Nei giorni scorsi in parrocchia si è verificato un episodio tanto semplice quanto rivelatore. Un seminarista, in visita durante il tempo delle vacanze, si è sentito rivolgere un invito naturale dal parroco: partecipare come ministrante alla Santa Messa vespertina, un gesto che sarebbe sembrato ovvio per chi si sta preparando al sacerdozio. La risposta, però, ha lasciato interdetti: “No, non posso, perché se qualcuno facesse delle foto e le pubblicasse, e le vedesse il rettore o il vescovo, direbbero subito che durante le vacanze i seminaristi vanno a fare le sfilate nelle parrocchie”. Sarebbe troppo facile liquidare l’episodio come una “paranoia” da parte di un giovane ancora in formazione. Il problema, invece, è strutturale. Questo tipo di risposta non nasce dal nulla: rivela un clima, un ambiente formativo in cui il sospetto prevale sulla fraternità, la prudenza si trasforma in paura, e la devozione diventa un rischio.
Un sintomo di disagio formativo
Se un seminarista arriva a interrogarsi sull’opportunità di servire all’altare per timore che i formatori possano giudicarlo — non sulla base del gesto liturgico in sé, ma dell’immagine che potrebbe veicolare — allora il problema non è suo, ma di chi lo forma. Un ambiente in cui l’attenzione si concentra su ciò che “può sembrare”, più che su ciò che è, finisce per disorientare anche i più benintenzionati. Quando la Santa Messa, centro della vita cristiana e luogo sorgivo della vocazione sacerdotale, diventa campo minato di sospetti e retropensieri, è segno che qualcosa si è smarrito nella priorità educativa.
In un tale clima, l’azione liturgica non è più letta come atto di fede e di servizio, ma come gesto “schierato”, da interpretare secondo categorie di contrapposizione. È così che nascono irrigidimenti, diffidenze reciproche, e una formazione che invece di liberare, ingabbia. Se un giovane deve chiedersi se servire all’altare “lo farà apparire” in un certo modo, allora chi lo accompagna nel discernimento dovrebbe chiedersi se non stia formando più al timore delle etichette che all’amore per il Mistero.
Se poi quel giudizio proviene da chi dovrebbe essere guida e padre — rettore, vescovo, formatori — e si esercita in termini di chiacchiera, sospetto, deduzione malevola, allora la ferita diventa più profonda. Perché il giovane, invece di sentirsi custodito nella verità, si sente spiato nei gesti più semplici. E inizia, inevitabilmente, a pensare che tutto sia soggetto a fraintendimento, a calcolo, a paura.
Il virus del sospetto
Il sospetto è una delle più subdole forme di corruzione del cuore. Dove entra, corrode i rapporti, svuota la fiducia, snatura persino i gesti più belli. In seminario come nella vita presbiterale, è un veleno che si insinua silenziosamente: si comincia col pensare che “gli altri” stiano giudicando, si continua col trattenersi dal bene per paura delle apparenze, e si finisce col vivere tutto — anche l’altare — come un palcoscenico da evitare. Il sospetto trasforma i gesti liturgici in “sfilate”, le amicizie in “cordate”, la carità in “strategia”. E così, lentamente, il sacro viene desacralizzato proprio da chi dovrebbe custodirlo.
Una pedagogia della libertà
Se davvero vogliamo vocazioni autentiche, dobbiamo avere il coraggio di riformare la pedagogia del prete alla radice. I giovani non vanno educati alla cautela sociale, ma alla libertà interiore. Non vanno istruiti a “non farsi vedere con quello o l’altro prete, in quella o quell’altra parrocchia”, ma a vivere con naturalezza il proprio legame con Cristo e con il popolo di Dio. Il discernimento vocazionale non può fondarsi su criteri sospettosi: “serve la Messa nella parrocchia del prete tradizionalista”, “ha troppi amici preti”, “fa troppe domande”, “sta troppo con i religiosi”, “ride troppo”, “è troppo silenzioso”. La vocazione non si misura con l’algoritmo del conformismo clericale, ma con la libertà del cuore, la capacità di amare, servire, obbedire, discernere.
Un riferimento evangelico
Gesù non temeva di farsi vedere con nessuno. Addirittura mangiava con pubblicani e peccatori, camminava con donne di cattiva fama, guariva di sabato. Non lo faceva per provocare, ma perché il bene non conosce paura o calcolo. La sua “sfilata” era quella del servo che si cinge i fianchi e lava i piedi. Se oggi un seminarista teme di essere fotografato mentre serve la Messa — perché qualcuno potrebbe malignare — allora forse dovremmo chiederci: quale Cristo stiamo insegnando a seguire? Il vero scandalo non è un seminarista che serve la Santa Messa in una parrocchia, ma una comunità educante che lo dissuade dal farlo. E questo non per zelo, ma per timore. Non per prudenza, ma per diffidenza. È tempo di smascherare questa cultura, che non è “prudente”, ma pusillanime. E iniziare a costruire — nella formazione, nella fraternità e nell’esercizio dell’autorità — una Chiesa che non segua le logiche del chiacchiericcio, anche quando è edulcorato da “preoccupazione pastorale”. Perché la Santa Messa non è il luogo dove individuare il Tradizionalista o il Modernista, ma è il momento in cui Cristo muore in Croce!
d.E.L.
Silere non possum