Città del Vaticano - Nel linguaggio dei documenti ecclesiali c’è sempre un equilibrio sottile tra il detto e il non detto. Anche il Secondo Rapporto Annuale della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, pubblicato per il periodo di riferimento 2024, si muove su quella linea incerta che separa la volontà di trasparenza dal rischio della semplificazione. È un testo importante, denso di propositi e di metodo, ma proprio per questo merita una lettura che non si fermi alla superficie. La Chiesa - si legge fin dalle prime pagine - è chiamata a un cammino di “Giustizia e Conversione”, articolato in quattro pilastri: verità, giustizia, riparazione e riforma istituzionale. È una formula nobile, e tuttavia, come spesso accade, la nobiltà delle intenzioni può oscurare le tensioni interne al sistema che la produce.
Il Rapporto nasce con un’impostazione dichiaratamente “victim-centered”: la Commissione ascolta le vittime, raccoglie le loro testimonianze, elabora con loro un quadro di “riparazione integrale”. È un linguaggio che restituisce la voce a chi per decenni è stato ridotto al silenzio, e questo è un bene. Ma, dal punto di vista giuridico – e ancor più per chi desidera una reale ricerca della verità – la questione decisiva è un’altra: dove si fonda la verità del fatto, e chi ne è realmente garante?
In nessuna parte del documento si trova un riferimento esplicito alla necessità di distinguere tra accusa e condanna, tra il dolore soggettivo e la responsabilità oggettiva. La riparazione — si legge — è “responsabilità della Chiesa di accompagnare le vittime/sopravvissuti nel loro percorso di guarigione e risanamento”. Ma non si precisa mai quando, e su quale base, la Chiesa debba ritenersi moralmente e giuridicamente responsabile di un abuso. Così, il concetto di riparazione, che nasce come atto di giustizia, rischia di diventare un automatismo morale: si ripara perché si deve, anche quando non è chiaro se vi sia stata colpa, dolo o perfino un fatto accertato.
La Commissione sembra del tutto inconsapevole di questa deriva, e lo dimostra il linguaggio, spesso sproporzionato, che attraversa il documento. A un certo punto si raccomanda di “assicurare centri di ascolto accoglienti”, di offrire “sostegno psicologico professionale” e di garantire una “comunicazione proattiva e trasparente con le vittime”. Ma proprio questa inconsapevolezza genera un problema che ricade su tutti: sulle presunte vittime come sui presunti aggressori. Senza un autentico accertamento della verità, infatti, tutti finiscono per essere puniti - tranne chi può contare su protettori. Il caso di Marko Ivan Rupnik ne è l’esempio più eloquente.
Lì dove il testo parla di “
protocollo semplificato per la dimissione o rimozione di leader e responsabili”, si percepisce una deriva pericolosa: la necessità di tutelare i minori e le vittime si trasforma in prassi di
auto-protezione istituzionale, in cui l’accusato, anche se non ancora giudicato, è sacrificato sull’altare dell’immagine. I casi di
sacerdoti riconosciuti innocenti dopo essere stati pubblicamente accusati e sospesi o rimossi dai propri incarichi sono numerosi.
Non si tratta, ovviamente, di negare la necessità di punire i colpevoli, ma di evitare che la paura sostituisca la giustizia. La Chiesa, che pure ha un ordinamento giuridico proprio, rischia di farsi travolgere dalla logica del sospetto mediatico. Considerato che negli ultimi anni la giustizia canonica è divenuta sempre meno affidabile e spesso amministrata secondo criteri opachi — analoghi a quelli con cui è stato redatto il presente rapporto — occorre fare riferimento ai dati delle
condanne penali effettivamente emesse dagli Stati.
Il Rapporto, nelle sue raccomandazioni, invita i vescovi a rendere pubbliche le ragioni delle dimissioni “
rispettando la privacy e la presunzione di innocenza”. Ma l’accostamento stesso di queste due espressioni rivela la tensione irrisolta: come si può rendere pubblica una decisione e al tempo stesso garantire la presunzione d’innocenza? Nel diritto canonico, il
canone 220 tutela la buona fama e la riservatezza delle persone. Nel linguaggio pastorale di questo documento, invece, la reputazione appare subordinata alla “trasparenza comunicativa”.
È un rovesciamento pericoloso, perché la giustizia non si fa con i comunicati stampa, ma con l’equilibrio dei fatti accertati.
C’è un’altra ombra che attraversa il testo: quella dell’
asimmetria metodologica. Il Rapporto si costruisce sull’ascolto delle vittime, ma non prevede alcuna forma di ascolto parallelo degli accusati. Le “risultanze e osservazioni” della Commissione, pur presentate come raccomandazioni, finiscono per creare un corpus di valutazioni che può incidere concretamente sulla vita di persone e istituzioni, senza un contraddittorio reale. È un sistema che accumula testimonianze ma non verifica responsabilità. In questo senso, il documento — pur animato da sincero desiderio di giustizia — si muove più nel campo della “psicologia clericale deviata” che in quello del diritto. Eppure, la Chiesa, se vuole essere credibile, deve saper distinguere tra
colpa morale e
colpa giuridica: la prima chiede conversione, la seconda richiede prova.
Chi ha a cuore la giustizia - quella vera, che non si piega né alla paura né al sentimentalismo - non può non interrogarsi su questo linguaggio. Parlare di “riparazione” senza distinguere tra colpe e innocenze, proporre “scuse pubbliche” senza un accertamento dei fatti, e invocare “comunicazione trasparente” senza garanzie di difesa significa indebolire proprio quel principio che si vorrebbe servire. Il male dell’abuso, nella sua gravità innegabile, non può essere guarito con un male di segno opposto: la presunzione di colpa.
Ci troveremo, fra qualche anno, a dover fare commissioni per riparare questi abusi commessi per riparare gli abusi. Una Chiesa che vuole davvero convertirsi deve imparare non solo a chiedere perdono, ma anche a discernere, con giustizia, chi deve chiederlo.
Il Rapporto parla di
“Giustizia e Conversione”, ma la giustizia non è un sentimento, e la conversione non è un automatismo. C’è un momento in cui il linguaggio della tutela deve lasciare spazio al silenzio del diritto, a quella pazienza che attende la verità dei fatti. Solo allora la riparazione sarà reale, perché non nascerà dalla paura di sbagliare, ma dal coraggio di riconoscere — senza pregiudizio e senza fretta — chi ha sofferto e chi, pur falsamente accusato, ha continuato a credere che la verità, prima o poi, prevale.
C.A.
Silere non possum