C’è un momento, nella vita di ogni presbitero, in cui il verbo servire deve coniugarsi con un’altra parola spesso trascurata: lasciare. Non si tratta di una fuga, né di un fallimento, ma del compimento stesso del servizio. Papa Francesco, nel Motu Proprio “Imparare a congedarsi” (2018), lo ha espresso con una chiarezza disarmante: “La conclusione di un ufficio ecclesiale deve essere considerata parte integrante del servizio stesso, in quanto richiede una nuova forma di disponibilità.”

Dietro queste parole non c’è soltanto una disposizione amministrativa - quella che regola la rinuncia per raggiunti limiti d’età dei vescovi e dei titolari di uffici di nomina pontificia - ma una visione spirituale e antropologica del ministero. Francesco chiese ai pastori di “prepararsi davanti a Dio”, spogliandosi del desiderio di potere e dell’illusione di essere indispensabili. Solo così, disse, il congedo diventa un atto di fede: non un tramonto, ma una pasqua del servizio.

Al di là del linguaggio di Francesco, spesso centrato sul tema del potere e della sua rinuncia, il punto più profondo di questa questione, in realtà, è una capacità psicologica e spirituale: quella del sano distacco. È una forma di maturità interiore che tutti, nella Chiesa, siamo chiamati a coltivare: dai laici che esercitano responsabilità nei movimenti e nelle associazioni, ai parroci che devono lasciare la propria comunità per un nuovo ministero, fino ai vescovi chiamati a servire un’altra diocesi. Il rischio, che talvolta diventa persino un abuso, è quello di legare le persone o le opere a sé stessi, anziché a Cristo. È una tentazione sottile: pensare che senza di noi nulla potrà più essere come prima, o che la nostra presenza sia indispensabile alla vita di una comunità. Ma il Signore non si serve di noi come padroni, bensì come strumenti nelle sue mani. Quando la Chiesa ci chiede di lasciare un incarico per assumerne un altro, siamo chiamati a farlo con libertà e obbedienza, ma anche con delicatezza, liberando quelle persone e quelle realtà che dovranno accogliere il nostro successore. Solo chi sa lasciare senza trattenere testimonia davvero che tutto appartiene a Dio, non a noi.

Il coraggio di porre un limite

Francesco non fu il primo ad affrontare la questione del limite. Mezzo secolo prima, nel 1970, san Paolo VI aveva promulgato un altro Motu Proprio, “Ingravescentem Aetatem”, con il quale stabiliva le soglie di età per i cardinali. Quel testo segnò una svolta storica: per la prima volta veniva fissato un limite ai poteri cardinalizi. A 75 anni, i cardinali preposti ai dicasteri della Curia Romana erano “pregati di presentare spontaneamente la rinuncia” al Papa. A 80 anni, cessavano di essere membri dei dicasteri e perdevano il diritto di eleggere il Romano Pontefice. Fu una decisione coraggiosa. Paolo VI comprese che la dignità dell’ufficio non coincide con la sua durata, e che l’età avanzata, pur accompagnata da saggezza, può indebolire la prontezza di governo. “Il bene superiore della Chiesa”, scriveva, esige di considerare il peso dell’età come parte del discernimento. Con lui la Chiesa imparò che il potere, anche quello spirituale, ha bisogno di essere temperato dal tempo.

Oggi, le norme della Chiesa fissano con chiarezza il quadro del “congedo” per motivi d’età. Al compimento dei settantacinque anni, i vescovi diocesani ed eparchiali, come pure i capi dicastero non cardinali, i prelati superiori della Curia Romana e i rappresentanti pontifici, sono tenuti a presentare al Papa la rinuncia al proprio ufficio. Tuttavia, questa rinuncia non produce effetto immediato: essa deve essere accettata dal Pontefice, che valuta le circostanze concrete e può decidere di prorogare l’incarico per un tempo determinato o indeterminato.  

Non mancano esempi di cardinali che hanno continuato a guidare una diocesi anche oltre gli ottant’anni: tra questi, il cardinale Celestino Aós Braco. Con il Motu Proprio di Papa Francesco, tuttavia, la conclusione di un incarico non è più concepita come un semplice adempimento burocratico, ma come un atto di discernimento ecclesiale, da vivere nella libertà dello spirito e nella fiducia verso l’opera di Dio che continua anche attraverso altri. Diverso è il caso dei cardinali, per i quali restano in vigore le disposizioni emanate da Paolo VI nel Motu ProprioIngravescentem Aetatem (1970): al raggiungimento dei settantacinque anni essi sono invitati a presentare le dimissioni dagli incarichi curiali, mentre con il compimento degli ottant’anni cessano automaticamente di essere membri dei dicasteri e perdono il diritto di eleggere il Romano Pontefice. Nessuna dispozione, però, per coloro che guidano le diocesi. È un doppio limite – giuridico e simbolico – che ricorda come ogni incarico, anche il più alto, sia temporaneo, e come l’età non segni la fine di una missione, ma l’inizio di una nuova forma di servizio, più silenziosa ma non meno feconda.

p.I.A
Silere non possum