C’è un errore che facciamo spesso, anche in buona fede: pensare che la Chiesa sia viva perché si muove. Che l’attività generi vitalità. Che la sinodalità, la pastorale, le reti e i convegni siano la garanzia di una fede che ancora brucia. Ma la vita cristiana non si misura con i numeri, né con le strategie.

Si misura con la santità. E la santità, per fiorire, ha bisogno di radici. Ne abbiamo parlato spesso in merito alla troppa attività che, a volte, porta i sacerdoti a perdere sé stessi.  Oggi, in un tempo in cui tutto galleggia in superficie, anche il cristianesimo corre il rischio di assottigliarsi fino a diventare una proposta di generica benevolenza, una retorica dell’accoglienza che consola ma non converte. Si annuisce, si accompagna, si accarezza — ma si tace. Pensiamo, ad esempio, a quanto poco ormai, come Chiesa, osiamo parlare della morte e dell’eternità. Abbiamo finito per adottare il linguaggio della società secolarizzata, che teme la morte al punto da rimuoverla, e così evita ogni discorso sull’aldilà. Ma un cristianesimo che non parla dell’ultimo giorno, che senso ha? Il Vangelo non è un atto di gentilezza: è un colpo di spada. Non è complicità col mondo, è trasfigurazione dell’uomo.

Eppure — lo sappiamo — nella maggior parte dei contesti ecclesiali non si annuncia più la salvezza, ma l’equilibrio. Non si parla più di grazia, ma di benessere. Come se il Vangelo fosse una tecnica di rilassamento spirituale.

Un bivio: adattarsi o fondarsi?

Ecco perché molti cristiani oggi si scoprono stranieri in casa propria. Non riconoscono più il linguaggio, la liturgia, le priorità della Chiesa. Si sentono disorientati, talvolta traditi, come se la fede fosse diventata un dialetto che non si parla più. E mentre la società accelera verso scelte antropologiche sempre più radicali — pensiamo alle normative su aborto, eutanasia, manipolazione genetica — il silenzio dei pastori è spesso assordante. I Vescovi, salvo rare eccezioni, sembrano rinunciare a pronunciare parole chiare, come se temessero di disturbare l’ordine del mondo.

Eppure, non è sufficiente lamentarsi. Occorre decidere. O ci si lascia assimilare da una cultura che è ormai post-cristiana, oppure si scelgono consapevolmente forme di vita alternative, capaci di custodire la fede e trasmetterla. Non si tratta di isolarsi, ma di fondare. Non di ritirarsi, ma di edificare. Con piccoli passi, con piccole comunità, con decisioni concrete: nella scuola, nel lavoro, nei legami, nella quotidianità, nella scelta di una liturgia che faccia spazio a Dio, non al nostro ego.

È in questo orizzonte che il pensiero di Rod Dreher, nel libro L’Opzione Benedetto, torna utile: non perché dica qualcosa di nuovo, ma perché articola con lucidità quello che molti vivono senza riuscire a dirlo.

“Per vivere come cristiani in un mondo che non lo è più, non basta resistere: bisogna ricostruire. Come fece Benedetto da Norcia. (…) Le comunità che non si strutturano su basi solide, crolleranno con tutto il resto.”

Non è un invito alla fuga, ma alla fondazione. Dreher non parla di monasteri fortificati, ma comunità intenzionali: famiglie che si scelgono, scuole che educano davvero, liturgie che rendano presente il mistero, vite che siano segni.

Benedetto XVI: una fede adulta, non emotiva

Anche Benedetto XVI, pur senza usare le stesse parole, ha parlato spesso di “minoranze creative”: piccole realtà capaci di tenere accesa la fiamma della fede in un mondo che l’ha spenta.

In Glaube und Zukunft ammoniva: “I sacramenti diventano insensati se non sono ancorati in una fede vissuta e condivisa. Occorre rinnovare la Chiesa non attraverso piani pastorali, ma attraverso la conversione.” E ancora, nel gennaio 2012 alla Congregazione per la Dottrina della Fede disse: «Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede […] deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni» È la stessa consapevolezza che ha mosso Dreher a formulare la sua “opzione”. Non si tratta di cambiare il mondo, ma di non lasciarsene svuotare.

Una strada stretta, non impossibile

Oggi occorre avere il coraggio di dirlo, senza retorica e senza giri di parole: vivere da cristiani è diventato difficile. E chi finge il contrario, mente a sé stesso e agli altri. Ma difficile non vuol dire impossibile. Difficile vuol dire che serve una scelta, che la fede non è più un’abitudine culturale ma una posizione esistenziale, e perciò chiede discernimento e coraggio.

Serve la forza di riconoscere che non tutto ciò che è ecclesiale è cristiano, che non ogni parola pronunciata in tono clericale è parola evangelica, e che non ogni silenzio è segno di prudenza. Serve la pazienza di fondare — nella preghiera, nella verità, nella sobrietà — e la lucidità di scegliere, anche controcorrente. Non stupisce allora che molti lamentino oggi l’incapacità di tanti vescovi di adottare decisioni chiare, capaci di scuotere le coscienze e di richiamare la società alla verità del Vangelo.

Non pochi sacerdoti — in silenzio, spesso con amarezza — confessano di sentirsi spaesati in una Chiesa dove si dà udienza al chiacchiericcio e si osteggia la verità, dove si accolgono con compiacenza insinuazioni e diffamazioni verso il clero, ma si guarda con sospetto chi, con libertà interiore, osa dire le cose come stanno.

È una Chiesa dove spesso si premiano i legami di convenienza, le amicizie strategiche, le reti familiari, gli interessi economici camuffati da relazioni pastorali. E si isola, si delegittima, si marginalizza chi sceglie di restare libero, proprio per poter continuare a dire, senza paura, la verità su ciò che accade. Molti preti si ritrovano soli, perché i loro vescovi non vogliono “scontentare nessuno” e finiscono così per scontentare tutti. Scelgono l’equilibrismo, l’inerzia, il “tenere insieme”, ma rinunciano alla scomodità evangelica di chi ha un solo fine: proclamare la Parola, anche quando brucia, anche quando lacera le ferite di una società smarrita.

È ora che famiglie, sacerdoti, comunità religiose, laici appassionati si uniscano per creare “piccole Norcia”, dove la fede non sia una parola ma una forma di vita. La vera “opzione” non è Benedetto. È Cristo. Benedetto, però ci mostra la strada.

p.M.R.
Silere non possum