Questa mattina abbiamo vissuto la Messa Crismale in Cattedrale. Poco dopo, ci siamo ritrovati per un momento di fraternità: sacerdoti, consacrati e amici laici. Un tempo bello, semplice, vero. Eppure, mi è chiaro che non può e non deve restare confinato a una giornata liturgica. È stato, piuttosto, un’occasione per celebrare un dono immenso qual è il sacerdozio. Anche per ringraziare per l’amicizia, la comunione tra fratelli, quel legame che, se autentico, non si improvvisa e non si finge. Un confratello oggi scriveva su Silere non possumL’amicizia è una cosa seria. Chi non sa viverla, rischia di vivere in modo triste sia il proprio essere uomo che il proprio essere sacerdote. È una riflessione che condivido profondamente. E non posso non ricordare le parole del nostro padre spirituale in seminario: ci diceva che non eravamo lì perché “non in grado di essere buoni mariti”, ma perché — proprio nella capacità relazionale — eravamo chiamati a un discernimento più alto, a un dono consapevole.

Non si può davvero rinunciare a qualcosa se non si è mai stati capaci di viverla pienamente. È proprio questo il punto centrale su cui insiste anche san Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: il celibato non può essere una fuga dalle relazioni o dalle responsabilità affettive, ma deve nascere da una scelta libera, consapevole, profondamente radicata nella capacità di amare. Il celibato non è per chi non vuole impegnarsi, ma per chi sa farlo fino in fondo.

Eppure, oggi, nonostante l’abbondanza di fervorini e belle parole, ci troviamo spesso di fronte a ordinazioni che sembrano il risultato di un’assenza di alternative, più che di una vocazione autentica. Questo è ciò che più inquieta: vedere che proprio queste persone, spesso fragili o irrisolte, diventano i beniamini dei formatori, dei vescovi, dei responsabili del clero. E ci si chiede: su quali criteri si fondano davvero certe scelte?

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