli, il portavoce del bergoglismo mediatico, oggi impegnato a disseminare post infarciti di refusi sulle piattaforme social di Vatican News. Con sconcertante presunzione, ha lanciato una rubrica in cui pretende di spiegare le omelie e i discorsi di Leone XIV. Una rubrica patetica, che grida vendetta al buon senso ecclesiale. Un laico, per giunta analfabeta e confuso, che pretende di interpretare il Papa. Con quale autorità? Con quale mandato ecclesiale?

Del resto, Silere non possum ha già documentato l’ipocrisia tornielliana, quell’irreprensibile moralismo da tastiera che convive con l’uso sistematico di account anonimi impiegati per attaccare, denigrare e insultare con allusioni a sfondo sessuale (in modo particolare omofobo). Tornielli, che ama parlare di “discorsi d’odio”, è lo stesso che, al riparo della tastiera, lancia insulti sessualmente allusivi a chiunque osi contraddirlo. È questa, forse, l’immagine che il Dicastero per la Comunicazione vuole offrire al mondo? Un direttore editoriale incapace di contenersi, eppure convinto di poter rappresentare la voce del Papa?

Il seminarista con le mani pronte al lavoro

Ma torniamo alla notizia. Più che notizia, un racconto edificante partorito dalla penna emotiva di qualche redattore entusiasta. Vatican News ci informa che tre seminaristi messicani si trovano al “Borgo Laudato Si’”, il nuovo “laboratorio vivente” sorto nel solco della retorica ambientalista di Bergoglio. “Con le mani pronte al lavoro e il cuore acceso dalla vocazione, sono protagonisti di una storia silenziosa di servizio”, leggiamo. “Non ci sono campanelli o orari rigidi a scandire la giornata”. E ancora: “Si impara a servire in termini umani, ecologici e comunitari”. La fiera dell’aggettivo.

Una narrazione inquietante. Non tanto per ciò che dice, ma per ciò che rivela. C’è una teologia della formazione silenziosa ma pervasiva che disprezza la preghiera e canonizza l’attivismo. Una formazione che non parte dall’adorazione e dalla liturgia, ma dall’esperienza, dal “fare”, dall’orizzontalismo delle emozioni e del contatto con la terra. L’impressione — nemmeno troppo velata — è che i formatori abbiano perso la bussola. Non si capisce se inseguano il mondo o se siano proprio loro a voler plasmare un mondo ecclesiale a loro immagine. Molti si sono domandati — con legittimo sconcerto — a cosa serva mandare dei seminaristi al “Borgo Laudato Si’”.Che beneficio traggono? Che crescita spirituale possono sperare da un’esperienza in cui la liturgia scompare e l’ecologia prende il suo posto? Il problema, purtroppo, è ben più ampio e riguarda una visione distorta della formazione: riempire le giornate dei chierici fino all’ultimo minuto. Fare, fare, fare. Nessuno spazio per la solitudine, per il silenzio, per l’ascolto di Dio. Il riposo non è contemplato, la meditazione è tempo perso.

È il frutto avvelenato di una generazione di formatori cresciuti all’ombra del postconcilio, dove il sacro è diventato sospetto e il silenzio è stato sostituito dal laboratorio. “Con le mani pronte al lavoro”, scrivono: uno slogan che dice tutto e nulla, ma che delinea con inquietante chiarezza l’immagine del nuovo prete ideale. Non più l’uomo della preghiera, ma il funzionario della pastorale.

“Fare, fare, fare”. Un diktat. 

Qualche tempo fa abbiamo raccontato l’ennesimo disastro formativo: Giampiero Palmieri, vescovo pasticciere di vocazioni, incapace di distinguere tra uno zelante cultore della liturgia e un giovane da mandare in un centro di recupero. A un ragazzo che aveva espresso il desiderio di entrare in seminario, Palmieri propose un’esperienza nella comunità Nuovi Orizzonti, perché — parole sue — era “troppo legato alla liturgia”. Sarebbe da ridere, se non fosse tragico. Chi conosce davvero le dinamiche interne di quella comunità sa bene che la liturgia è considerata un orpello medievale, la preghiera è facoltativa, e la devozione vista con sospetto. Il seminarista, lì, è un alieno. Viene trattato con diffidenza, spesso delegittimato, talvolta insultato.

