The superiors of the Cistercian order reflected on abuses of power last week

Si è svolto a Roma, presso la Casa Generalizia dell'Ordine Cistercense, il Corso dei Superiori rivolto ai monaci e alle monache che sono stati eletti alla guida di una comunità negli ultimi 5 anni.

L'attenzione è stata focalizzata sul tema degli abusi di coscienza e sull'esercizio dell'autorità. Si tratta di una tematica particolarmente cara ed urgente, al momento, ma non è certamente l'unica. Se da un lato dobbiamo prestare attenzione a ciò che porta, a volte, ad abusare della propria autorità; dall'altro bisogna concentrarsi sul tema delle vocazioni e sull'importanza della preghiera e della fedeltà alla regola all'interno delle numerose comunità sparse per il mondo.

A guidare gli incontri è stato chiamato il monaco John Mark Falkenhain, dell'arciabbazia di Saint Meinrad nella contea di Spencer, Indiana. Il religioso è psicoterapeuta ed ha una lunga esperienza di accompagnamento di sacerdoti, religiosi e religiose. I suoi interventi sono stati particolarmente interessanti ed hanno toccato: l'ambito della vita affettiva, i rischi del narcisismo, l'obbedienza, la formazione e la vita monastica. 

Dopo di lui è intervenuta anche una professionista nell'ambito della formazione e della psicologia.

Una settimana intensa che ha visto i superiori cistercensi visitare anche l'abbazia territoriale di Subiaco accompagnati dall'abate generale Mauro Giuseppe Lepori, OCist.

Il corso è stato aperto da un interessante intervento dell'abate generale che vi proponiamo.

Discorso di P. Mauro Giuseppe Lepori

Autorità e libertà

Proporre un cammino di conversone

Per capire cosa significhi esercitare una responsabilità nella Chiesa e nell'ambito monastico senza abusare del potere e della coscienza è più utile approfondire il tema in positivo che in negativo, anche per capire che se ci sono delle derive abusive nei nostri superiori o nelle nostre comunità, la soluzione è più una conversione che una correzione. Spesso cerchiamo di correggere gli atteggiamenti sbagliati senza individuare che conversione sia necessaria perché una persona, una comunità o una situazione possano correggersi. Invece, Cristo è venuto a correggere l'umanita proponendo un cammino di conversione, e un cammino di conversione alla sequela di È importante capire questo. Penso facciamo tutti esperienza, a qualsiasi livello dell'impegno pastorale che ci è affidato, che ogni tentativo di correzione senza proporre un cammino di conversione rimane sterile, non dà frutto, non cambia nulla, peggiora la situazione. La tentazione di voler correggere senza proporre un cammino di conversione contraddice un principio per me fondamentale espresso da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium: che è più importante iniziare processi di vita che conquistare spazi di potere.

Rileggiamo questo paragrafo dell' Evangelii gaudium: "Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell'attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di poter al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti pci risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci" (EG 223)

Quando analizzo le situazioni di abuso di potere e di coscienza che arrivano ad un punto estremo di crisi, come un ascesso che scoppia, non faccio fatica a riconoscere a livello di una determinata persona o comunità quello che il Papa descrive qui per la società intera. Tante volte succede che anche nei monasteri "per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione", certe persone si oppongano a favorire processi che generano pazientemente la vita della comunità, anche nell'ambito economico, ma che sono necessariamente processi di comunione, di servizio reciproco, di umile affermazione dell'altro più che di se stessi.

Un pericolo già previsto nel Vangelo

Ma ben prima che il Papa, di questo ci parla tutta la tradizione monastica, ci parla la Regola di san Benedetto, e anzitutto e attraverso tutto, di questo ci parla Gesù stesso nel Vangelo.

