Castel Gandolfo - Un Papa con due radici, due identità e uno stesso cuore. Leone XIV, nato a Chicago ma cresciuto a lungo in Perù, è il primo pontefice statunitense della storia e, al tempo stesso, il primo a portare con sé la cittadinanza peruviana. Nella nuova biografia León XIV: ciudadano del mundo, misionero del siglo XXI di Elise Ann Allen, il Papa racconta se stesso senza filtri: il legame affettivo con l’America Latina, l’eredità di Papa Francesco, le sfide del ministero petrino, il sogno della pace in Ucraina e la sua visione di una Chiesa che cammina insieme, oltre le polarizzazioni che dividono il mondo.
Quella che segue è la prima parte di un dialogo schietto e intenso, in cui il Pontefice si lascia interrogare anche con leggerezza – fino a rivelare per chi tiferebbe in una finale di Coppa del Mondo tra Stati Uniti e Perù – ma senza mai perdere lo sguardo profondo di chi sa di dover confermare i fratelli nella fede.
Giornalista: Lei è due cose insieme: il primo papa proveniente dagli Stati Uniti, ma anche il secondo papa con una prospettiva, se così si può dire, latinoamericana. In quale di queste due identità si riconosce di più?
Papa Leone XIV: Credo che la risposta sia: in entrambe. Sono chiaramente americano, e mi sento tale, ma amo profondamente anche il Perù, il popolo peruviano: è parte di ciò che sono. Ho trascorso metà della mia vita ministeriale lì, quindi la prospettiva latinoamericana è per me di grande valore. Penso che questo emerga anche dalla stima che nutro per la vita della Chiesa in America Latina, che ha avuto un ruolo importante sia nella mia relazione con Papa Francesco, sia nella comprensione di alcune intuizioni della sua visione della Chiesa e di come possiamo continuare a portarla avanti come autentica profezia per la Chiesa di oggi e di domani.
Giornalista: Gli Stati Uniti giocano contro il Perù nella Coppa del Mondo. Per chi tifa?
Papa Leone XIV: Bella domanda. Probabilmente per il Perù, semplicemente per i legami affettivi. Sono anche un grande appassionato dell’Italia… Tutti sanno che sono tifoso dei White Sox, ma da papa sono tifoso di tutte le squadre. Già a casa mia, da bambino, ero tifoso dei White Sox, ma mia madre era una fan dei Cubs. Non potevi permetterti di chiudere la porta in faccia all’altra squadra, altrimenti rischiavi di rimanere senza cena! Abbiamo imparato, persino nello sport, ad avere un atteggiamento aperto, dialogico, amichevole, non rabbioso.
Giornalista: È nei suoi primi mesi da papa. Come intende il ruolo del papato?
Papa Leone XIV: C’è ancora molto da imparare. Una parte del ministero petrino, quella pastorale, l’ho potuta assumere senza troppa difficoltà. Anche se sono rimasto sorpreso dalla risposta che ricevo, dall’accoglienza delle persone di ogni età… Apprezzo ciascuno, chiunque sia, con la sua storia, e cerco di ascoltarlo. L’aspetto totalmente nuovo di questo compito è essere proiettato al livello di leader mondiale. È una dimensione pubblica: tutti sanno delle conversazioni telefoniche o degli incontri che ho con i capi di Stato di diversi Paesi. E in un tempo in cui la voce della Chiesa può avere un ruolo significativo, sto imparando molto su come la Santa Sede abbia avuto un peso nel mondo diplomatico per molti anni. Per me tutto questo è nuovo, almeno nell’esperienza diretta. Ho sempre seguito l’attualità, cercando di essere informato, ma il ruolo di papa è senz’altro qualcosa di diverso. È una grande sfida, ma non mi sento sopraffatto: è stato come essere gettato subito nella parte più profonda della piscina. Essere papa, successore di Pietro, chiamato a confermare gli altri nella fede – che è l’aspetto più importante – è qualcosa che può avvenire solo per grazia di Dio, non c’è altra spiegazione. Solo lo Spirito Santo può spiegare come io sia stato eletto a questo ufficio, a questo ministero. Per la mia fede, per ciò che ho vissuto, per la mia comprensione di Gesù Cristo e del Vangelo, ho detto: sì, eccomi. Spero di poter confermare gli altri nella fede, perché questo è il compito fondamentale del Successore di Pietro.