Eppure, continuano a mandarceli. I vescovi, come Palmieri, insistono. La motivazione? Rieducarli. Deprogrammarli. Scolarizzarli a una nuova ecclesiologia, in cui Cristo è solo un pretesto per il sociale e il sacerdote un operatore della solidarietà. Diversi seminaristi, purtroppo inviati in queste realtà, hanno raccontato esperienze al limite dell’assurdo: convivenza forzata con soggetti dediti all’uso di sostanze stupefacenti, contesti privi di alcun interesse spirituale, e una struttura “femminilizzata” e gerarchicamente opaca, gestita da quelle che si fanno chiamare “grandi donne responsabili”, figura chiave in una visione comunitaria marcatamente ideologica e derivata direttamente dalla fondatrice. Donne che pretendono che il chierico si confessi con loro! (Sic!). 

Le testimonianze raccolte dai seminaristi in differenti sedi di Nuovi Orizzonti convergono in un punto: totale assenza di una vita spirituale autentica e sistematica violazione delle più basilari indicazioni della Chiesa sulla formazione sacerdotale, senza dimenticare gli abusi di coscienza. In tali ambienti, l’identità vocazionale non solo non è riconosciuta, ma viene progressivamente erosa.


Del resto, il riferimento a Cristo in queste comunità appare funzionale – un mezzo per raccogliere fondi e costruire visibilità pubblica – ma privo di qualsiasi contenuto dottrinale o sacramentale reale. Nessuno mette in discussione il valore di aiutare chi è in difficoltà, ma trattare un seminarista come un tossicodipendente significa disconoscere la specificità della sua chiamata. Non è solo un errore pedagogico: è un tradimento ecclesiale. Molti seminaristi hanno abbandonato quelle esperienze con amarezza, accusati pubblicamente di essere “instabili” o “problematici” da parte di chi, evidentemente, non tollera alcuna critica. Un vescovo, con un minimo di buon senso, ha posto una domanda tanto ovvia quanto inascoltata: se non riescono a gestire nemmeno un seminarista, come possono pensare di prendersi cura di persone affette da dipendenze e fragilità estreme?

Il prete sociale

Ma il punto non è solo Nuovi Orizzonti. Il problema è strutturale e riguarda quei vescovi – come Giampiero Palmieri – che si dimostrano incapaci di custodire le vocazioni e finiscono per danneggiare le Chiese particolari loro affidate. Nel caso specifico, la diocesi di Ascoli Piceno ha perso una vocazione: quel giovane ha infatti scelto di proseguire il suo cammino in una comunità religiosa. Un esito eloquente, specie in un’epoca in cui le vocazioni sono sempre più rare e preziose.

Il danno però è doppio: non solo si sciupano vocazioni, ma si disorientano le comunità. Il giovane di Ascoli, respinto da Palmieri, ha scelto una comunità religiosa. La diocesi ha perso un futuro sacerdote. E non è un caso isolato. È la cifra di un episcopato sterile, incapace di generare figli spirituali perché affetto da impotenza teologica. Anche il caso dei tre chierici mandati al Borgo Laudato Si’ è figlio della stessa logica. La domanda è: a cosa serve, per la formazione sacerdotale, sradicare un seminarista dalla preghiera liturgica e dalle comunità parrocchiali per collocarlo in una “fattoria didattica”? Siamo al punto in cui alcuni vescovi sembrano voler “decristianizzare” le giovani vocazioni per poi “reindottrinarle” in un nuovo paradigma fatto di attivismo, emotività e una vaga spiritualità ecologista.

Ma il popolo di Dio — quello reale, non quello delle statistiche sinodali — non chiede preti agronomi. Non chiede esperti di permacultura. Chiede uomini di Dio. Sacerdoti innamorati di Cristo, capaci di annunciarlo con forza e dolcezza, di spiegare le Scritture, di consolare con i sacramenti. Il resto è rumore di fondo.

Infine, la perla. “Non ci sono campanelli o orari rigidi”. Il nuovo modello di seminarista non ha orari. Ma non è forse la liturgia il cuore della giornata presbiterale? Non è forse la regolarità della preghiera il respiro della Chiesa? Anche il prete diocesano, pur non essendo monaco, è chiamato alla fedeltà dell’ora sesta, della compieta, del mattutino. Esse servono proprio a richiamarlo a ciò che conta. 

Un tempo si mandavano i seminaristi al Benedetto Cottolengo. C’era la carità, sì, ma anche l’adorazione, la liturgia delle ore, la Santa Messa, la Confessione, ecc... Oggi li si manda a zappare, perché il problema non è il mondo. Il problema è che i vescovi hanno smesso di credere nel sacro. E, come scriveva Romano Guardini, “quando il sacro viene meno, non resta che la tecnica o l’ideologia”.

Siamo al bivio. O si torna a formare sacerdoti secondo il cuore di Cristo, o continueremo a perdere vocazioni che avrebbero potuto essere luminose. E questa perdita, stavolta, non sarà colpa del mondo. Sarà colpa nostra.

d.T.A.
Silere non possum