È interessante notare che Gesù, parlando di autorità e potere nella comunità cristiana, mette immediatamente in guardia contro il pericolo di abusarne:

"Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo. Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: "Il mio padrone tarda" cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l'aspetta e a un'ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti." (Mt 24,44-51)

Nutrire e guidare

Il primo aspetto che rende drammatica ogni responsabilità nella Chiesa, a tutti i livelli, è il quadro escatologico nel quale essa è affidata e richiesta. Gesù ci chiede di viverla dentro la vigilanza per la venuta del Figlio dell'uomo. Chi riceve un potere nella Chiesa non è invitato a pensare anzitutto allo spazio dentro il quale esso deve essere esercitato, ma al tempo determinato dall'imminenza imprevedibile della venuta di Cristo. L'autorità va vissuta "tenendosi pronti" ad accogliere il Figlio dell'uomo che viene a dar compimento all'universo e alla storia. Questo "tenersi pronti" è un'attenzione molto densa, che non si limita a guardare le nuvole nell'attesa di Cristo, come hanno fatto istintivamente gli apostoli dopo la sua ascensione: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo" (At 1,11)

Nella parabola che abbiamo appena letto Gesù dice esplicitamente cosa bisogna guardare invece che alle nuvole: "Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così!" (Mt 24,45-46)

Il servo è messo a capo dei suoi compagni di servizio "per dare loro il cibo a tempo debito".

Questa immagine ci può sembrare un po' terre à terre, eppure anche al primo degli apostoli, Pietro, cioè alla massima autorità nella Chiesa, nel momento culminante della sua vocazione non è stato affidato da Gesù Risorto altro compito che questo:

«Quand ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci i miei agnelli". Gli disse di nuovo, per la seconda volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pascola le mie pecore". Gli disse per la terza volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: "Mi vuoi bene?" , e gli disse: "Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecore".» (Gv 21,15-17)

Gesù ha appena dato da mangiare ai discepoli: "Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro..". Un pasto di pesce, preparato da Gesù stesso e aumentato dai pesci portati dai discepoli, ma pescato grazie al miracolo reso possibile dalla presenza e dal comando del Risorto (cfr. Gv 21,1-14). È in questo quadro eucaristico che Gesù chiede a Pietro il suo amore per corrispondere al Suo che ha dato per lui e per tutti la vita sulla Croce. Ed è in questo quadro eucaristico che Gesù dà a Pietro e alla Chiesa la missione di pascere il gregge. "Pascere" vuol dire anzitutto nutrire, far mangiare le pecore, preoccuparsi che trovino pascolo, luoghi in cui possano mangiare erba verde e bere acqua fresca.

È ciò che esprime il bel Salmo 22: "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l'anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. (...) Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca." (Sal 22,1-5)

Nei tre "Pasci!" che il Risorto domanda a Simon Pietro, il Vangelo utilizza due verbi greci: bosko (Gv 21,15.17) e poimaino (Gv 21,16). Il primo allude al fatto di "procurare il cibo" al gregge, il secondo sembra si riferisca più al compito complessivo di "pascere" il gregge, cioè di guidarlo, sorvegliarlo, proteggerlo, ma sempre anche di procurargli acqua e cibo fresco. Perché, infatti, si fa pascolare un gregge, lo si guida, se non per condurlo, come dice appunto il Salmo 22, a pascoli erbosi e ad acque tranquille?

Ogni ruolo pastorale nella Chiesa, ogni autorità data da Cristo sulle pecore e il gregge, contiene sempre il compito fondamentale di nutrire gli agnelli, le pecore, il gregge, affinché vivano, affinché crescano, affinché possano essere fecondi e diventare capaci a loro volta di pascere altre pecore, di nutrire e guidare altri greggi.

Il ruolo essenziale del pastore è quello di nutrire le pecore perché abbiano la vita.

Gesù lo dice e ripete nel capitolo 10 di Giovanni: "lo sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore" (Gv 10,11). Come la dà? Facendosi Pane vivo, donando il suo Corpo e versando il suo Sangue come cibo e bevanda di vita eterna (cfr. Gv 6).

Il Pane è la Parola di Dio

Questo dono sacramentale di Cristo non è semplice pane, non è semplice vino. È il Verbo di Dio fattosi carne (Gv 1,14). Infatti, come lo ricorda Gesù stesso al demonio per opporsi alla sua tentazione "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Nella fonte di questa parola nel Deuteronomio, Mosè spiega che anche il dono della manna, del nutrimento fisico che Dio dà al popolo, è per condurci a nutrirci della parola di Dio: "Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore." (Dt 8,3)

Il pane della Parola di Dio nutre e guida il popolo e solo ponendosi al servizio dell'ascolto della Parola di Dio, del Verbo di Dio che è Cristo, del Vangelo, il pastore pasce veramente le pecore, le nutre, le guida, le protegge, le libera.