Giornalista: Uno dei temi che lei ha più a cuore è la pace. Lo ha ripetuto in diversi contesti di conflitto, ma in particolare riguardo all’Ucraina. Quanto è realistico pensare oggi a un ruolo della Santa Sede come mediatrice in quel conflitto?
Papa Leone XIV: Io farei una distinzione tra la voce della Santa Sede nell’invocare la pace e un vero e proprio ruolo di mediazione. Sono due cose diverse, e credo che la seconda sia meno realistica, almeno in questo momento. Penso però che si sia ascoltata la voce che ho cercato di alzare – la voce dei cristiani e delle persone di buona volontà – per dire che la pace è l’unica risposta. Dopo anni di uccisioni inutili, da entrambe le parti, in questo conflitto e in altri, bisogna svegliarsi e riconoscere che c’è un altro modo di affrontare le divergenze. Quanto alla mediazione, sì, un paio di volte abbiamo offerto di ospitare incontri tra Ucraina e Russia, in Vaticano o in altre proprietà ecclesiastiche. Sono ben consapevole delle implicazioni di un simile ruolo. Dall’inizio della guerra la Santa Sede ha fatto grandi sforzi per mantenere una posizione che, pur difficile, non fosse schierata da una parte o dall’altra, ma davvero neutrale. Alcune cose che ho detto sono state interpretate in un senso o nell’altro, ed è normale. Tuttavia credo che oggi la priorità non sia tanto la mediazione, quanto spingere vari attori a far sì che le parti in guerra dicano: “Basta, cerchiamo un’altra via per risolvere i nostri conflitti”. Continuiamo a sperare. Io credo fortemente che non si debba mai perdere la speranza. Ho molta fiducia nella natura umana, anche se esistono lati oscuri, persone che agiscono per interesse o per tentazioni. In ogni campo trovi motivazioni nobili e motivazioni meno nobili. Ma dobbiamo incoraggiare tutti a guardare ai valori più alti, ai valori autentici: questo fa la differenza. Si può avere speranza, e continuare a proporre, a insistere, a dire: facciamolo in un altro modo.
Giornalista: Nel suo primo discorso dalla loggia di San Pietro ha parlato di pace e di ponti da costruire. Quali sono i ponti che desidera erigere? Politici, sociali, culturali, ecclesiali… quali sono?
Papa Leone XIV: Anzitutto, il modo di costruire i ponti è soprattutto il dialogo. In questi primi mesi ho avuto la possibilità di incontrare diversi leader di organizzazioni internazionali e di Stati. In teoria, le Nazioni Unite dovrebbero essere il luogo dove affrontare queste questioni. Purtroppo, sembra che oggi si riconosca ampiamente che l’ONU abbia perso la capacità di riunire le persone sui grandi temi multilaterali. Molti dicono: bisogna andare sul piano bilaterale, per rimettere insieme i pezzi, perché a livello multilaterale ci sono troppi ostacoli. Dobbiamo ricordarci sempre del potenziale che l’umanità ha per superare la violenza e l’odio che ci dividono sempre di più. Viviamo in tempi in cui la parola polarizzazione sembra diventata una delle più ricorrenti. Ma non aiuta nessuno. E se aiuta qualcuno, sono davvero pochi, mentre tutti gli altri soffrono. Continuare a porre queste domande, a non smettere di interrogarci, credo sia fondamentale.
