La Chiesa, nelle sue intenzioni più pure, dovrebbe essere la casa dell’accoglienza, un grembo materno che non espelle ma genera, che non giudica ma accompagna, che non misura i passi degli uomini sulla bilancia della perfezione, ma li sostiene nella loro fragilità. Eppure, troppo spesso, essa appare come una matrigna: più pronta a scagliare pietre che a guarire ferite, più interessata a difendere un’immagine astratta di purezza che ad abitare concretamente la fragilità umana.

È un paradosso amaro che molti chierici e fedeli sperimentano sulla propria pelle: il luogo che dovrebbe essere casa diventa spesso un tribunale; il banco della comunione, più che tavola di fratelli, si trasforma in banco degli imputati.

L’ambiente giudicante: non solo gerarchia

Siamo abituati a puntare il dito verso la gerarchia ecclesiastica, attribuendo a preti, vescovi e cardinali la responsabilità di questo clima asfissiante. Ma la verità, più scomoda e dunque più difficile da ammettere, è che il problema si annida anche – e forse soprattutto – nei laici. Sono spesso proprio loro, coloro che siedono accanto nei banchi della messa domenicale, a creare un ambiente tossico fatto di confronti, sguardi di disapprovazione, mormorazioni e giudizi spietati.

Parliamo anche di personaggi che in Chiesa non mettono mai piede ma comunque hanno la presunzione di parlare o scrivere di Chiesa. 

Molti di questi laici si presentano come difensori della tradizione, dei riti, del magistero. Rivendicano un’ortodossia apparente, fatta di citazioni di encicliche, di rubriche e Concili passati, di richiami all’ordine e al rigore. Ma questa veste di purezza rischia di essere solo una maschera: spesso dietro il sipario di un linguaggio devoto si nasconde una vita quotidiana ben più contraddittoria, fatta di incoerenze morali e di scelte personali discutibili.

Ci sono coloro che si scagliano contro gli omosessuali, e poi vivono una doppia vita nell’ombra e all’insaputa di moglie e figli; ci sono coloro che si scagliano contro la maldicenza quando in realtà sono i primi promotori di veleno, ecc…

Qui si manifesta il meccanismo della proiezione psicologica: l’altro diventa lo specchio su cui rifletto ciò che non sopporto di me stesso. Invece di riconoscere le mie ombre, le scarico sull’altro, additandolo come peccatore, eretico o “fuori strada”. C’è chi ha addirittura accusato il Papa di essere un blasfemo, il che è tutto dire. Si tratta di un fenomeno antico, che Freud descriveva come difesa dell’Io, e che in ambito religioso diventa ancora più insidioso perché rivestito di panni sacri.

Sadismo spirituale: il piacere del vedere l’altro cadere

Non si tratta solo di un giudizio superficiale. C’è un atteggiamento sadico che emerge con inquietante frequenza. È la postura di chi, nascosto dietro la finestra, attende che il vicino cada per potersi compiacere della sua rovina. La cronaca ecclesiale ne offre esempi quotidiani: basta osservare il modo in cui certi fedeli – e purtroppo anche molti sacerdoti – in queste ore commentano le crisi o le difficoltà di un confratello.

Un prete in difficoltà, un religioso che attraversa un momento di crisi vocazionale, un laico che sbaglia pubblicamente: tutto diventa spettacolo da consumare, terreno fertile per il pettegolezzo e la derisione. Tutto si fonda sul “sentito dire”, “sembra che”, ecc…Non di rado si tratta di vere e proprie menzogne e quei leoni da tastiera, una volta in tribunale, si rivelano docili gattini. Ma tutto questo rivela, in realtà, una profonda assenza di fede.

Non c’è empatia, non c’è cura, ma solo l’attesa di un fallimento altrui che confermi, per contrasto, la propria apparente stabilità. “Se gli altri vanno giù, io sembro più in alto”.

Si potrebbe parlare di una sorta di “voyeurismo spirituale”: come chi osserva dal buco della serratura non per aiutare ma per soddisfare la propria curiosità morbosa. E qui non si tratta di pochi casi isolati: il fenomeno è diffuso, trasversale, e mina profondamente la credibilità della comunità cristiana.

Il clero non è immune

Sarebbe ingenuo pensare che questo atteggiamento sia confinato ai laici. Il clero stesso ne è spesso vittima e carnefice. La verità, tuttavia, ci obbliga a riconoscere che il nocciolo del problema non si trova anzitutto nel clero.

Ci sono anche sacerdoti che dedicano più tempo a discutere dei confratelli che a pregare, religiosi che vivono più di rancori che di fraternità, parroci che trasformano la comunità in un feudo personale e passano ore a diffondere sospetti piuttosto che a coltivare relazioni.

Si tratta, anche qui, di dinamiche psicologiche ben note: l’invidia per incarichi non ricevuti, l’amarezza per carriere mancate, il rancore verso superiori che non hanno riconosciuto i propri talenti. Tutto questo si traduce in un clima tossico, dove l’altro non è mai fratello ma rivale, non è compagno di viaggio ma ostacolo.

C’è chi trova sfogo nel cibo – e i risultati sono sotto gli occhi di tutti – e chi invece nei pizzi e merletti. Proprio a questi si riferiva Francesco quando, pur generalizzando, li bollò senza esitazioni come “rigidi”.