Per questo, quando è sorto un malcontento nella comunità cristiana riguardo alla distribuzione del cibo materiale, subito gli apostoli hanno capito che l'essenziale per loro era di servire il pane della Parola: "Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense" (At 6,2).

E interessante notare che poi anche per i diaconi, istituiti per servire alle mense, il ministero su cui si insisterà maggiormente non sarà questo servizio pratico, ma ancora e sempre quello della Parola di Dio, dell'annuncio, della catechesi, della testimonianza pubblica. L'esempio di santo Stefano mostra con chiarezza che anche i diaconi è soprattutto con l'annuncio della Parola che danno la loro vita per le pecore.

Non posso approfondire questo tema come meriterebbe. Ma ci tengo a sottolineare che se vogliamo capire come siamo chiamati a svolgere una responsabilità pastorale nelle nostre comunità e nell'Ordine, a tutti i livelli, e se vogliamo capire come evitare o riparare gli abusi di potere, è importante mettere a fuoco questo aspetto. Se l'autorità nella Chiesa è chiamata a pascere le pecore, il gregge, se è chiamata a nutrire e guidare i fratelli e le sorelle, non dobbiamo dimenticare che questo ministero è per Cristo e per la Chiesa essenzialmente un servizio della Parola di Dio, della Parola che sola nutre veramente il cuore degli uomini e li guida sul giusto cammino.

Ho già ripetuto in varie occasioni l'ultima parola che l'abate Godefroy di Acey mi ha detto prima di lasciare la casa di montagna di Hauterive per l'escursione in bicicletta e in montagna in cui ha trovato la morte nel pomeriggio del 3 agosto scorso. Aveva raggiunto me e un altro confratello il giorno prima e doveva restare con noi una settimana. Come ho raccontato, al momento della sua partenza stavo dipingendo un acquerello di un pastore in cammino circondato da una dozzina di pecore. Si era chinato a guardarlo, e gli dissi che non era riuscito perché qualcosa non mi soddisfaceva nelle proporzioni fra il pastore e le pecore. Lui mi disse, e fu praticamente l'ultima parola della sua vita: "No, va bene. Ma si dovrebbe mettere le orecchie alle pecore!"

Questo consiglio, da allora, non mi stanco di meditarlo, e capisco che allude al compito essenziale che san Benedetto assegna all'abate del monastero. Ne parlavo recentemente nell'omelia della Benedizione dell'abbadessa di Seligenthal:

«San Benedetto era estremamente cosciente che il primo servizio dell'autorità è il servizio della Parola di Dio da offrire costantemente ai fratelli e sorelle come luce dei passi sul cammino che ci conduce alla vita eterna. Sembra anzi che tutta la responsabilità del superiore, quella su cui sarà giudicato alla venuta di Cristo, sia proprio quella di un insegnamento che permetta ai fratelli e sorelle di ascoltare la chiamata del Verbo, la chiamata dello Sposo all'unione con Lui.

Scrive Benedetto nel capitolo 2 della Regola: "L'abate non deve insegnare, stabilire o comandare nulla che sia estraneo al comandamento del Signore; piuttosto le sue disposizioni e il suo insegnamento devono cadere nell'animo dei discepoli come un fermento di giustizia divina. Si ricordi sempre l'abate che nel tremendo giudizio di Dio saranno valutate tutte e due le cose: il suo insegnamento e l'obbedienza dei discepoli." (RB 2,4-6)

L'obbedienza dei discepoli, prima che un "fare" è un "ascoltare", come lo suggerisce d'altronde l'etimologia ben nota del termine obbedienza: ob-audire. L'obbedienza e un ascolto intenso, che coinvolge tutta la libertà e decisione, che coinvolge il cuore. Senza di essa, difficilmente si può seguire Cristo con tutto il cuore, cioè non solo esteriormente, apparentemente, ma realmente, con tutto se stessi. L'ascolto dei discepoli deve perciò essere la preoccupazione prioritaria di chi li guida.»

