La vicenda dei tre bambini di Palmoli – allontanati da un contesto abitativo insicuro e privi delle minime condizioni di vita, con una madre collocata in comunità insieme a loro e un tutore provvisorio nominato dal Tribunale per i minorenni – rivela un nervo scoperto del dibattito pubblico italiano: la concezione, ancora primitiva, della genitorialità come diritto assoluto e non come responsabilità. Una concezione talmente radicata in Italia che la politica, soprattutto la destra, interviene sistematicamente per distorcere fatti che riguardano la tutela dei minori trasformandoli in strumenti di propaganda.
Il dispositivo ideologico: “il figlio è mio”
Quando Matteo Salvini, senza conoscere gli atti, afferma che sarebbe “vergognoso” l’intervento dello Stato “nel merito dell’educazione privata”, tradisce apertamente l’idea che i figli siano proprietà della famiglia. È esattamente lo stesso paradigma che ha alimentato gli errori di Bibbiano: la convinzione che ciò che accade “in casa” appartenga solo ai genitori, anche quando i minori vivono situazioni pregiudizievoli. L'impianto culturale è sempre lo stesso: la famiglia come recinto sovrano, il figlio come estensione dell’adulto. Un pensiero antidemocratico, intriso di autoritarismo, che ha radici molto più profonde di quanto si creda. Nel lavoro di Alice Miller, psicoterapeuta svizzera, emerge un dato che attraversa secoli di pedagogia: l’infanzia è stata trattata come terreno da disciplinare, dove la volontà del bambino non doveva sopravvivere.
Nel libro “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza” Millar cita il pedagogo Johann Sulzer: «Se si riesce a privarli della loro volontà in quel periodo, poi essi non ricorderanno mai più di averne avuta una». Questa frase è la matrice culturale del “figlio-proprietà”: eliminare la volontà del bambino per costruire un adulto obbediente. Non un soggetto, ma un oggetto del genitore. Miller ricorda anche come la tradizione educativa abbia sempre legittimato l’uso della violenza, perché ciò che conta è la sovranità dell’adulto: «Le busse […] mirano a convincerlo che il padrone siete voi» (da J. G. Krüger, 1752) . Quando oggi certi politici parlano di “interferenze dello Stato” nella vita familiare, ripropongono - non sempre in modo inconsapevole - lo stesso impianto concettuale: il bambino non come persona titolare di diritti, ma come possedimento.
Cosa emerge dal caso Palmoli
L’ordinanza del Tribunale per i minorenni dell’Aquila non riguarda l’istruzione parentale, come alcuni vorrebbero far credere.
I giudici hanno rilevato: rischio per la vita di relazione (art. 2 Cost.), condizioni abitative prive di sicurezza statica, igienica e sanitaria, rifiuto dei genitori di consentire verifiche e trattamenti sanitari obbligatori, divulgazione irresponsabile sui media dell’identità dei minori e strumentalizzazione dei figli ai fini del procedimento. Inoltre, i bambini vivevano in un rudere fatiscente, privo di utenze, e in una roulotte nel bosco. Non si tratta quindi di “scelte di vita alternative” ma di condizioni che la legge definisce pregiudizievoli.
Il Tribunale ha agito esattamente nel solco di quanto la Miller considera fondamentale per spezzare il ciclo della violenza educativa: «La società ha diritto di sapere […] che cosa capiti realmente nella stanza dell’analista, giacché ciò che emerge […] ci riguarda tutti da vicino». La tutela del minore è una responsabilità pubblica perché i traumi infantili non restano confinati nella biografia: diventano materia viva della società.
La destra e la retorica della famiglia-santuario
Quando Salvini promette di andare dal padre, o quando invoca interrogazioni urgenti perché “non ci sono maltrattamenti”, dimostra di non comprendere la logica del diritto minorile, che non interviene solo in caso di violenza fisica. Esistono forme di trascuratezza, di manipolazione psicologica, di isolamento e di pericolo oggettivo che incidono gravemente sullo sviluppo. Del resto, la cultura politica della destra – non solo italiana – vede nel figlio un essere che deve obbedienza, non libertà. È lo stesso paradigma che rifiuta l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole, che chiede figli “silenziosi”, “disciplinati”, “contenuti”, che condanna senza vergogna i ragazzini che denunciano violenze familiari perché “devono rispettare i genitori”. E questo paradigma, Miller lo descrive con lucidità inquietante quando spiega perché la società protegge l’adulto anziché il bambino: «Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime».