La mancanza di realizzazione personale – che sia sul piano spirituale, intellettuale o persino materiale – diventa allora terreno fertile per quella che Viktor Frankl avrebbe definito una “nevrosi noogena”, cioè una crisi di senso che cerca sollievo nel distruggere l’altro piuttosto che nel costruire insieme.

Quando la comunità si trasforma in tribunale

Il risultato è che molte persone, trovandosi immerse in questo ambiente giudicante, scelgono altre realtà: c’è il prete che lascia il ministero, c’è il laico che prende le distanze ed anche il religioso che sceglie di creare altre comunità prendendo le distanze da quelle di origine. 

Il vero dramma è questo: se entri in un manicomio, i ricoverati ti indicheranno come pazzo. È lo stesso atteggiamento che spesso assumono preti e laici nelle comunità ecclesiali, pronti a guardare dall’alto in basso, giudicare e perfino diffamare chi decide di andarsene. È accaduto, di recente, persino con comunità religiose di grande valore.

Manda la fede. Questo è ciò che dobbiamo ammettere. Se fossimo davvero innamorati di Gesù Cristo ci chiederemmo perché le persone se ne vanno, ci interrogheremmo.

La Chiesa si ritrova così ad essere non madre ma matrigna: più attenta a puntare il dito che a comprendere, più interessata a difendere la forma che a custodire la sostanza. Attira anche casi patologici, piuttosto che fomentare un clima di fraternità e comprensione. E qui si tocca un nodo decisivo: il cristianesimo non è mai stato – e non dovrebbe mai diventare – una religione del giudizio.

Il Vangelo come smentita

Basta rileggere il Vangelo: Gesù non si presenta mai come giudice inquisitore. Anzi, nei confronti degli ipocriti – coloro che usano la religione per condannare gli altri – ha parole durissime. «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1) non è un semplice consiglio morale, ma la regola di fondo di una comunità che vuole essere specchio del Regno.

Resta, certo, il fatto che alla Chiesa spetta il compito di indicare, guidare e orientare. Giudicare e condannare – spesso sulla base di pregiudizi – è tutt’altra cosa, e ben lontana dal mandato di Cristo.

Eppure, duemila anni dopo, il cristianesimo sembra essersi capovolto: chi si erge a difensore della verità è spesso il primo a brandire il giudizio come arma, dimenticando che la verità senza carità diventa ideologia sterile.

La dimensione sociologica del giudizio

Sul piano sociologico, questo fenomeno si può leggere come una forma di controllo sociale. Le comunità chiuse – e quelle religiose spesso lo sono – usano il giudizio come strumento per mantenere l’omogeneità, per reprimere la differenza, per spegnere l’originalità. È la deriva settaria di cui spesso siamo parte. 

Chi non si adegua al modello dominante viene escluso, deriso, marchiato come “altro”.È un meccanismo antico quanto le tribù primitive, che allontanavano il diverso per preservare la coesione interna. Ma il cristianesimo, almeno per come lo voleva Cristo, è nato proprio per rompere questa logica, per accogliere chi era scartato, per fare della diversità non una minaccia ma una ricchezza.

Accoglienza come criterio

Il futuro della Chiesa – se davvero vuole essere fedele al Vangelo – non potrà che passare da una riscoperta radicale dell’accoglienza. Non un’accoglienza ingenua o permissiva, ma quella che nasce dal riconoscere che ciascuno è più grande delle sue cadute, dei suoi difetti, che la dignità di una persona non si esaurisce nei suoi errori.

Questo significa cambiare atteggiamento: smettere di guardare l’altro con l’intento di giudicarlo ma con la voglia di scoprirlo e ricominciare a vederlo come fratello. Significa che le parrocchie non possono più essere piccoli covi di serpi dove si decretano assoluzioni o condanne, ma laboratori di fraternità dove si sperimenta la misericordia. I circoli filoclericali non devono essere il luogo in cui far passare le proprie repressioni proiettandole sugli altri ma piuttosto ambienti di confronto e di sostegno. 

Una conversione necessaria

Leone XIV ai ministranti ha lanciato un appello accorato: “la mancanza di sacerdoti in Francia, nel mondo, è una grande disgrazia!”

Questo dramma trova spazio anche in queste dinamiche. Le vocazioni, infatti, non mancano. C’è un dramma più profondo che rende la Chiesa un luogo nel quale non conviene stare, tantomeno da ordinati.
In fondo il vero dramma è la mancanza di fraternità autentica. È il giudizio che corrode le relazioni, che spegne la speranza, che trasforma il Vangelo in un codice penale da brandire contro i nemici.

La sfida non è facile, perché tocca corde profonde della psicologia umana e della nostra spiritualità: l’invidia, la paura, la repressione, il bisogno di affermarsi svalutando l’altro. Ma proprio qui si gioca la credibilità del messaggio cristiano.

Se la Chiesa vuole tornare ad essere madre, deve smettere di fare la matrigna. Deve smontare i tribunali invisibili che ha costruito al suo interno, ridare spazio al silenzio, alla preghiera, all’ascolto, e soprattutto a quella carità che – come ricordava Paolo – è l’unico criterio che non passerà mai.

Solo allora i cristiani smetteranno di guardarsi con sospetto e potranno finalmente riconoscersi per ciò che sono: fratelli.

d.E.R. e S.D.
Silere non possum