(Benedizione Madre Christiane, Seligenthal, 19.08.2023)

Il campo dell'autorità è la libertà

Essere coscienti che san Benedetto rende il superiore o la superiora del monastero responsabile davanti al giudizio finale di Dio "del suo insegnamento e dell'obbedienza [cioè dell'ascolto] dei suoi discepoli" (RB 2,6) significa aver coscienza che il campo dell'autorità nella Chiesa, prima che essere la disciplina, il buon funzionamento e l'ordine delle persone e comunità, è essenzialmente la loro libertà attirata da Dio all'amicizia con Lui.

La nostra responsabilità non è anzitutto disciplinare, cioè: non siamo responsabili in primo luogo di ciò che i fratelli o le sorelle fanno o non fanno. San Benedetto era più preoccupato che le pecore del gregge "avessero orecchie" per ascoltare la voce del Signore, e questa è la responsabilità che ogni pastore di comunità deve avere, una responsabilità che si esercita prima di tutto con la propria obbedienza, il proprio ascolto della parola di Dio, della voce dello Sposo.

Questo vuol dire che non si lotta contro l'abuso di potere anzitutto con protocolli di comportamento per evitare gli errori e gli atteggiamenti sbagliati. Certo, anche questi ci vogliono, ma sono come argini che hanno senso e servono a qualcosa se il fiume scorre. Se il fiume è secco, gli argini sono inutili.

Anche san Benedetto mette in guardia l'abate contro possibili derive dell'esercizio della sua autorità, per esempio le preferenze di persone (RB 2,16ss), oppure la preoccupazione più per le cose "transitorie, terrene e caduche" che per le anime (RB 2,33). Oppure una tendenza al perfezionismo che porta a grattare tanto la ruggine da rompere il vaso (RB 64,12). O la gelosia verso i propri collaboratori (RB 65,22). Anche il non ricorrere al consiglio della comunità o degli anziani è un abuso in cui l'abate può cadere (RB 3,13). Anche il non correggere per viltà i fratelli viziosi può essere un grave abuso, un abuso di omissione nell'esercizio dell'autorità che ci è affidata (RB 2,26).

Nella Regola si possono fare molti esempi di come un superiore o il responsabile di un ambito della vita comunitaria possa cadere in un uso sbagliato della sua responsabilità.

Ma la grande e costante preoccupazione di san Benedetto è che l'abate edifichi l'ascolto dei fratelli con un insegnamento di sapienza attinto dalla Parola di Dio e della Chiesa. L'insegnamento che trasmette veramente la Parola di Dio, che trasmette veramente Cristo, il Verbo della vita, libera il cuore e l'anima delle persone perché non le attira a sé, a chi insegna, a chi governa, ma al Signore che chiama ognuno a seguirlo, che attira ognuno all'amicizia con Lui.

Quindo questo impegno viene trascurato, e purtroppo vedo che viene spesso triscurato, allora tutto quello che un superiore domanda, esige, consiglia, decide, permette o vieta, tutto può diventare abusivo, perché è come se non si rivolgesse alla libertà delle persone; non tanto alla libertà di scegliere, ma la libertà che Dio attira a Se con amore e come amore. Se non ci si rivolge a questa libertà, se non ci si rivolge al cuore fatto per Dio, si finisce per rivolgersi solo alla volontà di accettare o rifiutare di entrare in uno schema.

In altre parole: chi non trasmette la voce dello Sposo che chiama e attira i cuori all'unione con Lui e in Lui, immancabilmente propone una morale, delle regole di comportamento, non una vita, quella per cui siamo stati creati dal Padre e chiamati dal Figlio nel dono dello Spirito.

Un'autorità umile e povera

Vivere cosı̀ l'autorità, più che capacità, richiede povertà, richiede umiltà. Anzitutto una povertà di fronte a Dio, la povertà umile di ascoltare per primi, di avere per primi fame e sete della Parola di Dio più di ogni altra cosa. La povertà di rinunciare per primi a soddisfarci di altre cose, di altre soddisfazioni, che non siano Cristo stesso, lo Sposo che viene.