Giornalista: Proprio la polarizzazione era la mia prossima domanda, perché è un termine ricorrente oggi, dentro e fuori la Chiesa. Come pensa che si possa affrontare?
Papa Leone XIV: Una cosa è nominare il problema, parlarne. Ma credo sia molto importante avviare una riflessione più profonda: perché il mondo è così polarizzato? Che cosa sta accadendo? Ci sono molte cause che hanno portato a questa situazione. Non pretendo di avere tutte le risposte, ma vedo i frutti. La crisi del 2020 e la pandemia hanno certamente inciso, ma credo che l’origine sia precedente… In alcuni contesti c’è stata una perdita del senso più alto della vita umana, del valore della persona, della famiglia, della società. E se perdiamo il senso di questi valori fondamentali, che cosa rimane davvero importante? A questo si aggiungono altri fattori: uno molto significativo è il divario sempre più ampio tra i redditi della classe lavoratrice e le ricchezze dei più abbienti. Sessant’anni fa un amministratore delegato guadagnava forse quattro o sei volte più di un operaio; l’ultima cifra che ho visto dice che oggi guadagna seicento volte di più. Ieri è uscita la notizia che Elon Musk potrebbe diventare il primo trilionario al mondo. Che cosa significa? Che cosa racconta di noi? Se questo è l’unico valore che resta, allora siamo in guai seri…
Giornalista: A proposito di sinodalità, lei stesso ha detto che molti fanno ancora fatica a comprenderne il senso. Come la definirebbe?
Papa Leone XIV: La sinodalità è un atteggiamento, un’apertura, una disponibilità a comprendere. Nella Chiesa significa che ogni persona ha una voce e un ruolo da vivere attraverso la preghiera, la riflessione, un processo fatto di dialogo e di rispetto reciproco. Si tratta di creare occasioni di incontro, di riconoscere il valore della relazione e della comunione: questo è un aspetto fondamentale della vita ecclesiale. Alcuni si sentono minacciati. Vescovi o preti temono che la sinodalità tolga loro autorità. Ma non è questo il senso. Forse è la loro stessa idea di autorità a essere un po’ distorta. La sinodalità descrive piuttosto il modo in cui possiamo camminare insieme come comunità, cercando la comunione, perché la Chiesa non è innanzitutto una gerarchia istituzionale, ma un “noi insieme”, una Chiesa-comunione. Ogni persona, con la propria vocazione – sacerdoti, laici, vescovi, missionari, famiglie – ha un ruolo e un contributo. Insieme cerchiamo la strada per crescere ed essere Chiesa. È un atteggiamento che, credo, ha molto da insegnare al mondo di oggi. Poco fa parlavamo di polarizzazione: ecco, la sinodalità è una sorta di antidoto. È un modo per affrontare le sfide più grandi del nostro tempo. Se ascoltiamo il Vangelo, se riflettiamo insieme, se proviamo a camminare gli uni accanto agli altri, cercando di capire cosa Dio oggi ci stia dicendo, lì c’è tanto da guadagnare. Spero davvero che il processo avviato molto prima dell’ultimo sinodo, almeno in America Latina – ho raccontato la mia esperienza lì – possa continuare a crescere. Parte della Chiesa latinoamericana ha dato un contributo reale alla Chiesa universale. Credo che ci sia una grande speranza se sapremo valorizzare l’esperienza degli ultimi anni e trovare nuove forme per essere Chiesa insieme. Non per trasformarla in una sorta di governo democratico – perché se guardiamo a tanti Paesi nel mondo, vediamo che la democrazia non è affatto la soluzione perfetta a tutto – ma per rispettare e comprendere la vita della Chiesa per ciò che è, e dire: “Dobbiamo farlo insieme”. Questa è un’opportunità grande per la Chiesa, ma anche per il mondo, con cui la Chiesa può e deve dialogare. Dal Concilio Vaticano II in poi questo è stato un passo significativo. C’è ancora molto da fare.