È la stessa dinamica che ritroviamo nelle parole dei politici che difendono i genitori a prescindere, anche quando i fatti mostrano un grave danno ai figli.
La Chiesa cattolica e la zona grigia del paternalismo
Non è un caso se molte posizioni “proprietarie” sul figlio si muovono dentro contesti culturali segnati da un cattolicesimo deviato.
Ancora oggi esistono sacerdoti che giustificano l’uso della violenza “per motivi educativi” o che parlano di “difesa” del genitore adulto che colpisce un quindicenne. Questo paternalismo è figlio della stessa pedagogia nera che Miller documenta: «Accanto alle punizioni corporali, esiste tutta una gamma di sofisticati provvedimenti […] che sono difficilmente comprensibili dal bambino e che proprio per tale motivo hanno spesso conseguenze devastanti».
Quando si sostiene che il genitore abbia diritto di “correggere”, “plasmare”, “guidare” con metodi autoritari, la logica è sempre la stessa: il figlio non è un soggetto, ma un mezzo.
Responsabilità, non proprietà
La riforma del diritto di famiglia italiana ha abbandonato da anni la dicitura “potestà genitoriale”, sostituendola con responsabilità genitoriale: non un potere, ma un dovere. Non un diritto sul figlio, ma un obbligo verso il figlio. La politica che oggi si straccia le vesti per Palmoli mostra di non aver compreso nulla di questa evoluzione culturale e giuridica. Continuare a considerare il figlio come emanazione del genitore significa disprezzare l’autonomia del minore e impedire allo Stato di esercitare la propria funzione di garanzia e tutela del più fragile.
Alice Miller spiega ancora: «Il bambino viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti […] senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone». In casi come quello di Palmoli, il Tribunale è quel testimone. E questo non è affatto scontato, perché non mancano i casi in cui il Tribunale – espressione della stessa cultura che permea una società fragile come quella italiana – non interviene. In molte realtà piccole, segnate da familismo amorale, assistenti sociali, forze dell’ordine, pubblici ministeri e persino i giudici finiscono per proteggere la famiglia invece del minore: il risultato è che il soggetto vulnerabile resta esposto, e quei traumi lo accompagneranno per tutta la vita. A questo si aggiunge una difficoltà strutturale di questo Paese: siamo arrivati tardi a riformare il diritto di famiglia e ancora oggi operiamo dentro un codice segnato da un impianto fascista. Per questo fatichiamo a riconoscere la gravità dell’abuso psicologico e della violenza sottile, che non è solo fisica. Psicologi, psicoterapeuti ed esperti lo ripetono da anni, ma incontrano resistenze profonde nel far comprendere la portata reale di questo problema.
Una battaglia culturale prima ancora che giudiziaria
L’allontanamento dei tre minori non è un abuso dello Stato, ma l’esercizio di una funzione di tutela. Chi lo strumentalizza lo fa per ignoranza o convenienza politica, alimentando un clima ostile verso i professionisti che ogni giorno devono prendere decisioni drammatiche per proteggere i bambini. La destra – Matteo Salvini in testa - continua a cavalcare il mito del figlio-proprietà dimostrando in questo modo un vero e proprio analfabetismo giuridico. Ma quell’idea non è solo sbagliata: è pericolosa. Perché, come scrive Miller, «le sofferenze della prima infanzia si ripercuotono inevitabilmente sull’intera società».
Difendere i bambini significa difendere il futuro. Educare alla sessualità e all’affettività significa proteggere chi è vulnerabile. Possiamo moltiplicare norme sul “consenso” o sulla “violenza sessuale”, ma se non formiamo le persone e non insegniamo a riconoscere le emozioni, i confini, la sola repressione non risolverà il problema. È necessario ricordare a tutti - politici compresi - che nessun figlio appartiene ai genitori, e ancor meno allo Stato. Un figlio appartiene solo a sé stesso.
F.P.
Silere non possum