Il servitore infedele della parabola che citavo all'inizio è condannato perché oltre a maltrattare i suoi compagni, si mette a nutrirsi e ubriacarsi di quello che dovrebbe dare ai fratelli e non desidera più che il padrone ritorni. «Se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: "Il mio padrone tarda", e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l'aspetta e a un'ora che non sa, lo punirà severamente e gli in-liggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti.» (Mt 24,48-51)

Gesù lo de-inisce "ipocrita". Nel suo caso l'ipocrisia consiste nello sfruttare a suo vantaggio un compito che il padrone gli ha af-idato per il bene degli altri. Abusa del potere cercando il suo interesse invece di esercitarlo per l'interesse del suo prossimo e del padrone stesso. Mangia lui il cibo che dovrebbe distribuire. Prende per sé quello che dovrebbe donare se fosse obbediente e fedele: "Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito?" (Mt 24,45)

Dio ci affida un'autorità, un potere, per dare ai nostri fratelli e sorelle il cibo a tempo debito, per trasmettere agli altri il nutrimento di cui hanno bisogno secondo i momenti e le circostanze della vita. Mancare a questo per un interesse proprio è un abuso ipocrita della responsabilità ricevuta. L'autorità , la responsabilità , più che una funzione è un carisma. Dio ci dà i talenti e i doni necessari al bene e alla crescita dei fratelli, delle sorelle. È un dono dell'amore di Cristo, un dono del Buon Pastore, un dono che, quando ci manca, dobbiamo chiedere certi di riceverlo, perché Dio non ci nega mai ciò che è necessario al bene degli altri. Lo Spirito non nega mai ai pastori i doni necessari alla crescita e al cammino delle pecore.

Spesso, quando richiamo ai superiori il loro compito di insegnamento perché i fratelli o sorelle possano "avere le orecchie" per ascoltare il Signore e seguirlo con amore, e quindi per vivere la nostra vocazione con amore e gioia, mi dicono che non ne sono capaci, che si sentono vuoti, aridi, che non hanno idee. È una risposta che tradisce una falsa impostazione e comprensione dell'autorità. Infatti, non siamo chiamati a dare quello che viene da noi, a trasmettere idee nostre, parole nostre. Siamo chiamati a trasmettere la Parola di Dio. E questo non è possibile senza ricevere per primi quello che dobbiamo dare. Non è possibile dare senza domandare questo dono da trasmettere. E qui vedo spesso che è a questo livello il vero problema di noi superiori e superiore: non chiediamo a Dio la sua Parola. In altre parole: non ascoltiamo, o, in altre parole ancora: non facciamo silenzio.

Dare orecchie ai pastori

Raccontavo a un superiore generale la parola che mi aveva detto Dom Godefroy sulle orecchie delle pecore. E lui mi ha detto: "Molto vero! Però non sono solo le pecore che hanno bisogno delle orecchie, ne hanno bisogno anche i pastori!"

Certo! Anzi: soprattutto i pastori hanno bisogno di orecchie, di orecchie rivolte a Dio, a Cristo, ma anche ai fratelli e sorelle; di orecchie tese ai poveri. Tanti abusi nascono proprio dal fatto che certi superiori non ascoltano nessuno, ascoltano solo se stessi. Non ascoltano Dio nella preghiera, non ascoltano con umiltà i superiori sopra di loro,nonascoltanolacomunità,nonascoltanoiloroconsiglieri,ecc.

Sempre nella parabola che abbiamo meditato c'è una frase che ci aiuta a capire dove inizia l'abuso di potere di chi ha ricevuto un'autorità. È là dove Gesù dice: «Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: "Il mio padrone tarda"» (Mt 24,48).

È proprio qui che inizia l'abuso: nel dire a se stessi quello che fa comodo, quello che sembra darci più potere, più incolumità, nel coltivare nel cuore una falsa verità su Cristo e quindi su tutto e su tutti, una menzogna che non corrisponde alla realtà del Regno di Dio. Infatti il Signore in realtà viene presto, svela l'ipocrisia del servo malvagio e gli chiede conto di tutto.