Abbiamo appena terminato la Veglia delle Palme e l’abbiamo vissuta con diversi interrogativi. In diverse diocesi italiane si sta diffondendo una tendenza curiosa e, per certi versi, inquietante: trasformare il presbiterio in un palcoscenico. Spettacolini, balletti, performance artistiche, scenografie improvvisate… L’altare, centro del Mistero eucaristico, diventa talvolta il supporto per barchette di cartone, immagini sceniche, schermi e oggetti vari. Il tutto con un obiettivo dichiarato: attirare i giovani.
Questa sera mi trovavo in fondo alla chiesa. Di tanto in tanto, vedevo persone affacciarsi incuriosite: la Cattedrale era aperta, e a quell’ora non è cosa scontata. Alcuni entravano con discrezione, spinti forse da un desiderio o semplicemente dalla bellezza del luogo. Ma bastava uno sguardo alle luci colorate — costose, peraltro — e ai balletti, per vedere affiorare sui loro volti un’espressione perplessa. Qualcuno ha fatto dietrofront. Silenziosamente, se n’è andato. E mi sono chiesto: abbiamo davvero raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissi? Queste “forme nuove” sono un vero ponte verso il cuore dei giovani, o finiscono solo per allontanare chi cerca qualcosa di più profondo? Forse, senza volerlo, stiamo offrendo un’immagine della Chiesa che non affascina ma disorienta. Una Chiesa che, nel tentativo di essere accogliente, smarrisce la propria voce.
Il paradosso dell’intrattenimento in chiesa
In un mondo saturo di stimoli, dove ogni app lotta per qualche secondo d’attenzione, c’è il rischio che anche la Chiesa cada nella tentazione di “essere notata”, confondendo l’annuncio del Vangelo con la ricerca del consenso. Così si introducono balli liturgici, sketch teatrali, luci colorate o celebrazioni-spettacolo, convinti che la “creatività” basti a fare breccia nei cuori. Ma i giovani – quelli veri, quelli che cercano senso, profondità, bellezza – non hanno bisogno di una Chiesa che li imiti. Hanno bisogno di una Chiesa che sia sé stessa, senza vergogna della propria identità. Una liturgia che tenta di “intrattenere” finisce solo per perdere la propria forza. Come scriveva Joseph Ratzinger: “La liturgia è ‘fatta’ per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno essa è attraente”.

Quando la fede diventa spettacolo, perde autorevolezza
Un balletto in chiesa può anche strappare un sorriso, forse persino un applauso. Ma poi? Che cosa rimane davvero? Anche i giovani presenti questa sera in Cattedrale – lì soprattutto perché si trattava di un evento diocesano, non certo per consuetudine – sembravano in parte divertiti.
Ma è un divertimento che lascia il tempo che trova. Anzi, a tratti si percepiva perfino un certo imbarazzo. Il rischio è che, nel tentativo di “fare qualcosa per i giovani”, finiamo semplicemente per sembrare ridicoli ai loro occhi. Se un ragazzo volesse andare in un luogo con delle luci psichedeliche, andrebbe in discoteca, non in chiesa.
Ci siamo mai chiesti chi sono, poi, quelli che organizzano questi eventi? Chi sono coloro che offrono le loro idee ai responsabili della pastorale giovanile e dei centri oratori? Spesso si tratta di ragazzi e ragazze che vivono gran parte delle loro giornate in oratorio, ma che faticano ad avere una reale relazione con i loro coetanei fuori da quell’ambiente. Talvolta diventano persino le guide dell’oratorio, quelli che vogliono comandare sul curato e sul parroco e creano divisione nella comunità. Ma non è questa la strada per attirare gli altri. L’energia messa nello scegliere i teli da stendere ai piedi dell’altare, le candeline decorative, le luci colorate… tutto sembra più un gioco di protagonismo che una vera proposta di fede. Perché sì, chi organizza si sente al centro, si sente “regista” dell’evento. Ma i cosiddetti “ragazzi normali” - come piace chiamarli a noi - di fronte a tutto questo non provano attrazione. Provano imbarazzo.
E poi ci sono i canti. Sempre gli stessi: Gen Verde, Gen Rosso, e le loro infinite varianti cromatiche. Canzoni ascoltate milioni di volte, proposte con l’intento di coinvolgere, ma che non aiutano davvero a pregare. E intanto, dimentichiamo che la Chiesa possiede un tesoro musicale immenso, che qualcuno ha arbitrariamente deciso che ai giovani “non piace”. Ma chi l’ha detto? Non è vero, e dovremmo avere il coraggio di ammetterlo. Dopo anni passati a cantare sempre “Sei Re, sei Re”, magari per tre, quattro veglie di seguito, anche i più santi si stufano. È tempo di chiederci con onestà: ciò che proponiamo è autentico o solo un tentativo goffo di inseguire un’idea sbagliata di “gioventù”? Quando il sacro viene trasformato in un palcoscenico, il messaggio rischia di annegare nel gesto teatrale. I giovani sanno distinguere ciò che è autentico da ciò che è costruito. E quando percepiscono che qualcosa è forzato, progettato “per loro”, ma senza verità, si allontanano. Non per ribellione, ma per disillusione. La liturgia non ha bisogno di aggiustamenti mondani per essere incisiva. È già, di per sé, profondamente umana e tremendamente divina. È incontro con il Mistero, e non con l’intrattenimento.
Il linguaggio del sacro parla più di mille parole
Silenzio. Bellezza. Ordine. Mistero. Queste sono le cose che toccano davvero. In un’epoca che urla, una liturgia che tace e contempla diventa più provocante di qualsiasi show. Lo vedo, ad esempio, quando parlo ai giovani della vita dei monaci e delle monache. Ne sono attratti, affascinati. Il punto non è essere “tradizionalisti” o “modernisti”, ma essere autentici. È questo ciò che attrae i cuori inquieti dei giovani: la verità vissuta. La fede celebrata come Mistero, non come show.
Una Chiesa giovane non è una Chiesa che balla, ma che ama
La Chiesa non deve diventare “giovane” perché mette musica pop nella Santa Messa o organizza musical sul presbiterio. È giovane quando vive il Vangelo con radicalità, quando osa proporre la santità come vocazione reale, quando trasmette il fascino di una liturgia che porta in cielo, non che cerca applausi sulla terra. Perché i giovani, in fondo, cercano Dio. E Dio non ha bisogno di effetti speciali per essere incontrato. Ha solo bisogno di essere accolto, vissuto, celebrato con cuore puro.
p.C.P.
Silere non possum